“PER LORO ERO ‘ELEPHANT MAN’ AL FEMMINILE” – PARLA VALENTINA TOMIROTTI, ALIAS “PEPITOSA”, LA BLOGGER PROMOTRICE DI UNA CAMPAGNA SULLA SENSUALITÀ DEI DISABILI ATTACCATA DAI LEONI DA TASTIERA: “UN CORPO COME IL MIO MINA I LORO STEREOTIPI, UNA REALTÀ DISTURBANTE. HO FATTO UNA BATTUTA SU FICO IN AUTOBUS E I PASDARAN MI HANNO BISTRATTATA” – "PER IL DOMANI SPERO DI TROVARE…"

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Antonello Piroso per la Verità

 

valentina tomirotti 1 valentina tomirotti 1

Fino a oggi, si è spostata in autobus. Prossimamente lo farà in auto. Una volta presa la patente. Embé?, vi chiederete. Nulla di che, in effetti. Se non fosse per un dettaglio tutt'altro che marginale: Valentina Tomirotti, classe 1982, ha una malattia genetica, la displasia distrofica, che le ha impedito fisicamente di crescere e svilupparsi. E le sue gambe sono le ruote della sedia con motore elettrico con cui si muove.

 

Ciò nonostante, si vanta di avere una vita piena, e di sentirsi realizzata. Come persona e come donna. L' ho scoperta grazie a una foto su Twitter. Di cui ho apprezzato l'ironia, anzi: l'autoironia, della didascalia. Che però diversi «casaleggesi», o «grullini», non hanno colto.

Cominciamo dalla fine.

 

Venerdì scorso ha conseguito l'idoneità, può iscriversi a un corso di scuola guida. Come mai si è decisa solo ora?

valentina tomirotti valentina tomirotti

«Fosse dipeso da me, avrei cercato di avere la patente a 18 anni. Solo che 18 anni fa non c'erano veicoli modellati per ovviare alla mia patologia, oggi sì. Quindi, acclarato che so usare il volante e i comandi manuali per condurre una vettura, non mi resta che studiare per passare gli esami. Trovando nel frattempo anche un bel po' di quattrini».

 

Iscriversi a un'autoscuola non è poi così oneroso.

valentina tomirotti boudoir disability valentina tomirotti boudoir disability

«Mi riferisco all' acquisto dell' auto. Per averla come serve a me, e cioè con un pianale che mi consenta di salire con la carrozzina e arrivare con essa al posto di guida, servono quasi 50.000 euro: 18.000 e rotti per il veicolo, circa 30.000 per la struttura elettromeccanica adatta allo scopo. Ho aspettato il preventivo come manna dal cielo, ma quando ho aperto l'email ho capito che sarò povera per i prossimi 30 anni».

 

Com' è stato guidare una macchina per la prima volta?

«Non pensavo che il profumo della libertà potesse coincidere con un odore di gomma del tutto nuovo, quello degli pneumatici. E poi, quella sensazione di poter andare ovunque con più facilità, stringendo un volante tondo che sa abbracciare i miei punti interrogativi. Sono in carrozzina da quando sono nata, la libertà a livello fisico mi è mancata molto, e ho cercato di bilanciare quel vuoto con la mia attività di pubblicista e di blogger «a rotelle», che per me ha sempre significato libertà di comunicare. Anche se, oltre a scrivere, la mattina lavoro anche per un'azienda municipalizzata del Comune dove sono nata, Porto Mantovano».

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Si è laureata all' università di Verona in Scienze della Comunicazione. Con una tesi su...?

«Il trattamento riservato dai media americani alle problematiche connesse all' istituzione del carcere speciale di Guantanamo dopo l'11 settembre 2001».

 

Ah, una cosetta così. Mi verrebbe da ironizzare: argomento di spessore quale l'Identità sociale e linguistica della musica neomelodica napoletana, tesi con cui si è laureato il presidente della Camera Roberto Fico. Ma rischierei di apparire antipatico e snob.

«Più che altro, non tutti i fan del M5s apprezzano lo humour, e io ne so qualcosa».

 

 

Già: ha avuto la pessima idea di mettere una sua foto su un autobus e di scrivere «Non sono il presidente della Camera Roberto Fico, ma quando riesco a salire su un mezzo pubblico senza smadonnare mi sento fica».

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«Era una battuta con un gioco di parole. I pasdaran a cinque stelle mi hanno virtualmente strattonata, bistrattata, con l'esortazione a stare al mio posto, a non sfruttare la mia disabilità per fare politica, chiedendosi se per caso io non fossi a libro paga del Pd, per dire il livello. Anzi: #perdire, che è l'hashtag con cui ogni giorno intervengo sui social per chi mi vuole seguire».

 

Sul suo blog seguitissimo, Pepitosa, si dipinge come una principessa «eternamente seduta con lingua biforcuta», comunicatrice «ribelle per vocazione», nonché cofondatrice e testimonial della campagna Boudoir disability. Su cui i mentecatti del Web si sono esercitati con un indecente tiro al bersaglio. Vuole raccontare?

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«Ci sono state due fasi. Nell'ultima è stata presa una mia foto in lingerie e posa sexy, definiamola così - scatto che faceva parte di un servizio fotografico realizzato un paio d'anni fa da Micaela Zuliani per la serie Portrait de femme, con cui abbiamo dato vita al progetto Boudoir Disability - per ottenerne un meme (immagine su cui viene impressa una scritta come commento ironico, ndr) semplicemente inqualificabile. Un modo di vanificare, sfregiandolo, il senso di un'iniziativa che voleva proporre il tema della femminilità non negata dalla disabilità, fuori dai soliti cliché».

 

Capisco: sensualità come prerogativa non esclusiva della normofisicità, di un corpo perfetto e standard. La fase precedente da quali reazioni è stata invece caratterizzata?

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«Sono state peggiori del meme. Sono stata subissata di critiche che non mi aspettavo, soprattutto da parte di donne che mi accusavano in modo virulento di spettacolarizzare la mia disabilità, non rispettandola. Per loro ero una specie di Elephant Man al femminile, un fenomeno da baraccone, e come tale dovevo restare nell' ombra. Insomma, ero sì malata, ma di protagonismo, un'esibizionista anche un po' lasciva. Un clima che è peggiorato quando le foto sono uscite su Vanity Fair. E tutto questo perché quei ritratti le costringevano a vedere un corpo di donna che minava i loro stereotipi, una realtà disturbante. Ma il mio desiderio era semplicemente quello di dire alle donne come me, o che ancora non hanno fatto pace con il proprio corpo, magari anche banalmente per i chili in eccesso o per i segni dell' età: guardatemi, io non ho conosco il segreto per imparare ad accettarsi, però parliamone, confrontiamoci, ritroviamoci, camminiamo insieme.

Invito, questo, che avanzato da me è ovviamente un modo di dire (ride)».

 

In quelle foto non si è vergognata neppure di far vedere le sue cicatrici.

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«Per rendermi la vita più facile da un punto di vista funzionale (avevo per esempio i piedi torti, non riuscivo a infilarmi un paio di scarpe), da bambina ho subito una serie infinita di operazioni per ovviare alle vaie malformazioni. Dopo gli interventi stavo in trazione anche per sette, otto mesi, con chiodi piantati nelle ossa che venivano girati, come si fa con l' apparecchio per i denti. Il tutto per raggiungere una perfezione che tale non sarebbe mai stata. Così a 13 anni ho detto basta».

 

Si è mai detta: perché una malattia così invalidante, perché proprio a me?

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«Sarà difficile crederlo, ma è un problema che non mi sono mai posta. Merito anche dei miei genitori, che mi hanno fatto crescere nell' amore, non mi hanno rinchiusa in un armadio. Se sono così positiva, lo devo a loro. Senza una diagnostica prenatale hanno avuto questa sorpresa, che hanno trasformato in un' occasione di gioia. Ma ti dirò di più: se anche ci fosse stata la diagnostica del feto, loro mi avrebbero accettato e accolto ugualmente».

 

Si definirebbe una persona risolta?

«Sì, con alti e bassi come tutti, ma senza droghe o sedute dallo psicologo. Talvolta mi chiedono, che so, "Ma tu li prendi gli psicofarmaci?

", dando per scontato che siano necessari per accettare una situazione come la mia. Io però replico: oh, non è che perché una nasce "seduta" che questo significhi che sia tassativamente fuori di testa».

 

Ha scritto: «Capita che quando stiamo insieme, mi metta il rossetto rosso e baciandolo gli sporchi il colletto della camicia. Mi piace possa avere sempre nuovi argomenti quando torna a casa da sua moglie». Un' astrazione poetica?

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«Macché. Era la registrazione di un fatto».

 

Con un partner disabile a sua volta?

«No. Un uomo sposato incontrato in rete. Non ho mai avuto relazioni con disabili, non è successo. Ne ho frequentati, ma avevano sempre un atteggiamento negativo, perdente, di chi si sente vittima, lagnandosi e piangendosi addosso. Un approccio che non potevo condividere, come avviene alle persone normodotate che rifiutano una relazione che li zavorri».

 

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Come vive la sua sessualità?

«In modo assolutamente naturale. Sento tutto, con le pulsioni di qualsiasi donna. E come per tutti, bisogna distinguere il bisogno carnale da quello emotivo. Ma consentimi di dire che la battaglia che si sta facendo per garantire ai disabili un assistente sessuale sottintende un ragionamento che non mi trova d' accordo: sei disabile, che ti aspetti? Se vuoi sesso paga. Ma è un discorso complesso, bisognerebbe valutare caso per caso, e non mi sento di salire in cattedra a impartire lezioni».

 

Che hobby ha?

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«Mi piace viaggiare. Sono appena tornata dal Portogallo. Dove mi è successo un episodio curioso. A Lisbona c' è una via bellissima asfaltata di rosa, colore che adoro. Solo che il marciapiede era pieno di signore ferme come sentinelle, che mi costringevano a fare una gimkana per evitare di tirarle giù come birilli. Suonavo il campanello e mi chiedevo: ma che stanno aspettando? Poi ho capito: mi trovavo nel quartiere a luci rosse, erano prostitute».

 

Cosa spera per il domani?

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«Di trovare parcheggio quando avrò la mia automobile. I disabili hanno l'handypass, il permesso che è più ambito del biglietto per il backstage del concerto dei Coldplay. Solo che a me è capitato spesso di vedere scendere dai veicoli, lasciati nei posti riservati con il pass regolamentare, persone che disabili non erano (e questo al netto del fatto che ci sono disabilità che non impediscono la mobilità: no, quelli erano proprio bipedi sani, come li chiamo io). Usavano quello forse di un parente, occupando così abusivamente un parcheggio che sarebbe potuto tornare utile a me. Quindi una raccomandazione ai miei amici disabili: non prestatelo, l' handypass. Se lo fate, siete stronzi. Pure da "seduti"».

 

 

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