IL CINEMA DEI GIUSTI - IL NUOVO FILM DI SPIKE LEE, BLACKKKLANSMAN, PRODOTTO DAL JORDAN PEELE DI ''GET OUT'', NON È SOLO UN GRANDE FILM, PROBABILMENTE TRA I SUOI MIGLIORI IN ASSOLUTO, È ANCHE UN VIAGGIO NEL RAZZISMO PROFONDO AMERICANO E NELLA CULTURA NERA DEGLI ANNI ’70 CHE CAPOVOLSE LE IDEE BIANCHE DI BELLO E DI SEXY GRAZIE A MUSICA, FILM E ICONE NERE

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Marco Giusti per Dagospia

 

Blackkklansman di Spike Lee.

 

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Shaft o SuperFly? Richard Roundtree o Ron O’Neal? Fermi tutti, il nuovo film di Spike Lee, BlackKklansman, prodotto dal Jordan Peele di Get Out, presentato a Cannes lo scorso maggio, non è solo un grande film, probabilmente tra i suoi migliori in assoluto, è anche un viaggio nel razzismo profondo americano che ci ha portato oggi a Trump e nella cultura nera degli anni ’70 che capovolse le idee bianche di bello e di sexy grazie a musica, film e icone nere. Diciamo che siamo dalle parti del Django Unchained di Quentin Tarantino, con la sua rilettura ironica di The Birth of a Nation di D.W.Griffith, anche se Spike Lee è, lo sappiamo, molto più ideologico e pesante.

 

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Ma Jordan Peele e la sceneggiatura a tante mani, Charlie Wachtel, David Rabinowitz, Kevin Willmott oltre allo stesso regista, rendono il tutto un grande racconto a metà tra blaxploitation e film di poliziotti biancoenero, offrendo a Spike Lee sì la possibilità di deviazioni ideologiche, ma anche di sviluppare il suo cinema più vivo e ironico.

 

Primi anni ’70, nel distretto di polizia di Colorado Springs un giovane poliziotto nero, Ron Stallworth, interpretato da John David Washington, con capigliatura afro pesantissima, assieme a un poliziotto bianco ebreo, Flip Zimmermann, il sempre grande Adam Driver, riescono a infiltrarsi all’interno di una sezione del Ku Klux Klan e a prendere di mira addirittura il loro capo, David Duke, Topher Grace.

 

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Ron li adesca al telefono e Flip prenderà il suo posto come Ron Stallworth all’interno della sezione. Partendo proprio dalla grande scena dell’assedio di Atlanta in Via col vento di Victor Fleming, e seguitando poi a confrontarsi continuamente col cinema e i modelli culturali americani fino agli anni ’70, fino alla domanda chiave fra Shaft e SuperFly, cioè meglio detective o pappane?, Spike Lee tende a costruire un’America dove tutti, bianchi e neri, razzisti e non razzisti, tendono a interpretare dei ruoli imposti dalla produzione culturale del paese.

 

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Perfino i cattivissimi membri del Ku Klux Klan ripetono gesti e battute che hanno già visto, vanno a scuola di razzismo vedendo The Birth of a Nation, ma si fanno fregare dalla voce da bianco del Ron nero al telefono. Sarà il vecchio Harry Belafonte, nel film, a spiegarci quanto il Ku Klux Klan si rifondò dopo la visione del film di Griffith e cosa produsse in America.

 

Mentre le parole di David Duke ci spiegheranno quanto la politica del Klan in doppio petto ci porterà all’elezione di un personaggio come Trump. Ma al di là del quadro ideologico del paese dall’inizio del secolo a oggi che ci offre Spike Lee, quel che conta di più è il funzionamento del film, forse un po’ seduto nella seconda parte, ma sempre costruito con grande intelligenza e divertimento, grazie anche ai suoi due protagonisti, John David Washington e Adam Driver, che si offrono come meravigliosi poliziotti anni ’70.

 

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La recitazione di Driver, soprattutto, è tutta sul togliere drammaticità a ogni scena, anche quando si trova a fare l’ebreo-nero infiltrato nella casa dei razzisti armati fino ai denti. Notevole anche il cattivissimo Felix di Jasper Paakkonen e lo stupidissimo cattivo ciccione di Paul Walter Hauser, già visto in I, Tonya. In sala da giovedì.

 

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