“IL RICORDO DI ROMA E’ TUTTO SCRITTO NEL MIO CORPO” – CARLOS MONZON (“IL PRIMO CRIMINALE MODERNO") E CHINAGLIA, SERGIO CITTI E I BOSS DELLA MAGLIANA, AURELIO PICCA NELLA SUA “DEVASTATA AUTOBIOGRAFIA” RACCONTA UN’EPOCA IN CUI CALCIATORI, ARTISTI E BANDITI CONDIVIDEVANO L’ISTINTO DELLA RIBELLIONE: “SENZA LA LETTERATURA SAREI POTUTO DIVENTARE UN RAPINATORE A MANO ARMATA” – E POI CONFESSA IL SUO RIMPIANTO

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Maurizio Caverzan per la Verità

 

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Aurelio Picca arriva alla stazione ferroviaria di Velletri con la sua Lexus Sc 430, un coupé color genziana 4.300 di cilindrata. In Italia ce l' avrà solo lui. Andiamo a casa, nella collina verde di ulivi che abbracciano le ampie vetrate: salotti, living, studio hi tech, librerie, grandi dipinti.

 

Picca è eccesso pieno di stile, esagerazione sopraffina, estetica, vitalismo assoluto, sorgente di una scrittura tumultuosa e selvaggia, sempre all' inseguimento di qualcosa che appaghi la fame di vita che non lo abbandona. Un sosia di Curzio Malaparte di un metro e 85, un sessantenne che cita Tyrone Power. Tutte le volte che lo vedo, da quando collaborava al giornale dove lavoravo, gli dico che dovrebbe fare il cinema. È un dandy potente, ma sofferto. Uno che s' incasina la vita, uscendone sempre alla grande. Col cuore.

 

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Ha da poco pubblicato Arsenale di Roma distrutta (Einaudi), autobiografia con libere invenzioni tra i Sessanta e gli Ottanta.

 

Perché questo libro, dopo la Roma di Romanzo criminale e Suburra, dei film di Claudio Caligari e Fabrizio Mainetti?

«Quei film non li ho visti. Conosco un po' Caligari, ma mi è sembrato scarno e poco vitale, per quanto lui sia autentico. La mia Roma ce l' ho in corpo da tanto. Quando ho scritto un post su Facebook, Paolo Repetti di Stile libero mi ha chiamato: "Aurelio, ho sentito i brividi. Ce la fai a tenere questa scrittura per 200.000 battute?". Pure per 700.000... Pensavo di avere delle immagini nuove. Ho vissuto gli anni della ferocia e della trasformazione, quando hanno fatto diventare città una Roma che non lo era».

 

E cos' era?

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«Un agglomerato di villaggi, di barrios. Ogni quartiere con storia e ostilità proprie, la Garbatella contro Trastevere, Testaccio contro i Parioli.

Quella era la forza. Ognuno con la sua lingua. Ti spostavi di un chilometro e cambiava l' inflessione. Poi si dimentica sempre che Roma ha il mare di Ostia. E Ostia di Sergio Citti, che per Laura Betti era la vera mente barbarica più di Pasolini, è un grande film».

 

Roma maschio e femmina, santa e mignotta, cinica e selvaggia. Sintesi di contrari e contrasti: tutti dentro l' arsenale del titolo?

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«L' arsenale è un gigantesco magazzino che in realtà viene dalle navi militari di Venezia.

L' ho usato anche in un vecchio poemetto. Mi piaceva questo luogo abbandonato, ma pieno di energie. Come tante rovine abbandonate e carbonizzate, che invece sono pietre preziose adagiate: il passato, la ferocia, le lotte, la mitologia».

 

Ci sono anche eroi tragici come Giorgio Chinaglia e Nino Benvenuti.

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«E Carlos Monzon, il primo criminale moderno arrivato a Roma. Quando mise al tappeto Benvenuti alla dodicesima ripresa ero lì, in quel palazzetto vociante, che sembrava un' astronave poggiata sull' Eur. Le donne urlavano "Nino, Nino". Avevano già capito che non ce l' avrebbe fatta.

Monzon l' aveva lavorato con il sinistro tutto l' incontro; per poi sparare il destro, definitivo come una pistolettata. Una tragedia».

 

E Chinaglia?

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«Tra romanisti e laziali è sempre odio e amore. I romanisti lo dicono: un avversario potente come Chinaglia non l' abbiamo più trovato. Segnava e andava sotto la curva puntando il dito a mo' di pistola: eccomi qua, vi ho bucato. Anche lui è stato un eroe tragico, morto male in America. Come Monzon, finito in galera perché aveva ucciso la moglie. E una sera, tornando in carcere, ha trovato la morte in un sorpasso azzardato. Roma ti esalta e ti distrugge, puoi essere re solo per un giorno».

 

Tranne Francesco Totti, che è l' ottavo?

«Totti appartiene a un' altra Roma. Il re della mia epoca era Bruno Giordano... Quando ho visto Roberto Fico camminare circondato da una folla di compagni e uomini della scorta ho pensato già alla fine.

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Troppa gloria concentrata non dura».

 

Tragedia fu quella di Luciano Re Cecconi, una rapina per scherzo finita all' obitorio: incoscienza, sfrontatezza...

«Re Cecconi era l' unica mezz' ala che si permetteva di falciare Romeo Benetti. Era il più sensibile del gruppo, anche se pure lui giocava con le pistole, come Martini, D' Amico e Wilson. Chinaglia invece si era comprato un Winchester. Andarono dal gioielliere di Pietro Ghedin all' orario di chiusura e finì in quel modo.

Calciatori, gioiellieri, artisti e criminali erano sempre a contatto».

 

Era già il mondo di mezzo?

«No, era un fatto fisico, più che di mediazioni. Erano rapinatori a mano armata, impulsivi come gli artisti.

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Gente che dava tutto nella ribellione. Come la banda di Cimino, il primo che estrasse la pistola e freddò i Menegazzo, due fratelli gioiellieri.

Quei criminali sapevano di dover morire. Rapinavano solo per godersi il bottino. Non cercavano protezioni e intrallazzi come i boss e la banda della Magliana che mediava col potere per avere il controllo del territorio».

 

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Il giorno in cui accaddero non sapevi nulla degli scontri al comizio di Luciano Lama: non t' interessava la politica?

«L' esistenza superava la politica. Mi ritrovai il 17 febbraio 1977 a pisciare mentre i grandi andavano a scopare in via Castro Pretorio. C' erano stati gli scontri per Lama. Dopo dieci giorni si trovava solo eroina, la marjuana era sparita».

 

Come te lo spieghi?

«Allentare i controlli sulle droghe pesanti era un modo per indebolire la protesta giovanile».

 

Tu eri fuori dai giochi?

«Avevo già trovato Ugo Foscolo, la letteratura e l' arte».

 

La Roma di oggi cosa chiede alla politica?

«Che le tolga gli orpelli. E che ridia vita ai quartieri, come isole di un grande arcipelago.

Invece gli intellettuali stanno tutti negli stessi posti, hanno steso una colla».

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A Virginia Raggi cosa diresti?

«La questione di Roma è il traffico. Da qui l' isteria generale. Il metrò è operazione complicata. Le direi di ripristinare la rete tramviaria per esaltare la città della luce».

Nella tua vita non ti sei fatto mancare nulla, forse solo il cinema.

«Da ragazzo non mi facevo neanche fotografare. Poi ho trovato subito la scrittura. Mi piace leggere i miei testi a teatro. Mi piacerebbe anche girare e produrre per altri. Forse avrei potuto essere un attore internazionale, un animale con più espressioni di Nicolas Cage. Mi ha fregato la letteratura».

 

Che cos' è per te?

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«Cercare mio padre che ho perso troppo presto. Avevo ereditato la sua rivoltella e fin da bambino me la portavo appresso come una reliquia.

Senza la letteratura sarei potuto diventare un rapinatore a mano armata. Oppure morire nelle corse notturne in auto. La letteratura mi ha salvato la vita. Però me l' ha anche rubata».

 

I critici dicono che la narrativa italiana non ricerca l' assoluto. Alessandro Baricco sostiene che non può più essere ciò che è stata in passato.

«Io non sono moraviano, ma qualche volta Moravia aveva delle buone sintesi. Come quando diceva che l' artista deve sempre cercare l' assoluto, il politico il relativo. Il mondo globale va tutto spedito verso la comunicazione e distrugge l' arte. Per esempio, non capisco questo andare tutti alle mostre. Si dovrebbe prima avere amore per l' arte e poi andare a vederla. Invece, oggi anche chi non la ama va a vedere l' arte».

 

Per dovere, per moda, snobismo?

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«Le fondazioni, la comunicazione, il turismo, lo scambio, i festival Un conformismo osceno che non serve, non coltiva lo spirito. Per certi versi sono un monaco, ma non trovo più un' abbazia dove ci sia silenzio, perché in tutte sono entrati il turismo, il commercio. La comunicazione che impazza ha sottratto mistero anche ai luoghi del mistero».

 

Questo libro sembra un racconto notturno al bar, imbevuto di nostalgia?

«È un' autobiografia devastata, il ricordo è tutto scritto nel mio corpo. Se quello che racconto non l' ho fatto tutto io, almeno l' ho visto da vicino».

 

Un racconto di malinconia?

«Di struggimento, di una giovinezza gridata».

 

Un racconto di rimpianto?

«Un uomo senza rimpianti è un bugiardo. I miei li sento come una voce interiore che ogni tanto mi chiama. Non so se chiamarli rimpianti o attrazione per ciò che non ho avuto o non ho voluto».

 

Di cosa parli?

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«Del figlio che avrei potuto avere. Da ragazzi eravamo talmente ignoranti che l' aborto sembrava una cosa facile e gratuita. Invece, quando mi successe insieme alla ragazza di allora, avvertii un grande vuoto. E dei figli che hanno rifiutato le donne per me o che ho rifiutato io. Non mi sento un assassino, pur essendo contrario all' aborto, tranne quello terapeutico. Mi sento un uomo al quale, in qualche modo, il destino ha tolto una definitiva potenza».

 

Definitiva? Quando sei nato, nel 1957 o nel 1960?

«A forza di dirmi che somiglio a Curzio Malaparte, mi sono preso l' anno di nascita di quando è morto lui: il 1957. Però, mo' basta con 'sta smania dei media di sapere quando uno è nato. Il valore di un artista deriva dalle sue opere. Da quando si è cominciato a parlare di rottamazione la data di nascita è diventata come il marchio che s' imprime sulle bestie. Invece di parlare dell' ingegno di uno scrittore vogliono sapere quando è nato e con chi è sposato. La biografia diventa pettegolezzo. Siccome sono un foscoliano e credo nel culto dei morti, sulla mia tomba non metterò né data di nascita e di morte né ciò che ho fatto nella vita, solo nome e cognome».

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Come guardi al futuro?

«Ho tre possibilità. Mettere via i soldi, senza sprecarli nell' acquisto di una Ferrari 412 come quella del protagonista del mio prossimo romanzo. Comprare una grande casa dove ritirarmi a scrivere un libro di tremila pagine, intitolato Il romanzo dell' eternità e diviso in tre capitoli: infanzia, giovinezza, morte. La seconda possibilità è morire come mio nonno, d' infarto e ictus insieme, perché ho l' emoglobina alta e l' ematocrito come Pantani. La terza possibilità, più remota, è avere dei figli».

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