FOTO, NON PAROLE - DAI MOTI DI MILANO AGLI ALBANESI DI BENETTON LA STORIA DEL FOTOGIORNALISMO ITALIANO È UNA COLLEZIONE DI “OCCASIONI MANCATE” - TUTTA COLPA DEL FASCISMO? MA NON SARA’ PURE QUESTO UN ALIBI, UNA SCUSA ALLA PETROLINI TIPO “AMMÈ M’HA ROVINATO ‘A GUERA”?

Un libro indaga la malattia del fotogiornalismo italiano: il fascismo non c’entra tanto, tutta la cultura italiana è stata logocentrica - La lettera del fotografo Tano D’Amico al direttore di Lotta Continua Deaglio: “Quando io entro in redazione, voi smettete di parlare”- E c’è chi si vergogna a ricordare quando si passeggiava nei corridoi dei giornali elemosinando una commissione”...

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Michele Smargiassi per “la Repubblica”

BENETTON ALBANESI 1 BENETTON ALBANESI 1

 

Quando in America c’era Henry Luce, da noi c’era l’Istituto Luce. Laggiù il fotogiornalismo si faceva le ossa sulle pagine di riviste come Time, Fortune, Life, inventate da un editore non proprio progressista ma geniale; quaggiù agonizzava sulle veline di regime nel compito, miseramente assolto, di costruire il culto della personalità ducesca.

 

Il trauma del fascismo, assieme occhiuto e orbo, è invocato comunemente per giustificare la parabola modesta e periferica del fotoreportage italiano: un ventennio di autoaccecamento che ci fece perdere il treno del grande fotoreportage internazionale, quello di Capa, Bourke-White, Cartier-Bresson, Eisenstaedt. Ma non sarà pure questo un alibi molto all’italiana? Una scusa alla Petrolini, “ ammè m’ha rovinato ‘ a guera”?

 

BOOM FOTOGIORNALISMO BOOM FOTOGIORNALISMO

La vicenda del fotogiornalismo italiano ti appare una catena di grandi occasioni mancate, di promesse splendide non mantenute, quando chiudi le quasi seicento pagine di La realtà e lo sguardo,storia che Uliano Lucas e Tatiana Agliani hanno ricomposto partendo dalle fonti primarie, dallo sfoglio delle collezioni dei giornali, nella convinzione che il fotogiornalismo reale è quello che i lettori hanno potuto vedere in edicola, non quello che i fotografi volevano fosse.

 

Lo stridore fra quel che avrebbe potuto essere e quel che non è stato è cosa nota a Lucas, storiografo di un fenomeno di cui fu anche uno dei grandi protagonisti, fotogiornalista della generazione dei free-lance socialmente impegnati degli anni Cinquanta. Che però alla fine si è convinto che la storia infelice del fotogiornalismo italiano va letta su uno sfondo più vasto, come «la cifra visiva del tardivo incontro dell’Italia con la modernità ». Eppure le buone premesse c’erano.

COVER LIBRO LUCAS FOTOGIORNALISMO COVER LIBRO LUCAS FOTOGIORNALISMO

 

Se il Risorgimento arrivò troppo presto, tecnologicamente parlando, per la documentazione fotografica, già alla fine del secolo un pioniere come Luca Comerio inseguiva per strada, sudando sotto il peso della sua fotocamera di legno, i rivoltosi dei moti di Milano repressi a cannonate dal generale Bava Beccaris.

 

E sì, certo, il fascismo e le leggi contro la stampa furono la doccia ghiacciata che ibernò quella prima grande occasione, e tappò porte e finestre alla possibilità di sbirciare cosa facessero nel resto d’Europa, con le nuove agili macchinette, tipi come Felix Man o Erich Salomon, cosa ci fosse dietro le copertine di Vuo del Picture Post… 

 

Né serve invocare come alibi la meteora di Omnibus, dove Leo Longanesi valorizzò una fotografia d’autore ironica, aneddotica, lontana dallo stentoreo di regime: «È il grande equivoco della immaginaria fronda fotografica al fascismo», giudica Lucas, «come Tempo, come Oggi, Omnibus era un tentativo di rinnovamento, ma ben attento a restare all’interno del sistema totalitario».

MOTI DI MILANO MOTI DI MILANO

 

Si vide nel dopoguerra, quanto poco fertili fossero quei vagiti: quando le riviste ebbero fame di immagini, non trovarono fotografi. «Le poche agenzie indipendenti, la Vedo di Porry Pastorel, la Publifoto di Vincenzo Carrese, tollerate dal regime, erano cresciute vendendo all’estero fotonotizie sterilizzate, prodotte da fotografi di buon mestiere ma senza cultura fotografica moderna».

 

Anche il grande Federico Patellani, che già nel 1943 si pose il problema di promuovere un “fotogiornalista nuova formula”, inventò sì un nuovo strumento, il “fototesto”, con cui realizzò perTempo i suoi felici reportage sulla ricostruzione, ma finì per confermare il complesso di inferiorità della fotografia rispetto alla parola.

 

CHIARI DOLCE VITA CHIARI DOLCE VITA

Eccola qui, dunque, la malattia che ha azzoppato il fotogiornalismo italiano: il fascismo non c’entra tanto, tutta la cultura italiana è stata prepotentemente logocentrica, sospettosa verso le immagini non tenute al guinzaglio dalla scrittura. «I grandi giornalisti italiani, intellettuali prestati al giornalismo, erano di una formazione crociano-gramsciana che contemplava la fotografia solo come supporto, illustrazione e riempitivo, da correggere con paterna autorevolezza, come una servetta ignorante».

 

E mentre il cinema riusciva a conquistarsi autonomia di linguaggio, quella che ora chiamiamo fotografia neorealista «restò un verismo verghiano, letterario e in ritardo».

 

Del resto, la scandalosa “scoperta del Sud” dei cenci e dei piedi sporchi fu anch’essa un lampo: nel giro di pochi anni le nozze dei coronati e i sorrisi hollywoodiani presero possesso stabile dei rotocalchi, i telefoni bianchi del regime diventarono le lavatrici bianche del boom consumista.

 

E furono solo i paparazzi, allora, proletari della fotografia, a inventarsi un modo, tutto italiano, un po’ beffa un po’ incenso un po’ mercato, di raccontare quegli anni.

MORO BRIGATE ROSSE MORO BRIGATE ROSSE

 

La stampa di opposizione politica non riuscì a offrire un’alternativa. «Quanto alla considerazione subalterna della fotografia, i giornali comunisti e quelli della destra si equivalevano».

 

Né il Sessantotto cambiò le cose: celebre la lettera di Tano D’Amico, grande fotografo antagonista, al direttore di Lotta Continua Enrico Deaglio: “Quando io entro in redazione, voi smettete di parlare”. Il fotogiornalismo in Italia, per Lucas, «è stato un mestiere di forte umiliazione. Tanti si vergognano ancora a ricordare che si passeggiava lungo i corridoi dei giornali elemosinando una commissione».

 

Furono i giornali della borghesia progressista e liberale, il Mondo di Pannunzio, l’Europeo di Benedetti, L’Espresso di Scalfari, a fornire qualche spazio a una nuova generazione di fotografi, tra Roma e Milano, che rifiutavano la fotografia passe-partout delle agenzie per una ricerca fortemente orientata, free-lance più per necessità che per vocazione (luminosa ma senza seguito anche l’esperienza di Epoca con i “suoi” fotografi di staff).

 

 

FOTOGIORNALISMO 9 FOTOGIORNALISMO 9

L’Italia della grande trasformazione, dell’emigrazione e delle periferie metropolitane, sarebbe stata cieca senza il loro lavoro. «Ma anche la nostra», conclude Lucas, nella sua doppia veste di storiografo e storiografato, «fu una promessa non mantenuta. Una minima parte di quel lavoro trovò sbocco editoriale. Questa Storia è anche un omaggio a una razza di avventurieri che lottò per la dignità e l’autonomia di una professione in cui credeva», ma il cui lavoro oggi riposa semidimenticato o inedito in archivi sparsi che aspettano ancora l’occasione che non hanno avuto.

 

 

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