Francesco Alberti per il Corriere della Sera
FRANCESCO COSSIGA E CLAUDIO SABELLI FIORETTI - COPYRIGHT PIZZIChi erano gli autori delle minacciose telefonate anonime che riempirono di terrore gli ultimi mesi di vita di Marco Biagi, il giuslavorista e all'epoca consulente del ministero del Lavoro, assassinato dalle Brigate rosse di Nadia Desdemona Lioce il 19 marzo 2002 sotto la sua abitazione nell'ex ghetto ebraico di Bologna?
A riaccendere prepotentemente i riflettori su quello che resta uno dei misteri del caso Biagi sono alcune dichiarazioni del presidente emerito Francesco Cossiga, secondo il quale «le lettere e le telefonate anonime erano opera degli assi-stenti e degli amici» del giuslavorista e l'allora questore di Bologna, Romano Argenio, «quando lo scoprì », ritenne per questo che non sussistevano le condizioni di pericolosità per ridare al professore universitario quella scorta che gli era stata revocata e che lui disperatamente chiedeva di riavere.
Marco BiagiNel sostenere la sua tesi, contenuta nel libro-intervista di Claudio Sabelli Fioretti («Francesco Cossiga - Novissime picconate», Aliberti editore, 179 pagine, 14,90 euro, da domani in libreria), l'ex capo dello Stato, come spesso gli capita, usa espressioni decisamente colorite. Richiesto di un parere su Claudio Scajola, che tre mesi dopo l'omicidio Biagi fu costretto a dimettersi dal Viminale per aver definito «un rompicoglioni» il giuslavorista assassinato, Cossiga afferma: «Biagi era un rompicoglioni. Nessuno, né la polizia né i carabinieri hanno mai creduto, sbagliando, che l'avrebbero ammazzato. Anche loro lo consideravano un rompicoglioni. E ancora di meno ci credette il questore di Bologna quando scoprì che le lettere e le telefonate anonime che dicevano che lui era in pericolo erano opera dei suoi assistenti e dei suoi amici. Per questo non gli diedero la scorta».
scajolaSono circolate voci di ogni genere sulle minacce ricevute da Biagi (almeno 5 telefonate del tenore «Se scrivi ancora te la faremo pagare... », «Ho visto i tuoi angeli custodi andare via...», «E adesso vai a Roma da solo...») tra luglio e ottobre del 2001: esattamente negli stessi mesi in cui al giuslavorista venne revocata la scorta. Terrorizzato, il Professore bussò a decine di porte per riottenere protezione: dal questore al prefetto, fino ad arrivare all'amico d'infanzia Pier Fer-dinando Casini, allora presidente della Camera. Tutto inutile.
L'inchiesta sulle minacce, aperta dalla Procura di Bologna nel luglio del 2001, venne archiviata nel febbraio del 2002 (un mese prima dell'omicidio) senza alcun risultato. «Riscontri inesistenti» sentenziarono gli inquirenti. E ci fu addirit-tura chi adombrò il sospetto che quelle telefonate fossero un'invenzione del professore per riottenere la scorta. Invece ulteriori indagini permisero di accertare che le minacce c'erano state, che qualcuno aveva davvero perseguitato te-lefonicamente il consulente di Maroni, anche se non fu possibile ri¬salire a chi.
Venne subito esclusa la pista delle Brigate rosse: non rientrava nel loro modo di agire e comunque, avendo deciso di eli-minarlo, non avrebbe avuto senso metterlo in allarme prima del dovuto. Ora Cossiga parla di «assi¬stenti e amici», quindi gente vicina a Biagi. Parole ad alta infiammabilità.
Che spalancano una voragine di interrogativi.