“IL GIORNALE” DI BERLUSCONI GODE NEL METTERE IN FILA TUTTI GLI ERRORI DI SALVINI: “IL MITO DEL CAPO INVINCIBILE SI È SCIOLTO AL SOLE AGOSTANO. È ORMAI CHIARO CHE DAL GIORNO IN CUI HA APERTO LA CRISI DI GOVERNO LE HA INVECE SBAGLIATE TUTTE O QUASI…” - IL PIZZINO PER “IL CAPITONE”: “DA RENZI A FINI, I PATTI IN POLITICA NON SONO SACRI, MA CHI LI ROMPE, SPESSO, PAGA PEGNO. E TUTTO QUESTO MATTEO SALVINI LO SAPEVA MA NON HA PREVISTO IL...”

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1 - TEMPI SBAGLIATI E DIETROFRONT COSÌ IL CAPITANO SI È INCARTATO

Paolo Bracalini per “il Giornale”

 

matteo salvini e matteo renzi si incrociano in senato 1 matteo salvini e matteo renzi si incrociano in senato 1

In politica passare da leader infallibili a incapaci che non ne azzeccano una è un attimo, chiedere informazioni a Matteo Renzi. Dopo anni sulla cresta dell' onda con i consensi passati dal 4% al 34%, anche per Matteo Salvini sembra arrivato il momento critico. I suoi consiglieri iniziano a prendere le distanze dalle ultime mosse del segretario, segno che il mito del capo invincibile si è sciolto al sole agostano.

 

Le probabilità che esca con le osse rotte dalla crisi da lui stesso scatenata sono aumentate. È ormai chiaro che Salvini, dopo aver infilato una successo dietro l' altro, dall' 8 agosto scorso - giorno in cui ha aperto la crisi di governo - le ha invece sbagliate tutte o quasi.

 

I BACIONI DI GIUSEPPE CONTE I BACIONI DI GIUSEPPE CONTE

Primo errore, ha sottovalutato l' attaccamento al potere di Giuseppe Conte, dando per scontato che il professore - catapultato da una cattedra universitaria a Palazzo Chigi quasi per caso - avrebbe accettato senza colpo ferire la sua richiesta di dimettersi da Palazzo Chigi, agevolando così la corsa verso le elezioni. Sbagliato. Dopo un anno e mezzo a capo del governo, invitato ai summit mondiali alla pari di Trump e Putin, Conte non è più l' oscuro notaio del patto tra Salvini e Di Maio, ma si crede veramente il presidente del Consiglio italiano.

 

In più è un avvocato, quindi di cavilli e regolamenti ci campa, ed è proprio nella gabbia di paletti costituzionali e parlamentari che ha intrappolato Salvini. Secondo errore, trattare i Cinque Stelle come un partito che vale la metà della Lega. Fatto vero forse fuori dal Parlamento, ma non nei numeri di Camera e Senato fermi al marzo 2018, quando il M5s era il primo partito italiano. Infatti il gruppo parlamentare M5s è il più numeroso, e nel pallottoliere di una crisi di governo sono soltanto quelli i numeri che contano. E questo ci porta al terzo errore.

 

MATTEO RENZI E MARIA ELENA BOSCHI MATTEO RENZI E MARIA ELENA BOSCHI

Aver sottovalutato la capacità del Pd di cambiare radicalmente posizione sui grillini pur di cogliere l' incredibile opportunità di passare nella maggioranza di governo e magari starci per tutta la legislatura. E, allo stesso modo, la capacità di Di Maio e soci di rimangiarsi anni di insulti e guerre a Renzi&Boschi pur di evitare lo scioglimento delle Camere, l' addio al lignaggio ministeriale e un' elezione per loro molto complicata. L'equazione tolgo la fiducia a Conte così si vota, si è rivelata sbagliata. L'altro errore tattico gliel' ha rinfacciato Giancarlo Giorgetti.

 

Non è quello di aver rotto con i grillini, ma di averlo fatto troppo tardi nel momento sbagliato. Secondo il più ascoltato consigliere di Salvini, la spina andava staccata subito dopo le Europee, quando era chiaro che i rapporti di forza tra Lega e M5s si erano completamente ribaltati.

 

luigi di maio matteo salvini luigi di maio matteo salvini

In più non ci sarebbe stato l' alibi della scadenza imminente della finanziria e si sarebbe aperta la finestra del voto in modo più semplice. Il ministro invece ha aspettato, passando le successive settimane a litigare con i grillini ma smentendo a ripetizione l' intenzione di voler rompere il contratto con i Cinque Stelle. Fino a cambiare repentinamente linea ad agosto, dopo aver «scoperto» che il M5s è No-Tav. Un fatto che sapevano anche le pietre della val di Susa.

 

Altro errore, non aver ritirato la delegazione di ministri leghisti. Operazione che gli avrebbe garantito due cose poter rivendicare davanti al popolo di aver rinunciato alle «poltrone»; ma soprattutto avrebbe tagliato le gambe al governo Conte costringendolo a presentarsi dimissionario al Quirinale. Ennesima superficialità riguarda anche Mattarella. Salvini pensava che il capo dello Stato si sarebbe limitato a prendere atto della sue decisione di chiudere con i grillini per andare al voto?

 

La mossa di dire ok al taglio dei parlamentari ma poi subito al voto» (tra l' altro dopo aver detto che era solo un alibi per allungare i tempi), non ha fatto altro che irritare il Quirinale per la forzatura. L' ultimo e più tragico errore, però, sarebbe quello di fare una seconda svolta e tornare da Di Maio. A quel punto oltre a perdere la possibilità delle elezioni, la Lega rischierebbe di perdere la faccia.

salvini mattarella salvini mattarella

 

2 - IL “TRADIMENTO” IN POLITICA NON PORTA BENE

Vittorio Macioce per “il Giornale”

 

I patti in politica non sono sacri, ma chi li rompe, spesso, paga pegno. Tutto questo Matteo Salvini lo sapeva, per mesi ha spinto il suo alleato di governo verso il «non ne posso più». Forse non ha previsto una cosa. Di Maio ha mostrato di avere una dote non difficile da immaginare: è un buon incassatore.

 

Così, in un giorno d'estate, è stato Salvini a dire basta, con l' annuncio di una sfiducia a Conte, improvvisa, messa lì quasi d' istinto, come un colpo d' azzardo. Ora, però, quella sfiducia poggiata sul tavolo come una pistola sembra non avere proiettili. È scarica. Il risultato è che il leader della Lega si ritrova spalle al muro e con l' accusa di tradimento. È così che lo chiama Alessandro Di Battista: «Il ministro del tradimento». Qualcosa non ha funzionato.

LA STRETTA DI MANO TRA ENRICO LETTA E MATTEO RENZI LA STRETTA DI MANO TRA ENRICO LETTA E MATTEO RENZI

 

Non importa che sia vero o no. Salvini può dire che il contratto di governo non aveva più senso. Il guaio per lui è che è rimasto con il cerino in mano. È l' uomo del disordine, quello che si defila o va a incassare il malloppo di voti alla vigilia di una manovra economica ricca di insidie. È sotto accusa come voltagabbana, senza avere uno straccio di scusa per fare saltare il governo. Questa avventura spericolata, cominciata con il contratto innaturale tra due forze politiche poco affini, finisce per pagarla lui. Il futuro magari gli darà ragione, ma certi salti senza strategia non portano fortuna.

 

Non ne è uscito più forte Renzi, bollato dallo «stai sereno» sulla guancia di Enrico Letta. Non è andata bene a Gianfranco Fini, quando, per un errore di calcolo, pensò di indossare un vestito antiberlusconiano. Fu ingannato dalla «scossa» giudiziaria evocata da D' Alema e scommise su quel «che fai, mi cacci?» come passaporto per una riabilitazione a sinistra. La scommessa era costruire una destra diversa, che però s' infranse contro la delusione dei suoi elettori di riferimento e sul muro della casa di Montecarlo.

 

FINI BERLUSCONI FINI BERLUSCONI

Lì, Fini, oltre al «tradimento», ci mise anche una patetica serie di bugie, promesse non rispettate, complicità nascoste e affari di famiglia che lo fecero passare in una stagione da «furbastro» a «coglione» (per sua stessa ammissione). È così che dell' uomo della svolta di Fiuggi non è rimasto che qualche brandello di voti. È scomparso, sconfitto da una macchia indelebile: non avere più credibilità.

 

La rottura dei patti non ha portato bene ad Alfano, che ha pagato fino in fondo il governo dei responsabili con Enrico Letta e poi l' alleanza con Matteo Renzi. Massimo D' Alema si ritrovò a giustificarsi per il tranello contro Prodi, candidato al Quirinale: «Non fu colpa mia». Tutto sta nel senso di una telefonata tra i due. Per D' Alema era un consiglio amichevole, per Prodi una mezza minaccia.

 

prodi dalema prodi dalema

«Quel giorno - ricorda il Professore - ho messo giù il telefono, ho chiamato mia moglie e le ho detto che certamente non sarei diventato presidente della Repubblica». Non era la prima volta. Nel 1998 D' Alema diventa capo del governo con un sottocolpo da maestro. Bertinotti, segretario di Rifondazione Comunista, abbandona Prodi. D' Alema va a Palazzo Chigi con l' appoggio dei centristi di Mastella. È di fatto la fine dell' Ulivo.

 

È il dicembre del 1994. Umberto Bossi contesta a Silvio Berlusconi la riforma delle pensioni, e l' altro lo attacca frontalmente in tv. Allora Bossi reagisce dicendo che l' alleato non sta rispettando i patti sulla riforma del federalismo, punto centrale per la Lega. Forse Bossi teme anche di essere schiacciato dal peso di Berlusconi, forse teme di perdere autonomia. Sta di fatto che il capo dei leghisti, insieme a D' Alema e Buttiglione, sigla il «patto delle sardine». Il governo Berlusconi non ha più la maggioranza.

UMBERTO BOSSI E SILVIO BERLUSCONI UMBERTO BOSSI E SILVIO BERLUSCONI

 

Oscar Luigi Scalfaro affida al «berlusconiano» Lamberto Dini l' incarico di formare un nuovo governo di centro-lega-sinistra. La Seconda repubblica è stata il regno dei ribaltoni.

Questa nuova stagione politica vaga ancora di più nell' incertezza dei patti di governo. Come si fa a parlare di tradimento quando tutto è così fluido?

 

Salvini era al governo con i grillini, ma nelle Regioni sta con Berlusconi e la Meloni. Gli stessi grillini, sacerdoti della purezza, ora tramano per un governo di scopo con Renzi che, a sua volta, intriga contro Zingaretti che, da parte sua, ricerca sponde alla sinistra cinquestelle e non disdegna accordi tattici con Salvini. Tutti insieme a tradire con quel che resta della democrazia.

LAMBERTO DINI LAMBERTO DINI

 

 

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