IL NECROLOGIO DEI GIUSTI - LO AVEVAMO APPENA VISTO IN "TWIN PEAKS: THE RETURN DI DAVID LYNCH". E AVEVA APPENA PUBBLICATO IL SUO PRIMO E UNICO DISCO, “HARRY DEAN STANTON: PARTLY FICTION”. INSOMMA. SE NE VA, A 91 ANNI, CON HARRY DEAN STANTON, QUALCOSA DI PIÙ DI UN GRANDE ATTORE, UNA SPECIE DI MITO DEL CINEMA E DELLA CULTURA INDIPENDENTE AMERICANA

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Marco Giusti per Dagospia

 

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Lo avevamo appena visto in Twin Peaks: The Return di David Lynch. E aveva appena pubblicato il suo primo e unico disco, “Harry Dean Stanton: Partly Fiction”. Insomma. Se ne va, a 91 anni, con Harry Dean Stanton, qualcosa di più di un grande attore, una specie di mito del cinema e della cultura indipendente americana. Adorato da Sam Peckinpah, Bob Dylan, Monte Hellman, Wim Wenders, Francis Coppola, David Lynch, John Milius. Il grande critico americano Roger Ebert ha scritto che “nessun film dove appaia Harry Dean Stanton può essere davvero brutto”.

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E comunque, basterebbe il personaggio di Travis Henderson, scritto e modellato su di lui da Sam Shepard per Paris, Texas di Wim Wenders, il disperato protagonista romanticamente sperduto nel deserto, per farcene capire la grandezza. E non apre bocca per i primi 26 minuti di film. David Lynch, che lo ha diretto parecchie volte, in Cuore selvaggio, Inland Empire, Una storia vera, ha scritto che “Harry Dean Stanton ha una delle più belle voci mai esistite. Canta dal profondo dell’anima”.

 

Bob Dylan lo ha voluto accanto a lui nel suo unico film, Renaldo and Clara e in un video. Nessuno come lui ha attraversato tutto il cinema americano che davvero conta, da Nick mano fredda di Stuart Rosenberg  a Alien di Ridley Scott, da Dillinger di John Milius a Fuga da New York di John Carpenter, da One From the Heart di Francis Coppola a Pat Garret & Billy The Kid di Sam Peckinpah con la stessa grazia, più da rockstar che da attore, invecchiando dentro la pellicola.

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Fino a mostrasi vecchissimo e malandato nelle ultime puntate di Twin Peaks e nel recentissimo Lucky, il film che il figlio di David Lynch, John Carroll Lynch, gli ha appena dedicato da protagonista e abbiamo visto a Cannes. Anche se non fa nulla, è la sua faccia a parlare per lui, a esprimere la complessità e la durezza del viaggio che sembra aver fatto per arrivare fino a noi.

 

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Come grandi attori del calibro di Warren Oates, Dennis Hopper, Ben Johnson, o come i grandi bluesman e cantanti del passato. Indeciso fra il diventare cantante o attore, Harry Dean Stanton, scelse già giovanissimo, subito dopo la guerra, dove da marinaio aveva combattuto nella Battaglia di Okinawa, la sua strada. Quella cioè dell’attore. Ma seguitò a cantare sui set, accompagnato dalla sua chitarra.

 

Era celebre la sua versione della “Cancion Mixteca” in Paris, Texas, ma cantava già in Nick mano fredda e canta una commovente “Red River Valley” nell’ultimo Twin Peaks. Parecchi anni fa mi telefonò Veronica Lazar dal set di Ginostra di Maurice Pradal. Aveva lì Harry Dean Stanton che si annoiava e non la smetteva di cantare. “Fai un salto?”.

 

Nato in Kentucky, figlio di un coltivatore di tabacco (e barbiere) e di una cuoca, già da studente inizia a recitare. Con quella faccia viene subito preso per piccoli ruoli in noir e western alla fine degli anni ’50. Soprattutto una marea di telefilm western. Il primo ruolo di qualche peso al cinema è in Pork Chop Hill, solido film anticomunista sulla guerra in Corea diretto da Lewis Milestone nel 1959 con Gregory Peck.

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Personalmente lo ricordo qualche anno dopo nel bellissimo western Assalto finale, iniziato da Roger Corman e terminato da Phil Karlson. Era pure il primo western di Harrison Ford. E poi, certo, in Nick mano fredda di Stuart Rosenberg e in Le colline blu di Monte Hellman. Gira ancora una valanga di film e telefilm in piccoli ruoli, ma si fa notare parecchio in Cisko Pike di Bill Norton a fianco di Kris Kristofferson, in Dillinger di John Milius e in Pat Garrett & Billy The Kid di Sam Peckinpah.

 

Da lì partirà la sua vera carriera, anche se, a parte Paris, Texas, non è che abbia fatto così tante volte il protagonista. Ma non c’è grande regista con cui abbia lavorato che non lo abbia saputo valorizzare e non lo abbia richiamato. Anche averlo per pochi minuti illumina lo schermo. Girerà così oltre cento film, in ruoli anche piccolissimi.

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Ma è difficile non notarlo. Diventa rapidamente un elemento fondamentale per un certo cinema indipendente, una sorta di presenza magica per molti artisti, da Bob Dylan ai Black Rebel Motorcycle Club. Forse l’ultimo dei grandi attori e volti da western, lo abbiamo visto recentemente anche nel film americano di Paolo Sorrentino, This Must Be the Place, e in 7 Psycopaths di Martin McDonagh. Ma è stato davvero David Lynch a offrirgli i ruoli più adatti a lui negli ultimi tempi. E la sua apparizione in Twin Peaks: The Return rimane un momento memorabile nella sua lunga filmografia.

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