ERANO ALMENO IN QUATTRO, QUELLA NOTTE TRA IL 1° E IL 2 NOVEMBRE DEL 1975, ALL’IDROSCALO DI OSTIA, GLI ASSASSINI DI PASOLINI: \"OGGI\" (IN EDICOLA DOMANI) PUBBLICA UN INEDITO RAPPORTO GIUDIZIARIO REDATTO IL 14 FEBBRAIO 1976 DAL CAPITANO GIUSEPPE GEMMA, COMANDANTE DELLA COMPAGNIA DEI CARABINIERI DI MONTEROTONDO - DOPO TRENTACINQUE ANNI LA VERITÀ VERA SUL DELITTO MANCA ANCORA ALL’APPELLO -

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Gino Gullace Raugei per \"oggi\", in edicola domani - www.oggi.it

Erano almeno in quattro, quella notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975, all\'idroscalo di Ostia, gli assassini di Pierpaolo Pasolini: lo prova un documento inedito che Oggi è in grado di pubblicare in esclusiva.

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Si tratta di un rapporto giudiziario redatto il 14 febbraio 1976 dal capitano Giuseppe Gemma, comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monterotondo (e inviato al dottor Giuseppe Santarsiero, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Roma) nel quale si dà conto della brillante operazione compiuta da uno dei suoi militi, Renzo Sansone, che era riuscito a infiltrarsi in un gruppo di balordi della borgata di Casal Bruciato; frequentando una bisca situata in Via Donati, Sansone aveva raccolto le confidenze di due di loro, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, di 15 e 13 anni.

DocumentoDocumento Pasolini

JOHNNY IL BIONDINO
I due Borsellino, spiega il capitano Gemma, confidarono al carabiniere spacciatosi per uno della mala di aver partecipato, insieme a un certo Johnny il biondino, all\'omicidio. Quella medesima mattina del 14 febbraio, il capitano Gemma non perse tempo: dopo aver informato il suo capo, il tenente colonnello Giuseppe Vitali, comandante del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma e lo stesso giudice Santarsiero, si recò a casa dei fratelli Borsellino, in Via Crispolti, 29, e dopo aver posto in stato di fermo i due ragazzi (Giuseppe fu però subito rilasciato perché minore di anni 14 e quindi non imputabile) sequestrò a colpo sicuro un «ingente quantitativo di refurtiva, tre pistole scacciacani, una pistola flobert cal. mm. 6 e alcuni documenti probabilmente utili alle indagini».

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Nei suoi rapporti, Renzo Sansone aveva infatti dichiarato che proprio due erano le «confidenze» che i Borsellino, credendolo un incallito criminale, gli avevano spifferato: la prima, relativa alla loro partecipazione al delitto Pasolini; la seconda, relativa invece alla quantità di refurtiva, frutto della loro attività di topi d\'auto, che nascondevano in casa.

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Quando però il capitano Gemma e il maresciallo Amedeo Rillo, del Nucleo investigativo, interrogarono Franco Borsellino, questi ammise di aver rivelato a Sansone la sua partecipazione all\'omicidio di Pasolini, ma minimizzò dicendo che lui e suo fratello l\'avevano «sgamato», cioè si erano accorti che era «un carruba», uno della polizia, e perciò avevano voluto prenderlo in giro raccontandogli un mucchio «di fregnacce».

I CONTI NON TORNANO
Peccato però che questa affermazione risulti non credibile alla luce dell\'altra confidenza fatta a Sansone sul possesso di parecchia refurtiva nascosta sotto i letti e negli armadi di casa. Se i Borsellino si fossero davvero accorti che Sansone era per l\'appunto «un carruba», sarebbero stati così sciocchi da confessargli un reato vero?

PasoliniPasolini morto

Come si legge nel Verbale di istruzione sommaria redatto il 16 febbraio, Renzo Sansone (che allora aveva 27 anni) fece presente questa circostanza al Sostituto procuratore Salvatore Giunta che lo interrogava. «Escludo che i fratelli Borsellino nel farmi le loro confidenze fossero già a conoscenza della mia qualità di carabiniere in borghese e intendessero, per tanto, prendermi in giro», dichiara Sansone.

«L\'atteggiamento dei medesimi non era tale, infatti, di chi, nel fare rivelazioni di fatti delittuosi, intende, narrando gli stessi, burlarsi dell\'interlocutore. Certamente non mi sarebbe sfuggito se i due avessero voluto giocarmi, a prescindere dalla ulteriore considerazione che gli stessi non mi avrebbero certo reso partecipe della refurtiva che custodivano nella loro abitazione, frutto di delitti commessi sulle macchine in sosta».

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FU UN BOTTO MEDIATICO
I fatti che abbiamo raccontato avvennero mentre si stava celebrando, davanti al Tribunale dei minori, il processo contro Pino Pelosi (l\'unico imputato dell\'omicidio Pasolini), e deflagrano con un botto mediatico durante la sesta udienza. Rocco Mangia, l\'avvocato difensore di Pelosi, protestò con veemenza sollevando numerose questioni procedurali: dopo aver sostenuto invano la tesi secondo la quale il suo assistito avrebbe ucciso Pasolini per legittima difesa (reagendo al tentativo della scrittore di imporgli una prestazione sessuale non gradita), temeva moltissimo l\'ingresso nel processo di eventuali correi: se Pelosi avesse agito in concorso con altri, sarebbe scattatata di sicuro l\'aggravante dell\'associazione a delinquere e la sua posizione si sarebbe aggravata di molto.

PierPier Paolo Pasolini

In ogni caso, il presidente Carlo Alfredo Moro (fratello di Aldo) sospende il dibattimento in attesa di acquisire agli atti le nuove risultanze delle indagini. Franco Borsellino, intanto, viene tenuto in isolamento nel carcere di Casal del Marmo per una settimana; alla fine però la Procura decide di credere alla sua (incredibile) versione dei fatti (con sollievo dell\'avvocato Mangia) e la promettente pista Sansone finisce nel nulla.

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\"HANNO PRESO PURE TE?\"
«Ho saputo in seguito che Franco Borsellino fu denunciato per autocalunnia», ci dice Renzo Sansone, pensionatosi col grado di Maresciallo. «In pratica, i magistrati lo ritennero attendibile, ignorando due circostanze. La prima, il sequestro della refurtiva a casa sua quando venne arrestato; la seconda, che io, malgrado la giovane età, ero un carabiniere molto esperto delle tecniche di infiltrazione negli ambienti malavitosi e quindi era abbastanza improbabile che fossi così \"frescone\" da farmi impapocchiare da due delinquentelli imberbi.

Prima del delitto Pasolini, c\'era stata una rapina nel corso della quale rimase ucciso il direttore di una banca. Io mi infiltrai nei bassifondi del quartiere malfamato di San Basilio e feci arrestare tutti i colpevoli. Me la ricordo ancora la faccia stupita dei due Borsellino quando mi presentai in borghese col capitano Gemma a casa loro: \"Che t\'hanno preso pure a te?!\", dissero».

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«Non c\'è dubbio che la cosiddetta pista Sansone fu liquidata con molta superficialità», ricorda l\'avvocato Guido Calvi che al processo di primo grado contro Pelosi rappresentava la parte civile, cioè la famiglia Pasolini. «Ma il punto è che, fin dall\'inizio, le indagini sull\'omicidio dello scrittore furono approssimative e lacunose».

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LA CONDANNA DI PELOSI
Sta di fatto che il processo Pasolini si concluse il 26 aprile 1976 con la condanna di Pelosi per omicidio volontario in concorso con ignoti alla pena di anni 9, mesi 7 e giorni 10 di reclusione. Già, in concorso con ignoti: «ritiene il collegio», scrissero i giudici nella sentenza, «che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all\'idroscalo il Pelosi non era solo».

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Il carabiniere Sansone, con la sua coraggiosa operazione, dette probabilmente un nome a qualcuno di questi «ignoti». In ogni caso, per la precisa formulazione del dispositivo di condanna che certificava l\'esistenza di altri colpevoli, i magistrati inquirenti (gli stessi che avevano ritenuto non attendibile la pista Sansone) avrebbero dovuto immediatamente riaprire l\'inchiesta; invece la Procura impugnò la sentenza proprio nel passaggio relativo al «concorso con ignoti», difendendo a spada tratta quelle indagini definite da Guido Calvi «approssimative e lacunose».

Nel processo di appello, i giudici, da una parte riconobbero che le indagini erano state effettivamente fatte male, dall\'altra cancellarono il concorso con ignoti prendendo per buona la versione del reo confesso Pelosi che si vide confermata la pesante condanna per omicidio volontario commesso da solo. La Corte di Cassazione, infine, mise il sigillo al caso Pasolini consegnando alla storia questa ultima «verità» tanto discussa e contestata.

PinoPino Pelosi

LE INDAGINI DEI RIS
Sono passati trentacinque anni dai fatti dell\'idroscalo di Ostia e la sensazione «bipartisan» è che la verità vera sul delitto Pasolini manchi ancora all\'appello. L\'ha chiesto pubblicamente Walter Veltroni e si è subito associato il ministro della giustizia Angelino Alfano: il caso va riaperto.

«Con le moderne tecnologie di indagine dei Ris (i reparti di investigazione scientifica dei carabinieri) si possono ancora analizzare i reperti raccolti sul luogo di quell\'omicidio e trovare tracce e conferme importanti», dice l\'avvocato Guido Calvi. «So con certezza che su alcune tavole di legno che furono utilizzate nel pestaggio di Pasolini ci sono, oltre a tracce di sangue e capelli, anche delle impronte digitali». I fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, sono morti di Aids. Johnny il biondino è invece ancora vivo. Forse siamo in tempo a sapere la verità.

 

 

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