LA ROMA DEI GIUSTI - COME CAZZO ABBIAMO FATTO?” SI CHIEDE MICHAEL MOORE A PROPOSITO DELL’ELEZIONE DI DONALD TRUMP ALL’INIZIO DEL SUO NUOVO FILM-DOCUMENTARIO “FAHRENHEIT 11/9” - IL REGISTA CI FA FARE UN VIAGGETTO ISTRUTTIVO NEL MICHIGAN, LO STATO CHE HA VERAMENTE DATO LA VITTORIA A TRUMP. MA ANCHE SPIEGANDOCI QUANTO LA CAMPAGNA DI HILLARY CLINTON NON ERA STATA COSÌ PULITA… - VIDEO

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Marco Giusti per Dagospia

 

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“Come cazzo abbiamo fatto?” si chiede Michael Moore a proposito dell’elezione di Donald Trump all’inizio del suo Fahrenheit 11/9. Ovvio che ce lo stiamo domandando anche noi, ogni giorno, come cazzo abbiamo fatto rispetto ai problemi di casa nostra… Il Trump descritto da Michael Moore, comunque, è più o meno quello che ci sembra da qui, “tyrant, liar, racist, a hole in the one”, come recita il sottotitolo del film, ma il regista non vuole descriverci chi è il presidente degli Stati Uniti, quanto grazie a cosa e a chi è arrivato dove è arrivato.

 

E perché rischiamo di tenercelo per un bel po’. Facendoci fare un viaggetto istruttivo nel Michigan, lo stato che ha veramente dato la vittoria a Trump. Ma anche spiegandoci quanto la campagna di Hillary Clinton non era stata così pulita rispetto all’altro candidato democratico, Bernie Sanders, che rappresentava la parte sana dell’America e che aveva davvero più voti di lei. Ci spiega anche che l’America, in realtà, avrebbe una maggioranza di sinceri democratici, ma che la legge elettorale da una parte e il legame dei capi del partito democratico col capitalismo hanno fatto la differenza.

 

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Lungo, ma divertente, ironico e sempre altamente istruttivo, Fahrenheit 11/9 è un viaggio in un’America profonda dove il presidente di uno stato come il Michigan può avvelenare col piombo un’intera città, Flint, e farla franca. Ma è anche un viaggio nella mentalità dei cittadini delle ultra-democratiche New York e Los Angeles, dove la gente non si rende conto di quel sta davvero avvenendo nel paese. Al punto che è uno spettacolo vedere giornalisti e esperti dare come sicura la vittoria di Hillary Clinton quando nessuno aveva davvero il polso della situazione.

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E il trionfo inaspettato di Trump gettò sotto shock un paese. E non solo quello. Curiosamente, proprio Michael Moore aveva previsto la vittoria di Trump nel Michigan conoscendo la classe operaia bianca dello stato. Come da noi, l’errore dei democratici è stato, da una parte, quella di tradire l’elettorato più a sinistra, da un’altra quello di sottovalutare il pericolo a destra.

 

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Secondo film della terza giornata della Festa del Cinema di Roma è il più che solido The Old Man and The Gun, scritto e diretto da David Lowery, che ci aveva dato una serie di buoni film, Senza santi in Paradiso, Storia di una fantasma, Il drago invisibile, ma che resterà soprattutto come l’ultimo film interpretato da Robert Redford. Lowery gli cuce addosso una storia, vera o quasi vera, di un vecchio rapinatore di banche gentiluomo, che opera con due vecchi compari, addirittura Danny Glover e Tom Waits, inseguito da un poliziotto simpatico e comprensivo, Casey Affleck, e innamorato di una signora della sua età, la sempre adorabile Sissy Spacek.

 

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Ovviamente è una specie di mega-omaggio a Robert Redford e ai suoi tanti ruoli memorabili negli anni ’60 e ’70, ma anche a un certo modo di far cinema di Hollywood. Compare anche, anche se non lo avevo riconosciuto, Keith Carradine. Il personaggio di Redford rapina le banche perché così si diverte, si sente vivo, non spara neanche, e esce sempre con un sorriso. Se lo prendono, evade, ha già sedici evasioni alle spalle.

 

Le scene romantiche tra Redford e Sissy Spacek sono adorabili, e anche quelle con i vecchi soci rapinatori. A Casey Affleck, che con il regista ha già girato due film, spetta il ruolo di cacciatore, ma non sarà una vera e propria caccia, proprio perché Redford si porta dietro decine e decine di grandi film che tutti abbiamo amato. Grandi applausi in sala. 

 

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