ACCA’ NISCIUNO È SCISSO! - RENZI ACCERCHIATO METTE AL SICURO IL SIMBOLO DEL PD NELLE MANI DEL FIDO BONIFAZI - BERSANI SPINGE PER LA SCISSIONE, SPERANZA, EMILIANO E ROSSI SI VEDONO SABATO A TESTACCIO: SE ESCONO DAL PARTITO, RENZI NON DEVE MANCO FARE LE PRIMARIE, PER MANCANZA DI CANDIDATI RIVALI - E ORLANDO…


1. RENZI ACCERCHIATO NEL PD METTE AL SICURO IL SIMBOLO - IL LEADER AFFIDA IL LOGO AL FEDELISSIMO BONIFAZI E SVELA IL SUO TOUR ELETTORALE: SI COMINCIA DAL LINGOTTO IN MARZO

Laura Cesaretti per il Giornale

 

francesco bonifazi

Nel rissoso caos del Pd, sono in molti a porsi una domanda angosciosa: «Ma Renzi questa scissione la vuole evitare oppure no?».

Perché ieri, nel momento di massima drammatizzazione della crisi interna, con Bersani, Emiliano e compagni attaccati alle tende come una novella Paola Borboni a minacciare «ce ne andiamo, guarda che ce ne andiamo» e con tutto il Grande Centro del Pd (da Delrio a Fassino, da Martina a Orlando a Franceschini) che si affannava a cercare mediazioni per evitare la rottura, il segretario del partito non ha esitato ad infilare un paio di dita negli occhi, già provati, della minoranza.

RENZI E ORLANDO

 

Intanto l' annuncio a sorpresa, via enews, della convocazione di un nuovo «Lingotto»: una due giorni (10-12 marzo) a Torino, nello stesso luogo da cui Veltroni lanciò il Pd riformista, per presentare la sua mozione congressuale. E poi la notizia, che ha messo in subbuglio i parlamentari, di un emendamento allo statuto, da votare nell' assemblea nazionale di domenica, che consegnerebbe la titolarità del simbolo Pd al tesoriere Bonifazi, renziano di ferro. Una blindatura che sembra chiaramente mettere in conto la scissione.

 

MICHELE EMILIANO E MATTEO RENZI

E del resto, nelle ore convulse della mattina di ieri, dall' accampamento dei rivoltosi della minoranza, arrivava il grido di guerra: «È deciso - veniva comunicato - sabato ci riuniamo con Speranza, Emiliano, Rossi al teatro Vittoria e annunciamo che non verremo all' Assemblea Pd, che è ormai il partito di Renzi». Panico, contatti frenetici, ministri e capicorrente attaccati ai telefoni, e pare che alla fine sia stato Bersani (che da ex segretario è più in difficoltà a scindersi, tanto più se questo vuol dire finire in bocca a D' Alema) a frenare.

 

roberto speranza

Anche perché il problema fondamentale della minoranza Pd è uno solo: quanti posti in Parlamento gli darà Renzi al prossimo giro? Pochi, temono, pochissimi. Meglio allora farsi un partitino in proprio e provare a farsi rieleggere con la soglia del 3%. Ma su questa strada c' è un grosso ostacolo: la nuova sinistra «ulivista» annunciata da Pisapia, che avrebbe sicuramente più appeal elettorale di un assembramento di reduci Pci guidato da D' Alema.

 

Ergo: meglio restare nel Pd e alzare la voce per ottenere più candidature possibili. «Io posso anche andare a casa, ma i miei vogliono essere rieletti», ha spiegato candidamente Bersani ai suoi interlocutori. Di qui il dietrofront, e l' annuncio che la minoranza parteciperà domenica all' assemblea.

 

E si è messo in moto il Grande Centro Pd per convincere Renzi a fare alcune concessioni: congresso prima delle Amministrative (e non dopo, come volevano i bersaniani per giubilare definitivamente il segretario), ma spostato a maggio, e nel frattempo organizzare una «conferenza programmatica», magari «diffusa sul territorio», come aveva proposto Andrea Orlando.

francesco bonifazi ernesto carbone

 

Il quale non ha ancora sciolto la riserva sulla propria candidatura al congresso, che però ieri lui stesso ha messo per ora nel cassetto: «Non ho nessuna particolare propensione a mettermi in competizione, prima dovremmo lavorare sulla cooperazione. Credo che Renzi abbia le energie per guidare questo passaggio e il partito».

 

Ieri ha partecipato ad una lunga riunione della sua corrente, i Giovani Turchi, scontrandosi con il suo alleato Matteo Orfini, renziano doc, che via Repubblica gli aveva lanciato l' accusa sanguinosa di essere il candidato di D' Alema e Bersani. Orlando incassa la conferenza programmatica e la rottura con Orfini è rattoppata, poi si vedrà. Di qui a domenica, «tutto può ancora succedere», dicono nel Pd.

 

 

2. LA SCISSIONE È DIETRO L’ANGOLO I PONTIERI NON FRENANO BERSANI “QUESTA NON È PIÙ CASA MIA”

Goffredo De Marchis per la Repubblica

 

È proprio Pier Luigi Bersani, dipinto come il dirigente che «non lo farà mai», a spingere per la scissione. Indifferente agli appelli all’unità, alla cura della Ditta, al fatto, traumatico, dell’addio di un ex segretario del partito. Non è questione di forma, dice Bersani, è che «non mi sento più a casa», che anche la gestione delle ultime ore, come al solito, è sbagliata. «Siamo sempre alla comunicazione spicciola, con i big che telefonano ai giornalisti per riferire degli appelli, delle mediazioni», ripete.

RENZI FRANCESCHINI

 

Ma nessuno che mandi un segnale reale alla minoranza. Tanto meno Matteo Renzi che non apre, anzi chiude, come dimostra la scelta di affidare al tesoriere Francesco Bonifazi il simbolo del Pd durante il periodo di assenza del segretario. «L’hanno messo in buone mani - commenta sarcastico lo storico amministratore dei Ds Ugo Sposetti -. Gli farà fare la fine dell’Unità ».

 

La strada è tracciata. A meno che lo stesso segretario non usi le prossime 72 ore per una retromarcia, pressato dai suoi e dal timore di uno strappo troppo doloroso. Magari sui tempi, rinviando il congresso a giugno, rinunciando allo sprint. A quel punto tenere dentro anche i dissidenti sarebbe più semplice.

 

Dario Franceschini continua il suo lavoro silenzioso per evitare il peggio. Non chiama i giornali, non sbandiera contatti. Ma ai suoi fedelissimi che gli domandano se i bersaniani stiano solo tirando la corda cercando di ottenere il massimo, risponde secco: «No, non stanno alzando la posta.

 

ugo sposetti

Stanno uscendo davvero, il rischio è concreto». Dice il ministro della Cultura che il mantra della scissione già consumata nell’elettorato e sui territori, non è proprio campato per aria. I vecchi Dc sono i più preoccupati per un Pd che perde un pezzo di sinistra. Il popolo del Partito democratico ha una fascia di età medio-alta, ovvero la generazione più attenta a certi simboli del passato. Siamo sicuri che riusciremo a tenerli dentro?

 

Piero Fassino viene da quel mondo e non si rassegna all’idea dello strappo. «Io lavoro per scongiurare la fine del Pd come lo conosciamo. Ma diciamo la verità: siamo alla follia. Come giustifichi la scissione per una questione di date? Non è invece necessario fare presto proprio per affrontare problemi veri come le elezioni amministrative, il referendum sui voucher, la legge di bilancio 2018? avendo una linea chiara e legittimata?».

 

DALEMA VELTRONI

Eppoi, dice l’ex leader dei Ds, «per quanto se ne possa parlare in tv per due minuti, è difficile organizzare una scissione». Tutto giusto, ma Massimo D’Alema ha già pronte ramificazioni territoriali, strutture, programma. Ed è chiaro che una via d’uscita è stata creata.

 

Chi doveva dire una parola di responsabilità, secondo l’appello di Bersani, lo ha fatto ma in maniera troppo timida. Walter Veltroni, che secondo alcuni sostiene una candidatura di Andrea Orlando al congresso, ha invitato a tenere in piedi il Pd. Goffredo Bettini ha ufficializzato il suo favore per Orlando segretario.

 

Nicola Zingaretti rilancia la sua idea di conferenza delle idee che serve a prendere tempo e allungare il percorso del congresso. Ma i bersaniani sono ormai sono mondi lontani. In caso di scissione e di legislatura che continua, la minoranza farà dei nuovi gruppi parlamentari. Ha i numeri sia alla Camera sia al Senato.

francesco boccia con nunzia

 

Non è detta l’ultima parola, dice Francesco Boccia alleato di Michele Emiliano. «Il voto finale del congresso ad aprile è una farsa. La conferenza programmatica come dice Orlando e poi il congresso che si conclude tra luglio e settembre invece consente a tutti di stare dentro», dice presidente della commissione Bilancio. Uno spiraglio c’è. Ma il meno fiducioso è proprio Bersani, un ex segretario del Partito democratico, sulla cui perdita Renzi, nemmeno nei momenti più critici, ha mai detto «ce ne faremo una ragione».