ciao pietro - D´un tratto la carriera di calabrese s´era bruscamente interrotta: nel 2007. Panorama, che era stato chiamato a dirigere, gli aveva riservato un´uscita non gloriosa. Se ne era sentito ferito, ma lo aveva confidato a pochissimi amici. Poi, il cancro - un capitolo del libro in uscita Dove esordisce ricordando Woody Allen: \"In questa nostra epoca le due parole più belle che si possono ascoltare non sono \"ti amo\", ma \"è benigno\"...

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1- LA SCOMPARSA DI CALABRESE GIORNALISTA GENTILE E COLTO
Attilio Giordano per \"La Repubblica\"

CalabreseCalabrese e Cannavo

Ieri mattina è morto Pietro Calabrese. È stato direttore de \"Il Messaggero\", di una divisione della Rai, di \"Capital\", della \"Gazzetta dello Sport\" e di \"Panorama\". Nel 2009 si è ammalato di tumore: una sofferenza che ha raccontato in un libro, \"L´albero dei mille anni\", che uscirà a fine settembre.

Ai suoi familiari il cordoglio del presidente della Repubblica Napolitano, del premier Berlusconi, del presidente della Camera Fini e di quello del Senato Schifani, e di tanti politici e colleghi. I funerali si svolgeranno domani mattina alle 11 nella parrocchia romana di San Roberto Bellarmino.

CalabreseCalabrese e la moglie

Pietro Calabrese era un siciliano gentile e colto, e il fatto che molti suoi colleghi giornalisti raccontino di averlo sentito gridare, o persino urlare, non cambia la questione. Almeno se si guarda alla sfera più remota dei sentimenti, alla gentilezza d´animo. Neppure il fatto che fosse nato a Roma, l´8 maggio del 1944, lo rendeva meno palermitano, come i suoi avi.

CalabreseCalabrese

Chi gli è stato vicino, per prima cosa, ricorda la certezza della parola e quanto potesse soffrire della disinvolta smemoratezza di chi prometteva e non manteneva. Dal 1969 in poi aveva fatto tutto: cronista parlamentare all´Ansa, corrispondente dall´estero, inviato, capo della Cultura al Messaggero e poi all´Espresso, fino a direttore del Messaggero, di una divisione Rai, del mensile Capital. E poi direttore della Gazzetta dello Sport, di Panorama... Infine collaboratore del Magazine del Corriere, di Prima Comunicazione, di Novella 2000.

calabresecalabrese Gazzetta dello Sport

Un giornalista felice del suo mestiere. «Si sedeva di fronte a me, al Messaggero», racconta Giulio Anselmi che fu suo direttore, «e facevamo a gara a chi avesse più idee per il giornale». Lui ne aveva tante? «Ne aveva troppe». Quando fu direttore, anni dopo (nel ‘96), la leggenda vuole che si sentisse «il Re di Roma», tanto da far ingelosire quello che credeva di avere tutte le carte, e i titoli, per esserlo davvero, l´editore Caltagirone.

Certo, ottenne risultati straordinari di diffusione: dalla politica al gossip, aveva sfoderato una fantastica capacità di relazione, la comprensione rapida di ciò che accadeva e di ciò che un romano voleva sapere. L´altra cosa che tutti ricordano di lui: le amicizie fedeli e romantiche, terribilmente siciliane.

Legate, se si vuol fare psicanalisi facile e postuma, ad un´ infanzia passata in parte in collegio, al San Giuseppe De Merode di piazza di Spagna, dove - ogni volta che gli capitava di passare - non poteva fare a meno di infilare uno sguardo, per spiare l´androne e il cortile, alla ricerca della sua vita di bambino. La corda siciliana, pazza secondo Pirandello, si manifestava in un inesausto desiderio d´avventura che ne avrebbe fatto un avventuriero, ricorda un amico, «se esistesse ancora un significato positivo di questa parola».

CONCITACONCITA DE GREGORIO PIETRO CALABRESE MARCELLO SORGI

D´un tratto la sua carriera, e un po´ quell´avventura tutta di corsa, s´era bruscamente interrotta: nel 2007. Panorama, che era stato chiamato a dirigere, gli aveva riservato un´uscita non gloriosa. Aveva letto della sua estromissione su Dagospia. Se ne era sentito ferito, ma lo aveva confidato a pochissimi amici. Il settimanale si era avviato, in tempo d´elezioni, verso sentieri più battaglieri e garantiti.

FedericoFederico Giglio Costanza Calabrese Antonio Gallo Michele Giglio

Alla Belpietro. Lui non era l´uomo giusto per una prima linea partigiana. S´era rabbuiato, raccontano. Poi, la malattia. E stavolta abbiamo il sollievo di non dover immaginare, ricostruire commossi, visto che il 29 settembre uscirà un suo libro dove ne ricostruisce lui tutte le tappe.

Parla Calabrese. E mostra un lottatore non per modo di dire, poiché un cancro non operabile a un polmone non consente finte temerarietà. Non è da eroi, certo, essersi ammalati ed è pur vero che ognuno finisce per accettare il suo destino, non per coraggio, ma per mancanza di alternative. Calabrese fece di più, ciò che sapeva fare meglio: scrisse. Prima nella sua rubrica sul Magazine del Corriere nascondendosi, per gioco o per pudore, dietro l´amico Gino che gli raccontava il suo calvario.

CALABRESECALABRESE

Era lui, certo, Gino. Ed erano veri e suoi i sentimenti messi sulla carta. Chi lo conosceva, o gli voleva bene, leggeva così di Gino e si sentiva stringere il cuore. Poi, recentemente, decise di svelarsi e Gino tornò ad essere Pietro, in quel libro, «L´albero dei mille anni (all´improvviso un cancro, la vita all´improvviso)», che esce ora da Rizzoli.

Dove esordisce ricordando Woody Allen: «In questa nostra epoca le due parole più belle che si possono ascoltare non sono \"ti amo\", ma \"è benigno\"». Così, combattendo anche con le parole (che è un grande coraggio, poiché richiede di non farsi prendere dallo scoramento della paura), racconta - con umanità che lo mostra di nuovo colto e gentile, gentilissimo - le fasi comuni, ma ignote a chi è indenne, della scoperta, della cura, delle speranze, dei terrori e dei tremori notturni.

Ma racconta anche della moglie Barbara, medico e dunque terribilmente cosciente, della figlia Costanza, giornalista di Canale 5, persino di Pippo, cane trovatello, qualcosa di simile a un Cirneco dell´Etna, come lui siciliano. Andando via da Panorama, nel fondo d´addio, aveva cominciato: «Be´, allora io vado». Altrove aveva scritto, citando Shakespeare: «La vita non è che un´ombra in cammino».

2- IO E GINO, COSì HO CONOSCIUTO L\'ITALIA DELL\'AMORE
Da \"Il Corriere della Sera\", tratto dal libro \"L\'albero dei mille anni\" di Pietro Calabrese

GIANNIGIANNI LETTA PIETRO CALABRESE

E all\'improvviso arriva Gino. Irrompe senza rispetto in questa storia: come il riccio a cui offri temporanea ospitalità e subito si allarga e ricava uno spazio più grande. Sgombra l\'ospite per diventare lui il protagonista e il padrone di casa. Io lo guardo, ammutolisco, mi arrabbio, lo giudico un individuo senza ritegno, ma a poco a poco comincio a volergli bene. Perché il suo spazio dimostra di meritarlo. Ed è così che avviene la trasformazione. Il cambio è plateale per tutti: all\'esterno io divento Gino, e lui diventa me.

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Io mi annullo e lui giganteggia. Ma mi protegge, para i colpi, fa la figura dell\'eroe e soffre al mio posto. (...) Un legame sempre più particolare, ormai indissolubile. Però, e questo gli va riconosciuto, non è mai stato un legame malato. Gino, che ha preso il mio posto nell\'immaginario collettivo, è l\'individuo più sano di tutta questa storia. Eppure, se torno indietro, a quei giorni di fine maggio, (...) ancora non so spiegare com\'è nato Gino.

Da quale idea, da quale scintilla del cervello, da quale crepa dell\'anima, da quale fessura del cuore. So che i tempi sono stati molto stretti. Da più di due anni tengo una rubrica per il settimanale del «Corriere della Sera», che allora si chiamava «Magazine» e oggi è diventato «Sette». Esce il giovedì in allegato al grande giornale. E lì, nelle prime pagine, c\'è la mia rubrica Moleskine, che prende il nome dal mitico taccuino nero per appunti di epici personaggi come Ernest Hemingway e Bruce Chatwin.

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La prima puntata su Gino appare il 28 maggio 2009, vale a dire nove giorni dopo la scoperta del tumore. Ma poiché, per motivi di stampa, devo consegnarla con sette giorni di anticipo, significa che la penso e la scrivo entro la giornata del 20. Cioè nelle ventiquattro ore tra la scoperta del tumore e la biopsia polmonare. (...) Mi hanno detto: lei ha un brutto cancro che può farla fuori in due anni, e io scrivo la rubrica quasi in contemporanea. Giornalismo in diretta e va bene, ma terribile, se ci pensate. Atroce, se ci rifletto.

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Ed è proprio per questa simultaneità d\'avvenimenti che i conti non tornano e mi rifugio nell\'imponderabile. Come sempre, quando qualcosa che non controllo mi fa paura. La verità è che io non so quando esattamente ho scritto questo pezzo che il direttore Giuseppe Di Piazza, con felice intuizione, ha chiamato «Le cose vere della vita».

Mercoledì 20 maggio, (...) con la testa infilata fino al collo nel mio nuovo status di malato grave di cancro, a un certo punto mi sono messo al computer e ho scritto la storia del mio amico Gino al quale era caduta questa tegola pesantissima sulla testa. (...) Dovevo tirar fuori questa spina urticante che avevo dentro e l\'ho fatto senza pudore né ritegno. Detto questo, quella di Gino è stata una felice intuizione giornalistica di cui vado fiero. Ne ho avute altre, assai più futili, durante i lunghi anni delle mie direzioni.

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Sono invenzioni, avvenimenti apparentemente scollegati che trovano il loro punto d\'incontro e di successo se si è abbastanza bravi e fortunati da intercettare altri avvenimenti di cui si parla o che interessano i lettori. Sul tema del cancro doveva essere chiaro anche a un rimbambito come me che avrei toccato una corda che coinvolgeva milioni di persone. Ma non avevo idea fino a che punto.

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«L\'altro giorno un mio caro amico è andato dal medico per fare un controllo di routine. È un tipo sano, che fa sport, che non fuma, cammina almeno un\'ora al giorno, due volte alla settimana si fa le sue diciotto buche di golf, e per tre giorni alla settimana nuota come un pesce: 80 vasche nella piscina olimpica a stile libero senza interruzioni...» così scrivevo. E continuavo: «Il medico gli ha fatto la lastra al torace e tutto, all\'improvviso, è cambiato: \"C\'è un addensamento nel polmone destro\" ha detto il radiologo... La sera dopo sono andato a cena con lui: mi aveva chiesto di non portare le mogli.

A un certo punto si è messo a piangere, poi si è ripreso. Non riusciva a darsi pace di essere precipitato in un tunnel dell\'orrore senza alcuna colpa, solo perché la pallina della roulette del destino era andata a incasellarsi in quel numero maledetto. \"Tutto è saltato in aria: sogni, progetti, lavoro, futuro. Galleggio da due giorni in questa melma appiccicosa che mi è cresciuta attorno in una manciata di secondi, il tempo che il medico guardasse la lastra e pronunciasse quelle due parole: addensamento polmonare.

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Due parole apparentemente senza senso che mi hanno cambiato la vita per sempre\"». Questo, in parte, il testo dell\'articolo. Giovedì 28 maggio il «Magazine» è in edicola, come sempre, tra le sei e le sette del mattino. E non mi immagino proprio che facendo la prima colazione i lettori saltino il «Corriere» e vadano a leggersi con voracità le rubriche del supplemento. Accendo il computer intorno alle 9.30 e (...) leggo la mia posta personale. Alle 10 ci sono già una ventina di mail di commento alla mia rubrica.

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Che diventano un centinaio alle 13 e più di quattrocento a fine giornata. Uno sbalorditivo tsunami. (...) C\'erano mail di ogni tipo, ma cantavano tutte la medesima canzone: dica al suo amico che il cancro si può vincere, basta solo non mollare. C\'erano ricordi personali e racconti tristi su persone care che non ce l\'avevano fatta dopo aver lottato umilianti battaglie. C\'erano padri e mariti e coniugi e figli e bambini piccoli che erano morti di tumore e di leucemia ma avevano lottato fino all\'ultimo con indomabile tenacia.

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E c\'erano decine e decine di storie finite bene, con vecchi nonni ultraottantenni che ancora si godevano la vita, genitori che erano usciti dal tunnel e conducevano da anni un\'esistenza serena e a tratti felice. C\'era soprattutto, ed è stato questo a sconvolgermi, un\'Italia sconosciuta che rifiutava i luoghi comuni della politica e i suoi stitici ghirigori di chiacchiere. Che chiedeva di parlare e confrontarsi sui problemi reali.

Dopo tante stagioni di giornalismo e di direzioni, con la sicurezza e la prosopopea che inevitabilmente cattura tutti coloro che per anni detengono il potere (o quello che loro stessi presumono tale), con la stupida arroganza di chi si sente più ganzo degli altri, non avevo capito nulla. O quasi. E se ancora qualche dubbio mi restava, i giorni seguenti me li avrebbero tolti tutti.

 

 

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