''DOPO IL PRIMO ANNO DI ACCADEMIA ERO CANE COME POCHI ATTORI AL MONDO. PORCA TROIA SE ERO CANE, ERO UN CANE DANNATO''. FAVINO A 50 FA UN BILANCIO DELLA SUA VITA E RACCONTA IL PERIODO BUIO: ''ERO COME LOBOTOMIZZATO, UNA SONNOLENZA APATICA. AFFOGAVO LA NOIA NELLO SPORT, POI HO AVUTO LA MIA ADOLESCENZA TARDIVA CON LE RELATIVE CAZZATE - MAI AVUTO CONSAPEVOLEZZA DELLA MIA BELLEZZA. A 34 ANNI UN UOMO CON LA MIA FACCIA FORSE DIVENTA INTERESSANTE, MA A 20 NO. A VENTI ERO FACCIOSO - NELLA VITA SE SEI FORTUNATO PUOI AVERE…''

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Malcom Pagani per Vanity Fair

 

l ultimo bacio cast favino pasotti accorsi santamaria l ultimo bacio cast favino pasotti accorsi santamaria

Le voglie e le esplosioni irrazionali, i primi passi, gioie e dispiaceri: «Non avevo mai fatto l’amore e di quel preciso istante ricordo tutto. Le aspettative e i sogni di cui avevo caricato quel momento. L’emozione, il tremore, il luogo, gli odori, le pareti della stanza, il silenzio del dopo. Ero sconvolto, scioccato, elettrizzato, quasi drogato dalla felicità: non dormii per due giorni». Pierfrancesco Favino non ha dimenticato i dubbi dell’adolescenza: «Non facevo altro che ripetermi: “Quando sarò grande” fantasticando così tanto sul mio futuro che quando il domani è arrivato non me ne sono quasi reso conto» e nel dare ordine agli Anni più belli, ora che Gabriele Muccino gli ha chiesto di interpretarli e le stagioni sono 50, scopre che l’innocenza dell’età è solo una questione di prospettiva:

 

 «“Non sarò mai come mio padre, non sarò mai come mia madre. Non sarò mai come i miei genitori”. Lo abbiamo detto tutti: per salvarci, per affrancarci, per illuderci di “diventare noi veramente noi”, come cantava Battisti. E poi alla fine scopriamo che non solo altro non siamo che un’evoluzione della matrice originaria, ma che se non discendessimo da un esempio, non avremmo mai potuto compiere quell’evoluzione. Non ci stanno cazzi, l’imprinting, fortissimo, esiste: nei compagni di vita che ci scegliamo, nelle nostre aspirazioni, nel modo di relazionarci alla realtà». Dei tre personaggi maschili degli Anni più belli, un idealista, un irrisolto e un pragmatico, Favino veste i panni del terzo. Il figlio di un meccanico manesco che dall’antro buio di un sottoscala, partendo da zero, trova la propria luce nell’affermazione sociale: «È uno che fa le cose, le costruisce e ci mette le mani senza paura».

gli anni piu belli favino santamaria rossi stewart gli anni piu belli favino santamaria rossi stewart

 

Lei era così?

«Ero molto più fantasioso. Più sognatore e meno irrequieto. Da ragazzo mi vedevo con una famiglia grande, solida e legata. Era una proiezione consapevole: mio padre mi aveva avuto a 46 anni. Il mio progetto era diverso: avrei avuto dei figli molto prima perché volevo avere il tempo di giocarci».

Che uomo era suo padre?

«Un uomo di un’altra generazione. Orfano a 8 anni, dopo gli studi in seminario, si era trovato a gestire una situazione di solitudine completa. Aveva lavorato per tutta la vita considerando intelligenza e pensiero come forme di riscatto».

 

È stato importante?

la metamorfosi di favino la metamorfosi di favino

«Non più di mia madre e di tante altre persone e cose che mi hanno formato, a iniziare proprio dalla scelta del mio mestiere. Recitare ha rappresentato il mio gesto di unicità, il mio strappo identitario, il mio dire “non sarò come voi”. Non conoscevo niente del mondo in cui stavo per lanciarmi se non il desiderio di farne parte».

Un desiderio non distante da quello che si prova da ragazzi nei confronti dei coetanei.

«Avevo i miei amici con i quali parlavo di calcio e di musica, ma avevo soprattutto le mie amiche. Sono cresciuto con tre sorelle, come in Cechov, e non ho mai diviso il mondo in uomini o donne. Il genere femminile per me non ha mai rappresentato un salto al di là del muro né lo scoglio pazzesco che è per tanti maschi. “Che fai, parli con le ragazze?”, sibilavano a scuola. E me lo dicevano in una commistione di invidia, disinteresse e stupore: “Ma che argomenti possono avere in comune?”».

 

E lei li aveva?

anna ferzetti pierfrancesco favino foto di bacco anna ferzetti pierfrancesco favino foto di bacco

«È vero che avrei parlato anche con i muri e il mio soprannome era “bla bla” però non è che fossi infallibile. Ogni mattina, per un tempo lunghissimo, ho lasciato una rosa bianca davanti alla porta di casa della mia prima fidanzata. Mi sembrava un gesto dolce. Era il fiore delle puerpere, ma non ne avevo la minima idea. Dopo tre anni lei ne ebbe abbastanza. E mi abbandonò al mio destino».

Che rapporto ha con l’abbandono?

pierfrancesco favino foto di bacco (1) pierfrancesco favino foto di bacco (1)

«A dieci anni, mio padre portò tutta la famiglia fuori Roma. Da un giorno all’altro, forse per ragioni economiche, forse per avere più spazio, partimmo in sei e andammo a vivere non lontano da Fregene. Un altro mondo. Di mattina mi svegliavo all’alba per andare a scuola per poi tornare a casa nel pomeriggio inoltrato. Entrai rapidamente in una specie di buio. Mi sentii sradicato all’improvviso dal mio ambiente e fu difficile ricostruire le amicizie. Quelle dell’infanzia le persi una dopo l’altra».

 

E si trovò solo?

«Molto. Nella fase in cui metti il tuo mondo da adolescente contro quello degli adulti non avevo amici che mi spalleggiassero. Ero solo contro una forza, i miei genitori, che era obbiettivamente più potente della mia: nella contestazione come negli errori. Non avevo neanche la forza di valicare il limite del proibito perché non farlo in compagnia perdeva di senso. Fino a 25 anni non bevevo, non fumavo e affogavo la noia nello sport. Ho avuto un’adolescenza tardiva e le mie cazzate le ho fatte più tardi. Forse da un certo punto di vista è stato un bene perché avevo già la forza di controllarle e mettere in luce i pericoli. Prima ero al buio».

favino favino

 

Che tipo di buio?

«Quel buio che ti spegne la curiosità, ti svuota e ti toglie energie. Mi si era spenta la testa. Era una specie di lobotomia. Di sonnolenza apatica. Intorno a me divenne tutto ovattato e naturalmente, alla fine, la pagai. Al secondo anno di liceo scientifico mi diedero quattro materie a settembre. Passai l’estate a studiare svogliatamente e alla fine, puntuale, arrivò la sòla».

FIORELLO FAVINO FIORELLO FAVINO

Che tipo di fregatura?

«Andai a vedere i quadri appesi nelle bacheche e sotto il nome Favino c’era una lunga striscia rossa. Mi bocciarono. Pensai a mio padre, alla sua delusione. Mi volevo sotterrare. Al di là di tutto, la matematica non sarebbe mai diventato il mio mestiere. Le interrogazioni me le ricordo al ralenty: la voce deformata della professoressa, il gesso, lentissimo, a disegnare geroglifici sulla lavagna, i numeri, tutti indistintamente misteriosi. “Risolvi quest’equazione”, mi dicevano e io facevo scena muta. A volte, quel ricordo diventa un incubo».

 

Un incubo metaforico?

pierfrancesco favino il traditore pierfrancesco favino il traditore

«Un incubo concretissimo. Sogno di dover rifare gli esami di matematica e non finisce mai bene. Avrei dovuto interessarmi di altro, delle materie umanistiche che tanto mi piacevano o della fisica che è quasi una materia letteraria. La matematica, volendo, aveva anche una sua musica poetica, ma io non riuscivo a capirne la melodia. Per contrappasso ho una figlia bravissima: quando mi chiede qualcosa in tema mi allontano con una scusa, sbircio il telefonino e torno con la risposta pronta. È una sorta di viaggio nel passato, un viaggio da fermo, un riscatto tardivo. Truccando le carte».

pierfrancesco favino ph adolfo franzo' pierfrancesco favino ph adolfo franzo'

 

Viaggi memorabili della sua giovinezza?

«Negli anni ’80 volevamo andare tutti in Inghilterra. Tormentai i miei genitori fino a ottenere un sì e finii in un film di Ken Loach. A casa di una famiglia della working class che per arrotondare apriva le proprie porte agli italiani e alle vacanze studio. Ero convinto che avrei diviso l’appartamento di Woking con il mio amico Guido e invece mi toccò in sorte Tommaso. Una specie di guardia del corpo che girava con un pugno di ferro in tasca. Quando camminavamo per strada, io minuto, lui gigantesco, creavamo un certo effetto comico».

 

Come mai aveva un pugno di ferro in tasca?

pierfrancesco favino nei panni di bettino craxi in hammamet 1 pierfrancesco favino nei panni di bettino craxi in hammamet 1

«All’epoca il gioco di società più in voga era la caccia all’italiano e ogni sera, passando per un ponticello dove si riunivano i teddy boys del luogo, ci si poneva un’alternativa secca: fare a botte o darcela a gambe. Scegliemmo sempre la seconda opzione. La mascotte del gruppo inglese era una ragazza bellissima: loro, giocando sullo stereotipo dell’italiano galante, facevano finta di trattarla male per provocare la nostra reazione. Ma il passaggio sul ponte somigliava a un rituale teatrale: da parte nostra c’era la consapevolezza che la messa in scena superava il rischio reale e gli inglesi in fondo erano felici di incontrarci. Eravamo il diversivo: senza di noi si sarebbero annoiati».

favino virginia raffaele favino virginia raffaele

 

I suoi ricordi sono vividi.

«Quelle due settimane mi sembrarono lunghe un anno, ma in generale non ho dimenticato niente. Scrissi anche un diario di quel viaggio. Da adolescente scrivevo molto: poi ho smesso, chissà perché».

Cosa c’era nel diario?

«Con la sua copertina nera rigida e gli angoli rossi, quel quaderno l’ho ritrovato. Dentro ballavano le cronache ironiche delle nostre avventure con un certo gusto per la deformazione grottesca della realtà. Un’eredità dei Favino: a casa si rideva».

 

anna ferzetti pierfrancesco favino anna ferzetti pierfrancesco favino

Però quando suo padre si sentì comunicare la sua scelta non fu poi così contento.

«Era ovvio che andare in quella direzione avrebbe creato uno scontro. Per i loro figli, i miei genitori volevano certezze. E la laurea trent’anni fa un lavoro te lo garantiva: magari non il lavoro dei sogni, ma uno stipendio sì. Noi la preoccupazione del futuro, a quell’epoca, neanche sapevamo cosa fosse».

 

Il mestiere d’attore li preoccupava?

«Avevano ragione, era un ambito che non garantiva e non garantisce nulla. Nella mia classe d’Accademia eravamo in 26. Oggi lavoriamo in sei. Puoi possedere talento, ma non avere il carattere. Puoi perderti. Puoi avere sfortuna».

Chi fu decisivo nell’indirizzarla?

favino imita lapo elkann favino imita lapo elkann

«Un’insegnante di inglese, Carla Giro, appassionata di film. Mi fece capire che il cinema non era soltanto intrattenimento o immagine, ma un linguaggio che ti consentiva di dire ciò che pensavi della vita. Carla ci spiegò che dalle cose brutte si può anche sfuggire, che esistono i sogni e che vanno perseguiti perché altrimenti poi fai i conti con il rimpianto».

 

Il rimpianto. I bilanci esistenziali. Le occasioni perdute e i treni che non ripassano. Negli Anni più belli si parla anche di questo.

Il culo di favino Il culo di favino

«Il vero protagonista del film è il tempo. Ed è per questo che credo che nella storia possa riconoscersi chiunque».

C’è un debito verso l’Ettore Scola di C’eravamo tanto amati?

«Da molti anni, quando ci incontriamo, io e Muccino buttiamo sul tavolo mezza battuta di Scola. Uno la inizia e l’altro la finisce. Negli Anni più belli c’è sicuramente un’ispirazione, ma più che di filiazione parlerei di continuità».

 

La sua prima volta sul set?

favino a che tempo che fa favino a che tempo che fa

«Il film era di Alberto Negrin e fu uno choc. Non capivo cosa volessero da me e pensai “meno male che torno in Accademia”. Venivo dal mio primo anno di recitazione ed ero cane come pochi attori al mondo. Porca troia se ero cane, ero un cane dannato».

 

Quante volte negli anni d’Accademia ha pensato «non ce la farò mai»?

baglioni favino hunziker baglioni favino hunziker

«Non l’ho mai pensato perché non sapevo neanche cosa significasse recitare. Avvertivo che qualcosa non funzionava, però sapevo che esisteva. Che c’era un modo di stare sul palco che non prevedesse fatica, sofferenza, lotta e guerra e che somigliava alla libertà. Io e altri alunni andavamo spesso in pellegrinaggio al teatrino di via Vittoria, dentro Santa Cecilia e ascoltavo rapito gli allievi del conservatorio che provavano. Nelle note c’era proprio quella libertà che io non riuscivo a trovare: la leggerezza dell’espressione».

 

Nell’Accademia non c’era leggerezza?

favino mannoia baglioni favino mannoia baglioni

«La parola mi sembrava un macigno. Le mascelle erano serrate. Il corpo rigido. Vedevo i miei compagni e mi parevano tutti più convinti di me: ma qualcuno aveva delle crisi, altri piangevano e avevo l’impressione che la felicità abitasse altrove. C’era qualcosa che non mi tornava».

Quando iniziarono a migliorare le cose?

«A Montalcino, durante un seminario. C’erano studenti che venivano da tutto il mondo e incontrai un insegnante inglese che mi parve aver capito tutto di quel che cercavo. Allora pensavo che avrei fatto solo teatro e non credevo di avere una faccia da cinema. Anzi, obiettivamente, non ce l’avevo».

pierfrancesco favino anna ferzetti pierfrancesco favino anna ferzetti

 

Tutti la considerano bello. Si sentiva tale?

«Mai avuto consapevolezza della mia bellezza: né ieri né oggi. A 33, 34 anni un uomo con la mia faccia forse diventa interessante, ma a 20 no. A venti ero faccioso. E in quell’età o sei bello o maledetto. Avrei potuto avere le qualità del protagonista, ma non ne avevo il volto».

favino hunziker favino hunziker

È stata dura?

«Sono nato nel 1969. L’ultimo bacio è del 2001. Romanzo criminale del 2005. In mezzo, tra un teatro e l’altro, c’è un universo di piccoli lavori».

 

Se li ricorda?

«Tutti. Ho fatto il cameriere, il buttafuori, il pony express, le consegne dei pacchi di Natale, il servizio d’ordine fuori dalla discoteca, l’accompagnatore dei bambini sui cavalli a Villa Borghese. La mia prima casa era un appartamento di 30 metri quadrati. A me sembrava una reggia. Ero felicissimo».

Non le venne il dubbio che la strada fosse sbagliata?

«Mi ero dato un tempo: se a 35 non va, cambio orizzonte. Pensavo spesso al domani, a cosa sarei diventato».

 

Come cantano i Negramaro: A quello che eravamo, a quello che ora siamo, a come noi saremo un giorno.

pierfrancesco favino pierfrancesco favino

«Tornare a lavorare con Gabriele Muccino mi ha fatto impressione. Sfido chiunque a ricordarsi che ruolo facessi nell’Ultimo bacio. Loro erano protagonisti, io avevo sì e no dieci giorni di riprese in tutto. Mi sentivo Calimero: quello fuori dal gruppo che doveva fare amicizia a ogni costo. “Ehi, ciao ragazzi”, dicevo per farmi coraggio e apparire a mio agio. Se ci penso provo tenerezza. Sono imbarazzi da cui si passa, da cui passano tutti».

 

C’è qualcosa di cui è orgoglioso?

marco giallini favino marco giallini favino

«Forse è un orgoglio un po’ maschile: ma io so che mi sono guadagnato tutto senza mai avere una raccomandazione, una spinta, una parola o una telefonata».

L’affermazione regala sicurezze e felicità?

«Io campavo bene ed ero felice anche con 60.000 lire alla settimana. Bisogna relativizzare, guardare alla vita con il sorriso. Oggi le persone hanno deciso che io sono sexy, domani cambieranno idea e diranno che sono brutto. Dicono: “Sei l’attore del momento”. Ma che vuol dire l’attore del momento? L’attore del momento è come la playmate del mese di Playboy. Non aspiro a essere considerato il più bravo attore italiano comunque, non me ne frega niente».

marco giallini favino marco giallini favino

 

A cosa aspira allora?

«A portare fino in fondo quella libertà di cui le parlavo prima, a non mettere veli tra me e l’espressione».

È un’impresa complessa.

«A Keith Jarrett, nel ’75, a Colonia riuscì. Prima di cominciare un concerto memorabile, del tutto improvvisato, Jarrett venne fermato da una persona del suo staff. “Signor Jarrett, è nato suo figlio”, gli dicono. Lui entra in scena. La prima nota è la campanella del teatro. Il suono che avverte che il concerto sta per iniziare. Il resto è arte. Non sai cosa succederà, ma sai che lui non si chiuderà davanti al mondo».

giallini dazzi favino giallini dazzi favino

 

Perché?

«Perché il mondo intorno a te è la fonte dell’inizio di una cosa che ancora non conosci. Una prospettiva che mi emoziona. Senti quel disco e capisci che a Colonia qualcosa sta volando: che non c’è divisione tra quel corpo e quella tastiera. Quel corpo e quella tastiera sono la musica. Jarrett non sa dove inizi ciò che cerca e neanche se lo domanda: è la pancia che lo guida. È affidamento totale all’istinto, più che al calcolo. Io non so se sono la tastiera o il corpo, ma la musica dovrebbe essere il film o il testo teatrale che interpreto. Se riesco ad accendere quella fiamma e fondo gli elementi divento veramente il protagonista di una grande storia».

favino suburra sollima favino suburra sollima

 

Ci vuole talento.

«E molto rigore. Io non so se ce l’ho, ma ambisco ad avvicinarmici. Perché Francis Bacon per dieci volte dipinge Innocenzo X? Quella cosa non ha a che fare con il successo, con il commercio o con il fatto che sei Francis Bacon. Ha a che fare con la tua ossessione di ricerca di qualche cosa che probabilmente, almeno per me, è inarrivabile».

Ne è sicuro?

«Non so se riuscirei a stare come Joaquin Phoenix da solo sulla scalinata tutto il giorno come in Joker, ma lo ammiro. E mi domando come facciano lui e Daniel Day-Lewis – uno che si faceva chiamare presidente sul set di Lincoln anche a riprese concluse – a tenere quella concentrazione così chiusa. Così escludente. Non so se ci riuscirei. A me stare da solo non piace, per me recitare rimane un gioco. Più gioco e più riesco a entrare nelle cose, anche se ho la maschera di Craxi addosso».

favino nello spot barilla favino nello spot barilla

 

Le danno del perfezionista.

pierfrancesco favino pierfrancesco favino

«È una cazzata. Ho un’ossessione verso il miglioramento che viene confusa erroneamente per perfezionismo: io sono tutt’altro che perfetto. Al limite tendo a qualcosa che come le dicevo non so neanche se esista davvero».

La prospettiva di entrare troppo dentro le cose la spaventa? Teme di rimanerne ingabbiato?

«Non è quello, però mi domando: quando per sei mesi e 24 ore al giorno agisci esclusivamente in quel modo, alla maniera dei Phoenix e dei Lewis, cosa c’è oltre la patina di quel rituale costante? Che livello di coscienza vai a toccare? Non mi spaventa perché tema di smarrirmi o abbia paura di perdermi definitivamente. Credo che quel rischio non esista, ma mi terrorizza l’isolamento che c’è dietro».

 

Ma l’attore non è comunque solo?

«Solissimo. Quando hai la macchina da presa addosso sei come un essere umano lanciato nello spazio. Sei davanti a un vetro e davanti al vetro piangi, ridi e ti sveli. Poi si spengono le luci, torni in albergo e lì la compagnia evapora».

claudio santamaria valeria solarino pierfrancesco favino claudio santamaria valeria solarino pierfrancesco favino

E che succede?

«Se sei molto fortunato hai un amico con cui mangiare e parlare fino a notte fonda di calcio. Una cosa semplice. Romantica e spesso romanista».

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