LA VENEZIA DEI GIUSTI - UN PROGRAMMA COSÌ COSÌ, ALMENO SULLA CARTA. UN PO’ TROPPI PARRUCCONI E IMPARRUCCHINATI. PER AVERE QUALCHE BEL FILM AMERICANO TIPO PAYNE, DEL TORO, SCHRADER, CLOONEY E ARONOFSKY, O I MANETTI BROTHERS E VIRZÌ, DOVREMO SORBIRCI UNA MASSA DI FILM FRANCESI E INTERNAZIONALI CHE PAIONO MODESTI E POCO ORIGINALI, VEDI AI WEIWEI

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Marco Giusti per Dagospia

 

Così così questo programma della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2017. Noiosetto, almeno sulla carta. Manetti, cannibali, galeotti violenti a parte. Girano troppi parrucconi e imparrucchinati, diciamo la verità. E più degli anni scorsi.

 

Certo i nomi americani sono buoni, almeno sulla carta. Alexander Payne con Downsizing, Paul Schrader con First Reformed, Guillermo Del Toro con The Shape of Water, George Clooney con Suburbicon, Frederick Wiseman con Ex Libris: New York Public Library. Magari anche Martin McDonagh con Three Billboards outside Ebbing, Missouri o Mother di Darren Aronofsky.

 

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Nulla da dire. Ma per digerire qualche bel film americano, il nuovo Manetti Bros, musicarellogangsta, Ammore e malavita, l’ultimo Paolo Virzì, The Leisure Seeker‎ con Helen Mirren e Donald Sutherland, dovremo sorbirci una massa di film francesi e internazionali sulla carta modesti e assolutamente poco originali.

 

Anne Fontaine, Robert Guediguia, magari sarà meglio il già discusso e scandaloso Mektoub My Love: Canto uno di Abdellatif Kechiche, che sara' sicuramente il bersaglio dei critici talebani. Non parliamo poi del cinema orientale e del cinema d’arte, finiti nell’opera dell’artista e ora regista più trombone del mondo, Ai Weiwei, addirittura lanciato in concorso con Human Flow.

 

Per fortuna che troviamo il nuovo film di Hirokazu Kore Eda in concorso, sandone no satsujin. E qualcosa ci aspettiamo sul primo film di un aborigeno australiano in concorso a Venezia, Sweet Country, di Warwick Thornston. Come è stato per l’ultima Biennale d’Arte, anche questa Biennale Cinema dell’era Baratta-Barbera si presenta ben organizzata, piena di titoli, ma forse senza grandi picchi, con una scelta di opere e di autori non cosi' fantasiosa e innovativa.

BARBERA BARATTA BARBERA BARATTA

 

Ovvio che ci aspettiamo parecchio da Alexander Payne, fermo dai tempi di Nebraska, che si presenta con un progetto che doveva girare già nel 2009, Downsizing, con Matt Damon, Kristen Wiig, Laura Dern, Christoph Waltz e il grande Udo Kier, sorta di satira fantascientifica con la gente che non riesce a sopravvivere e cerca di farlo diventando proprio rimpicciolendo. Una vita in miniatura. O che ci possa interessare parecchio The Shape of Water di Guillermo Del Toro, favola con creature misteriose ambientata durante la Guerra Fredda che vede protagonisti Sally Hawkins, Michael Shannon e Doug Jones come Creatura.

 

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O il drammaticissimo First Reformed di Paul Schrader, con Ethan Hawke e Amanda Seyfried che cercano di superare pesanti lutti familiari, lui è un ex-militare con figlio morto, lei è vedova di un marito suicida. E si spera che Suburbicon di George Clooney, scritto assieme ai fratellini Coen, interpretato da Matt Damon, Julianne Moore e Oscar Isaac sarà magari superiore al terribile Monument Men, precedente film di Clooney. O che Mother di Darren Aronofsky con Jennifer Lawrence, Javier Bardem e Michelle Pfeiffer non sia un polpettone per mostrare grandi attori.

 

Certo, ci sono, sparsi nei fuori concorso, il violentissimo Brawl in Cell Block 99 di S. Craig Zahler con Vince Vaughn o un curioso, tardissimo James Toback, The Private Life of a Modern Woman con Sienna Miller , un film fuori regola come Brutti e cattivi di Cosimo Gomez Tchissa'?), ci sono i Manetti in concorso per la prima volta, ma il premio a Robert Redford e a Jane Fonda, insieme nel film Netflix Our Souls at Night, è davvero vecchiotto. E Victoria and Abdul di Stephen Frears con Judy Dench come Queen Victoria amica dell’impiegato indiano Ali Fazal sarà una buona commedia per le signore d’età dei Parioli.

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La novità delle serie tv è rappresentata dalle prime due puntate di Suburra di Michele Placido per omaggiare Alessandro Borghi padrino delle serate di inaugurazione e di premiazione e da Wormwood di Errol Morris con Peter Skarsgaard. Pochino. Un discorso a parte meriterebbe il cinema italiano, che di solito si spiaggia al Lido senza fortuna. Stavolta le scelte sembrano piu' attente rispetto agli anni passati.

 

Ma forse quattro film a Orizzonti sono troppi. Tra i classici restaurati c’è poco o niente che non abbia visto o stravisto, magari Batch 81 di Mike De Leon e L’occhio del maligno di Claude Chabrol, ma non ci si può ripresentare con Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis, Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, o i pur adorati Ozu e Mizoguchi stravisti proprio qui a Venezia.

 

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Nessuna riscoperta del vecchio cinema italiano. Qui come in nessun altro festival o spazio o spazietto culturale da qui a Roma a Torino a Bari. Nessuna concessione alla sperimentazione e alla ricerca. I film d’arte non possono essere rappresentati solo da Ai Weiwei. Sembriamo davvero ritornati ai tempi di Rondi buonanima o di Biraghi. Prima della rivoluzione. Molto prima della rivoluzione. Prima che si incominciasse a pensare al cinema anche come progetto per il futuro. Il già visto e rivisto a chi interessa?  

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