“ALZHEIMER, UNA MAREA MONTANTE” - GLI ESPERTI LANCIANO L’ALLARME: IN ITALIA OLTRE 600MILA MALATI A CAUSA DELL’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE - PER CONTRASTARE IL DECADIMENTO COGNITIVO, ANDREBBERO EVITATI I FATTORI DI RISCHIO PER LE PATOLOGIE VASCOLARI COME IPERTENSIONE, DIABETE, OBESITÀ, FUMO E SEDENTARIETA’ (CIAO CORE)

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Nicla Panciera per la Stampa.it

 

alzheimer alzheimer

Tutto inizia con qualche disturbo comune, una dimenticanza, magari attribuita alla stanchezza e alla giornata pesante. A volte, passa inosservata. Ma il declino cognitivo è progressivo e a poco a poco coinvolge la memoria, il linguaggio e il pensiero. L’Organizzazione mondiale della sanità l’ha definita «una marea montante»: con una nuova diagnosi ogni 3 secondi, le demenze sono un’epidemia silenziosa che nel mondo colpisce 46,8 milioni di persone, che nel 2050 diventeranno 131,5 milioni. 

 

Nel nostro Paese ne è affetto un ultraottantenne su 4: le persone con demenza sono 1 milione e 241 mila ma la cifra è destinata a raddoppiare nel giro di 30 anni. Gli italiani con malattia di Alzheimer, la forma più comune di demenza per la quale non esiste una cura, sono invece circa 600 mila. L’impatto umano, sociale ed economico è devastante e in Europa i costi diretti e indiretti delle malattie cerebrali superano gli 800 miliardi di euro. La buona notizia è che le proiezioni indicano un’incidenza in calo anche se il numero di pazienti è in aumento a causa dall’invecchiamento della popolazione.

 

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«All’origine dell’Alzheimer ci sono l’accumulo in placche di una proteina neurotossica, la beta-amiloide, e gli ammassi neurofibrillari di proteina tau, che determinano la neurodegenerazione. Inoltre, questi accumuli causano una risposta immunitaria che crea un’infiammazione cerebrale cronica che, a sua volta, contribuisce ulteriormente al danno neurale», spiega il professor Carlo Ferrarese, direttore di NeuroMi dell’Università di Milano-Bicocca e della clinica neurologica dell’Ospedale San Gerardo di Monza. 

 

Con esami neuroradiologici e del liquor cerebro-spinale, oggi si può rilevare la presenza delle proteine neurotossiche: questo è un indizio sul rischio di sviluppare l’Alzheimer (di cui giovedì si celebra la XXIV giornata mondiale) ma non consente di capire in anticipo se la malattia si manifesterà e con quale aggressività. «Stabilire quali siano i biomarcatori genetici, biochimici e neuropsicologici più precisi sullo sviluppo della demenza è fondamentale, soprattutto qualora dovessimo arrivare finalmente a creare un farmaco in grado anche solo di rallentare la progressione della malattia», spiega Stefano Cappa, neurologo dello Iuss di Pavia e direttore scientifico dell’Ircss Fatebenefratelli di Brescia, tra i relatori di un convegno promosso per domani a Milano dalla Federazione Alzheimer Italia.

 

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«La ricerca di nuove terapie sta perseguendo due vie: quella di bloccare la proteina neurotossica beta-amiloide tramite farmaci che ne impediscono la produzione, e quella di rimuoverla con anticorpi, prima che si accumuli», spiega Ferrarese. Le sperimentazioni non hanno dato risultati positivi nei casi di demenza conclamata e i nuovi trial, i cui risultati sono attesi a breve, sono condotti sugli asintomatici e su pazienti con Disturbo cognitivo lieve che spesso precede di alcuni anni la demenza. La quale, ormai è certo, può iniziare il suo sviluppo anche decenni prima di comparire.

 

«L’Alzheimer è una malattia complessa e concentrarsi su una molecola non basta, bisogna avere una visione globale – puntualizza Cappa - Si è visto che i fattori ambientali, come lo sport, hanno un certo impatto sull’incidenza totale della malattia, ma ancora non è chiaro quali siano i meccanismi alla base di quest’associazione». Per contrastare il decadimento cognitivo, andrebbero evitati i fattori di rischio per le patologie vascolari come ipertensione, diabete, obesità, fumo e sedentarietà. Bisognerebbe prestare attenzione alla salute del cervello e dei suoi vasi, perché è sempre più chiaro che il problema vascolare può contribuire allo sviluppo di demenze neurodegenerative. 

RICERCATORI RICERCATORI

 

Scongiurarle o posticiparne la comparsa avrebbe enormi ricadute positive, non solo sui pazienti. Secondo il Censis, infatti, in dieci anni è diminuito di 10 punti percentuali il numero dei pazienti seguiti da un centro pubblico e i costi diretti dell’assistenza superano gli 11 miliardi di euro, di cui il 73 per cento a carico delle famiglie su cui grava anche tutto l’accudimento del paziente.

 

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