1. SONO PASSATI DIECI ANNI DALLA MORTE DI MARLON BRANDO, MA PIÙ PASSA IL TEMPO E SCORRONO SUL PICCOLO SCHERMO I SUOI VECCHI FILM, PIÙ E’ VIVISSIMO NEL NOSTRO IMMAGINARIO UN “MOSTRO” CHE IN TUTTI I MODI HOLLYWOOD CERCÒ DI INCELLOFANARE PER FARNE UN SIMBOLO COMMERCIABILE: MA SEMPRE ROMPENDOSI UN PO’ LE CORNA 2. INTERVISTA INTIMA E GRANDIOSA A BERNARDO BERTOLUCCI SUL SUO RAPPORTO CON MARLON SUL SET DI “ULTIMO TANGO A PARIGI”: “LA STORIA DEL BURRO NON ERA IN COPIONE, MA ERA PREVISTO UNO STUPRO. LA MATTINA, LÌ NELL’APPARTAMENTO SFITTO, MARLON ED IO STIAMO FACENDO COLAZIONE, CAFÉ CRÈME, BAGUETTE, BURRO: CI GUARDIAMO E, QUASI SENZA DIRLO, NASCE LA FAMIGERATA SCENA CHE ALCUNE PERSONE MOLTO INGENUE O IGNORANTI HANNO CONSIDERATO REALTÀ. E NON CINEMA”

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1. ULTIMO BRANDO A PARIGI

Paola Zanuttini per “Il Venerdì - La Repubblica

 

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Al primo ciak di Ultimo tango a Parigi, Bernardo Bertolucci grida «Buona la prima!». Ma non è tanto buona. Perché l’operatore di macchina Enrico Umetelli, arrossendo, gli sussurra: «Scusa, mi sono trovato Marlon Brando nella loop e sono rimasto a guardarlo, paralizzato».

 

L’arrivo di Brando sul set ha sprigionato meraviglia, innamoramento, tremore. Anche Vittorio Storaro, che non è un principiante, si fa intimidire: nei camerini allestiti sul ponte di Passy, ha notato che l’attore ha la faccia troppo rossa, ma non osa farne parola con lui. Interpella il regista: «Secondo te, si offende?». Bertolucci lo tranquillizza: «Ma va’, diglielo». Storaro va.

 

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Il divo non si scompone, anzi. Piglia un asciugamano, se lo strofina in faccia, porta via tutto il cerone e domanda: «Meglio, così?». Nel soggiorno color sabbia, con il soffitto azzurro come un cielo sul deserto, Bertolucci rievoca il suo Marlon Brando, a dieci anni dalla morte e a 42 dalla lavorazione di Ultimo tango.

 

Intanto, una seducente gattina, passata con nonchalance dal randagismo ai divani, fa di tutto – fusa, moine, coda ritta – per occupare la scena: va detto che ci riesce. Perché, mentre il padrone mi racconta la sua triste storia a lieto fine, io la carezzo a dovere. Poi esagera, la micia: monta sul tavolo e lappa nel mio bicchiere. Gag da applauso, ma Bertolucci la esilia dalla stanza. A malincuore.

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Per il ruolo di Paul in Ultimo tango lei aveva pensato prima a Jean-Louis Trintignant, poi a Jean-Paul Belmondo e Alain Delon. Come è arrivato a Brando?

«Con Trintignan e Dominique Sanda avevo appena girato Il conformista; mi piacevano molto, pensavo di ricomporre la coppia, ma Dominique era incinta e Jean-Louis declinò l’offerta quasi piangendo: non se la sentiva di spogliarsi.

 

Soprattutto per sua figlia, la piccola Marie che ora non c’è più: temeva i commenti a scuola. Allora, visto che si girava a Parigi e la cooproduzione era francese, mi rivolsi alle due star francesi del momento: Belmondo e Delon, che mi piacevano. Belmondo quasi mi buttò fuori dal suo ufficio. Secondo lui gli stavo proponendo un porno».

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Conservatore dentro, Belmondo.

«Lo so, ma aveva fatto Fino all’ultimo respiro, film determinante, per me. Delon, invece, aveva amato la sceneggiatura, ma voleva un ruolo da coproduttore, per mantenere un suo controllo. Non mi pareva il caso, e quindi adieu.

 

Tempo dopo, ero a cena a piazza Navona, c’erano dei francesi, la costumista Git Magrini e Luigi Luraschi, il distributore Paramount che avrebbe preso il film. Uscì il nome di Brando, Luraschi disse che conosceva il suo agente, e, forse, poteva chiamarlo».

 

A lei piaceva Brando?

«Certo, ma mi sembrava irraggiungibile. Come Zapata o Il selvaggio. Mi dava la sensazione di fare un film antihollywoodiano, ma hollywoodiano in quanto antihollywoodiano».

 

Questa è un po’ fumosa. E imbevuta di rivoluzionaria intransigenza.

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«No. Amando il cinema, non avrei mai potuto dire che le commedie musicali facevano schifo perché erano politicamente disimpegnate».

 

Lei era un talento emergente di trent’anni, Brando un mostro sacro di quasi cinquanta. Come andò il primo incontro?

«Non sapeva niente di me. Aveva chiesto informazioni a una sua amica cinephile, una cinese ricchissima proprietaria di supermarket che aveva visto Il conformista e gli aveva intimato: “Devi andare assolutamente!”. Ci incontriamo a Parigi, all’hotel Raphael. Sono stravolto, non ci credo, eppure è lì. Tengo le gambe accavallate, ma ho un piede fuori controllo che scatta come una molla. Con l’inglese me la cavo male, ho fatto una settimana alla Berlitz, buona per spiegargli il film in dieci parole e, mentre tento di farlo, lui sta a occhi bassi. Gli chiedo perché non mi guarda in faccia: “Guardo il tuo piede. Voglio vedere quando la finisci con quel su e giù”».

 

Il duca nel suo dominio, come nella famosa intervista di Truman Capote.

«Sì, ma sorridente. Poi si va a mangiare e dopo ancora in una saletta a vedere Il conformista. Durante la proiezione esco, non ho voglia di star lì. Quando torno mi fa: “Vieni a Los Angeles un mese. Ci mettiamo a casa mia e parliamo della sceneggiatura”. Adattava i dialoghi alla sua voce, Marlon, ma io lo faccio con tutti miei attori. In realtà, a casa sua, una villa su Mulholland Drive, non abbiamo mai parlato del film.

 

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Mi portava a mangiare dal giapponese, io gli chiedevo perché era sempre solo e lui rispondeva che stava benissimo così, che non gli piaceva andare in giro. Però era curiosissimo delle persone. A cento metri da casa sua, più in basso, c’era quella di Jack Nicholson; mi ha fatto sporgere dal giardino per mostramela: “Jack fa le cosacce con una ragazza in piscina”».

 

Nel ruolo fatale di Jeanne, Maria Schneider era molto nuda, Brando meno. Allora, lei ha giustificato la disparità di trattamento con la tesi che un uomo senza braghe perde mistero. Ne è ancora convinto?

«No, è una sciocchezza. Nel film di Abel Ferrara su Strauss-Kahn, Depardieu è nudissimo e meraviglioso, una specie di Pantagruel. Però Marlon si è spogliato abbastanza, c’è anche quella posizione incriminata – quasi yoga – con Maria, che poi è stata ripresa da un logo di abbigliamento. Il problema è che aveva il pancione, non volevo esporlo troppo».

 

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Altro indumento, più rispettabile: il cappotto di cammello di Marlon-Paul, molto simile a quello di Alain Delon nel contemporaneo La prima notte di quiete di Valerio Zurlini: coincidenza o plagio?

«Il mio film è uscito prima. E Alain aveva letto la sceneggiatura. In ogni caso, io ho visto La prima notte di quiete dopo l’anteprima mondiale di Ultimo tango al New York Film Festival, il 14 ottobre 1972. La critica Pauline Kael ha scritto che quella data sarebbe diventata una pietra miliare nella storia del cinema, come lo era quella della prima rappresentazione della Sagra della primavera, il 29 maggio 1913, nella storia della musica. L’avevo trovato bello, il film di Zurlini».

 

Non era troppo melodrammatico?

«Può darsi, non mi ricordo più niente, solo il cappotto. Forse l’ho perdonato proprio perché c’era il cappotto di cammello».

 

Nel 1972, dopo anni di stracca, Brando esce con due film epocali che lo rilanciano: Il padrino a marzo e Ultimo tango a ottobre. Mentre Coppola gli restituisce la gloria, ma non la carica erotica – con quelle guance imbolsite dal cotone – lei lo incorona di nuovo sex symbol. Sgualcito e irresistibile.

«Accidenti! Avrà pure avuto la pancia, ma la sua testa era meravigliosa».

 

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Brando si divideva fra i due set? E metteva zizzania fra lei e Coppola?

«Per niente. Le riprese del Padrino erano già terminate quando lavorava con noi. Un sabato pomeriggio, Coppola, che era a Parigi, passò a trovarci. Giravamo in esterni, senza Marlon perché il sabato non lavorava, per la felicità di Jean-Pierre Léaud, che aveva il ruolo del fidanzato cineasta di Maria ed era terrorizzato dall’idea di incontrarlo.

 

Visto che avevo due biglietti per un balletto, ci andai con Francis. Mi raccontò del Padrino e mi chiese di Marlon. Non troppi anni dopo, sul set di Apocalypse Now, avrebbe avuto i suoi problemi con lui: Brando non voleva girare e Francis ci diventava pazzo, poi decise di fare solo l’inquadratura con The horror, the horror. Il direttore della fotografia era Storaro e quando Marlon si decise finalmente a parlare gli domandò mie notizie: “Come sta il bambino profeta?”.

 

Ma sul set di Ultimo tango non è successo niente di tutto questo. Mi spiace, non ho aneddoti di screzi, liti o dispetti da star impazzita. È sempre stato puntuale ed estremamente professionale».

 

Nessuna fuga dal set?

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«Solo alla penultima settimana di riprese ci fu un problema: la sua ex moglie aveva rapito il loro figlio ed era sparita nel deserto, in Messico: li cercavano con gli elicotteri. Quando mi disse cosa era successo risposi che doveva partire, era l’unica cosa da fare. Mi abbracciò commosso. E tornò dopo cinque o sei giorni, a questione risolta. Poiché tendo a girare in cronologia, penso che le ultime riprese siano state quelle della corsa e della morte.

 

Una corsa lunghissima, sfiancante, in cui Paul insegue Jeanne, che poi lo uccide. Mentre correva, ho pensato che ci stava dando tantissimo, non so come ha fatto, a 48 anni. Lui non era uno da palestra. Ricordo anche l’ultimo ciak: le tre di un freddo pomeriggio primaverile sul lungosenna, gli rifacciamo un primo piano che era venuto male. Poi: “Signori, il film è finito. Marlon, the film is off”. Lui guarda la troupe, alza la gamba sulla spalletta del fiume e mima il suicidio».

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Qui tocca parlare del burro. E delle tardive recriminazioni di Maria Schneider.

«Maria si è sentita un po’ strumentalizzata da tutti e due, ma un regista non usa sempre i guanti di velluto. Lei era molto femminista. E molto ignorante. La sgridavo: “Sei figlia di una libraia, possibile che non leggi mai? Come puoi fare bene l’attrice se resti ignorante come una talpa?”. Avevamo un rapporto, come dire, diretto: una volta ci urlavamo al walkie-talkie oscenità di ogni tipo e un radioamatore che per caso ci aveva intercettato rimase sconvolto: “Ma cosa vi state dicendo?”.

 

La storia del burro è risaputa, non era in copione, ma era previsto uno stupro. La mattina, lì nell’appartamento sfitto, Marlon ed io stiamo facendo colazione, café crème, baguette, burro: ci guardiamo e, quasi senza dirlo, nasce la famigerata scena che alcune persone molto ingenue o ignoranti hanno considerato realtà. E non cinema. Finita la ripresa, Maria era rabbiosa, Marlon se l’è portata in camerino e l’ha tenuta abbracciata una mezz’ora. Per molto tempo Dopo, molto dopo, ha cominciato a parlare male di me. A dire che l’avevo abusata».

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E com’erano, sul set, i rapporti Schneider- Brando?

«Lei gli faceva gli scherzi. Marlon voleva sempre il gobbo, nella scena del monologo sulla moglie morta ce n’era uno lungo come il catafalco, non è che leggesse, ma coglieva una parola e ricostruiva tutto il suo dialogo. Insomma: una volta Maria ha infilato una battuta di Marlon in un mocassino che lui doveva prendere in mano. Un’altra se l’è attaccata sulla fronte».

 

Brando era ancora fissato con l’Actor’s Studio e il suo Metodo?

«Non ne parlavamo mai. Però aveva bisogno di avvicinarsi al personaggio. Un giorno che doveva piangere, arriva il truccatore con il mentolo e lui lo manda via: “Piango da solo”. Cominciamo a girare, ma non gli viene; accetta il mentolo, ma non si vede una lacrima. Mi dice: “Tu sei il regista, fammi piangere”. Non so che fare, poi mi torna in mente un incubo che mi ha raccontato qualche giorno prima: “Ti ricordi quel sogno in cui eri su un’isola, sotto un tremendo uragano con tua moglie e i tuoi figli che ti venivano strappati uno a uno?”. Finalmente piange: un sollievo per lui e una bella soddisfazione per me».

 

Capita spesso che i suoi attori le raccontino i loro sogni?

«Mi piace molto ascoltarli, ma solo da alcune persone». Dai bravi sognatori. «Appunto, invece ci sono tanti sognatori noiosissimi. Pasolini me ne riferiva di belli quando gli facevo da assistente per Accattone e andavamo nella sua Giulietta sul set, al Pigneto. Erano frammenti, stracci».

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Nel catalogo della mostra Pasolini Roma lei ricorda che il suo maestro aveva espresso un pessimo giudizio su Ultimo tango e su Marlon Brando.

«A Pier Paolo non piaceva questo tipo di presenza maschile che gli sembrava piena di eterosessualità, e nemmeno la storia con la ragazzina. Mi sfotteva: “Ma dài, quel Brando lì, questo cupo scopatore!”. Sul cupo scopatore un po’ aveva ragione. La cosa divertente è che un anno dopo mi ha chiamato: “Sto pensando a San Paolo, per caso, sei ancora amico con il tuo Brando?” Purtroppo in quel periodo Marlon ed io eravamo un po’ in freddo».

 

Perché?

«Era arrabbiato, ma nessuno sa il motivo. Ho provato a darmi una spiegazione, forse di comodo: mentre girava non si è accorto di tutto quel che ha detto e fatto, ma quando ha visto il film si è reso conto che gli ho strappato la sua parte più intima e personale. Non l’ho sentito per anni. Quando andai a Los Angeles per il cast di Novecento provai a chiamarlo. Niente. Lascio in segreteria messaggi del tipo “So che sei lì a far le boccacce”. Ancora niente. Ma giorni dopo mi telefona la sua amica cinese: “Marlon è un po’ arrabbiato, ma ti incontra subito se accetti di fare la regia del suo film sugli indiani d’America”. Le rispondo che sto preparando il film sui miei indiani, i contadini emiliani».

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Anche a Gillo Pontecorvo, nonostante le furiose litigate di Queimada, aveva proposto la regia di quel film.

«Quando Gillo seppe che stavo per girare Ultimo tango con Brando mi disse: “Non farlo! Io andavo sul set con due pistole sperando che mi desse il modo di ucciderlo”. Era ancora così arrabbiato che sembrava facessi un torto a lui lavorando con Marlon».

 

E com’è andata quando l’ha rivisto?

«Sarà stato il ‘94. C’erano state le sue tragedie familiari: il figlio aveva ammazzato il fidanzato della sorella che poi si era suicidata. Sono a Los Angeles con mia moglie che gira Rough Magic e ho un attacco di nostalgia: lo chiamo, mi risponde “Vieni immediatamente”. Sono stordito, emozionato, imbarazzato, non so come rapportarmi ai suoi dolori, ho anche voglia di vomitare. Nella villa di Mulholland Drive è tutto come nel ‘72, le stesse betulle, o forse pioppi, in giardino. Da uno di questi alberi spunta la sua pancia, molto ingrossata. E, dietro, c’è lui che ride. Dice che era come morto e che da poco ha ricominciato a vivere. Per questo mi ha ricevuto».

 

Quando è morto sul serio, a proposito di quell’incontro lei ha scritto: “Nel buio gli chiesi se si era mai accorto di quanto fossi stato innamorato di lui”, ma non ha rivelato la risposta. Vuole farlo oggi?

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«Non me la ricordo. Ma io sono abituato a innamorarmi, per lo più in senso platonico, dei miei attori. Altrimenti non riesco a lavorarci».

 

 

2. ASCESA E CADUTA DELL’ANTIDIVO CHE FU PIù DIVO DI TUTTI

Marco Cicala per “Il Venerdì - La Repubblica

 

Che avesse una vocetta da Teletubbies gli italiani se ne accorsero nel 1955, quando, scarcerata dal doppiaggio, la udirono per la prima volta nature zampettare incerta sulle note di Bulli e pupe, che era un musical pieno di assurdità come tutti i musical, ma siccome lo firmava Mankiewicz non avrebbe mai potuto essere davvero brutto. Era stonato Brando, tracagnotto e precocemente votato alla pinguedine, però aveva una faccia di quelle che oscurano tutti i limiti ribaltandoli in grandezza. Pianeta sconfinato, infido e per molti aspetti ancora inesplorato, fu principalmente quella faccia a fare di lui il migliore. Anche perché trascinava i paradossi dell’attore oltre ogni geografia conosciuta.

 

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Al cinema, Brando fu motociclista, immigrato polacco, mammasantissima siciliano, aristocratico inglese, sceriffo, camallo, ufficiale della Wehrmacht e dei marines... Fu Zapata, Marco Antonio, Napoleone e perfino il papà di Superman. In tutti i modi Hollywood cercò di incellofanarlo per farne un simbolo commerciabile: a seconda, virile, sbarazzino, blasé. Ma sempre rompendosi un po’ le corna.

 

 Se quell’operazione di marketing risultò azzoppata fu perché Brando sarebbe rimasto fino all’ultimo quello che era ai blocchi di partenza della celebrità: uno sfuggente palinsesto di contraddizioni. Rebel without a cause, ribelle senza causa, anche se di alate cause ne sposò più d’una: dal no alla pena di morte ai neri (con l’inevitabile e un po’ modaiolo appoggio alle Black Panthers) fino all’impegno per i native americans culminato nella decisione di mandare una squaw a rifiutare l’Oscar ottenuto per Il padrino.

 

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Gesto eclatante, ma politico o semplicemente eccentrico? Perché dello star system lui fu lo slob, cioè uno snob senza teoria, ispido, lunatico. Pervaso da possenti furori, ma incapace di sillabarli in una posizione ideologica definita; lucido diagnosta della mercificazione dell’attore (il divo del cinema «non è un artista, è una merce: il sacco di patate Clark Gable, il sacco di farina Brando...») però venale e occhiuto contabile di se stesso. È in questa avvincente matassa di controsensi che fruga Goffredo Fofi in Marlon Brando. Una tragedia americana, riproposizione ampliata e rivista di una monografia dell’82, ormai introvabile, che arriva in libreria per Castelvecchi.

 

Anche se si può non essere d’accordo sui giudizi relativi a questo o quel film, è di gran lunga la migliore esegesi mai tentata in Italia su Brando artista e figura pubblica. Dagli albori – quando gli italiani traducevano t-shirt «magliette-canottiere a maniche corte» e jeans «calzoni da tuta di lavoro» – al crepuscolo che vide Marlon ridotto a una specie di aerostato con montata in cima la testolina di Brando.

 

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La prima volta che Truman Capote lo incontrò, lui ronfava tra le prove teatrali di Un tram chiamato desiderio: «Trovai la platea deserta e un muscoloso giovanotto sdraiato su un tavolo del palcoscenico». Aveva «un torace da titano» con sopra appoggiate a tetto le Opere scelte di Sigmund Freud.C’era da capirlo. Nell’America golosa di novità, la psicoanalisi si piazzava in cima ai consumi culturali dei giovani intellò. E poi Brando veniva da un’infanzia di quelle che si prestano a finire sul lettino.

 

Terzo e unico maschio di tre figli, era nato nel 1924 a Omaha, Nebraska, da famiglia borghese e wasp. Un padre – che si chiamava Marlon pure lui – commesso viaggiatore, ergo: assente, e un filo donnaiolo. Una madre, Dorothy, «celestiale e svagata». Per Marlon «era tutto. Un mondo».

 

Senonché, quando lui tornava da scuola, cominciarono ad arrivare telefonate che dicevano: «C’è qui una signora. Fareste meglio a riportarvela a casa». Quelle chiamate provenivano dai bar della zona. Ciucca, Mrs. Brando aveva difficoltà a uscirne. Baby Marlon è bravo nei corsi di teatro, ma i genitori se ne infischiano e lo sbattono in una scuola militare. Ne verrà espulso causa intemperanze, ritrovandosi studente di recitazione a New York.

 

Dapprima sotto la bacchetta di Erwin Piscator, grande esule tedesco del teatro politico (ma Brando non lo ama: «Lui era der Meister e noi die Studenten»), poi all’Actor’s Studio di Elia Kazan & friends. Ricorda Fofi che, in un’enciclopedia francese del cinema, alla voce Brando si leggeva: «Occhi di cui è difficile percepire il lampo vegliano come in ritiro. Naso da boxeur, che pure conserva al profilo un classicismo da medaglia, e una bocca sensuale di cui si può attendere vanamente il sorriso, completano questo volto chiuso. In preda a non si sa che tormenti».

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Già, ma non erano tormenti. Erano nevrosi. E c’era del metodo in quelle nevrosi. Anzi, c’era The Method, cioè la famosa ricetta Stanislavskij, che sfondando la letteralità del testo obbliga l’attore a inoltrarsi fino alle più oscure sorgenti psicologiche del personaggio.

 

Alla lunga, quell’impostazione rivoluzionaria sarebbe diventata a sua volta accademia. Ma del Metodo Brando rappresentò l’incarnazione più sofferta, spericolata e coraggiosa. Senza confronti con l’acerbo James Dean o lo sfortunato Monty Clift. Ma il bello è che, come sottolinea Fofi, The Method riuscì fallendo. Perché – gonfio di psicoanalisi e muovendo da premesse quasi scientiste di biopsia dell’inconscio – si voleva antiromantico, però partorì i personaggi più romantici che la modernità americana si sia mai inventata.

 

Gente rosicchiata da tarli indecifrabili; gente che non declamava ma balbettava sul filo dell’afasia, del vagito originario; gente che trasfondeva quanto aveva dentro in gesti minimi, impalpabili, mai visti prima. Di Brando, al di là di tutto, sono proprio quei gesti a restarci incisi nella memoria come un graffio.

 

Quando in Fronte del porto lui raccoglie e accarezza il guanto caduto a Eva Marie Saint; quando nel grandioso La caccia scivola giù in spaccata sotto il pestaggio dei notabili razzisti; quando prima di morire in Ultimo tango si toglie il chewing gum di bocca e lo appiccica sotto la ringhiera, chissà se con la speranza di recuperarlo in un’altra vita; quando nel monologo di Apocalypse Now si umetta la pelata in punta di dita... Nei Settanta, furono i geni di Coppola e Bertolucci a reinventare Brando, riabilitandolo dopo quella folle sequela di film bruttini o così così che, con sparute eccezioni, erano stati i suoi Sixties.

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Era diventato un divo a 24 anni, ma a forza di dribblare le liturgie hollywoodiane in un misto di ribellione, narcisismo e paranoia, aveva finito col cacciarsi in un angolo, coltivando una sorta di orgoglioso cupio dissolvi. Ma quel suo farfugliare puerile nascondeva anche una hybris.

 

Una volta raggiunta la fama, infatti, «la sua vera colpa professionale è stata di aver creduto di poter dirigere lui per interposta persona molti film, quando i registi o i testi che aveva di fronte erano troppo mediocri o troppo deboli per tenergli testa o dargli sicurezza» osserva Fofi. Alla fine, fece un solo film tutto suo, si intitolava I due volti della vendetta e non era poi così male. Aggrappandosi con civetteria alle remote ascendenze francesi della sua famiglia, cercò di muoversi nel successo come un eterno étranger.

 

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Studiando yoga, andando a corsi di danza, frequentando eroinomani e gay, inseguendo il sogno erotico di ragazze europee, messicane, tahitiane, che fossero la perfetta antitesi del white anglo-saxon protestant. Sempre abbottonato e rimuginante, di colpo capitava che si abbandonasse a confidenze, ma poi rimproverava gli interlocutori accusandoli di avergliele estorte. Successe con alcuni registi e con il geniale ma odiosetto Truman Capote che sul New Yorker gli dedicò un memorabile ritratto, però Brando se ne sentì tradito. La sua vita privata fu una cordata di sfracelli che l’avrebbero consegnato a una vecchiaia isolazionista e triste, punteggiata di ruoli mercenari.

 

Nel 2004 morì senza lasciare eredi artistici. Perché «De Niro e Nicholson vollero imitarlo e potevano forse superarlo», ma «hanno ceduto molto più di lui alle lusinghe del paradiso californiano e del denaro». A un certo punto alcuni di noi sperarono che il testimone potesse essere raccolto da Johnny Depp, che però s’è perso pure lui e tutto sembra suggerire che mai più ritornerà. «Essi non sono e non saranno mai personaggi da romanzo» tipo Brando.

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Uno che, alla faccia di quella spaventosa beauty farm che è certa America, ricordò che puoi essere grande anche se balbetti, piangi, ingrassi, perdi i capelli, se vesti alla rinfusa, vai coi ragazzi e le ragazze, se in politica sei confuso e nelle risse le prendi. Certo, non fu una rivoluzione. Semmai una microrivolta confinata per lo più su uno schermo. Ma sempre meglio di niente.

 

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