LUI NON AVEVA L’AVVOCATO – LA STORIA VERA DI MARIO ROSSETTI, L’EX MANAGER DI FASTWEB CHE SI È FATTO UN ANNO DI RECLUSIONE ED ERA INNOCENTE – HA SCRITTO TUTTO IN UN LIBRO “PERCHÈ PUÒ SUCCEDERE A CHIUNQUE”

Dall’arresto all’alba di un giorno di febbraio del 2010 per “associazione a delinquere transnazionale” fino alle sentenza di primo grado, che lo assolve con formula piena tre anni più tardi. Rossetti racconta il carcere, i domiciliari e le assurdità della giustizia italiana, ragionando anche su alcuni possibili rimedi…

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Da “Io non avevo l’avvocato”, di Mario Rossetti con Sergio Luciano (Mondadori)

 

“Chiedo da subito di poter lavorare per occupare il tempo che, vuoto, pesa il doppio, ma non avrò mai la possibilità, in quasi quattro mesi di carcere, di svolgere un’attività. Il lavoro in prigione è un bene rarissimo perché permette di guadagnare qualche soldo e di mantenersi. Per questo, fare lo «scopino» o lo «spesino», lavorare nelle cucine sono attività per cui si lotta, anche perché ottenerle dipende solo dalla simpatia o meno di qualche ispettore della polizia penitenziaria.

 

Nel mio caso non è possibile perché i miei sono ancora arresti cautelari e nessuno se l’è sentita nemmeno di autorizzarmi a lavorare in biblioteca per timore di contatti con gli altri coinquisiti.

MARIO ROSSETTI MARIO ROSSETTI

 

Intanto cerco di conoscere i miei concellini. Per la maggior parte sono spacciatori e ladri, età dai venticinque ai trentacinque anni. Ma molti sono padri di famiglia, pesci piccolissimi che spacciavano o rubavano non sapendo come tirare avanti in altro modo. Nei primi giorni chiacchiero in cella più che nell’ora d’aria. Il carcere inizia a diventarmi familiare, è una collezione incredibile di assurdità. Per esempio, l’aria a San Vittore: la mattina, un cortile che è un buco; il pomeriggio, tutti nel cortile grande che è anche il campo da calcio, per cui chi non gioca non può quasi camminare perché non rimane spazio. Si gira in tondo come animali in gabbia, ma per darmi un ordine mentale non mi perdo una sola ora d’aria, cammino in tondo anch’io e velocemente, per non perdere il passo e tenere la mente fuori dal carcere.

 

E camminando realizzo che, per sopravvivere a una situazione tanto assurda, non devo lasciarmi prendere dal rancore, dalla rabbia e dal desiderio di vendetta, ma devo restare lucido e considerarla un incidente che verrà chiarito. Un problema da risolvere come i tanti che si affrontano ogni giorno in azienda ma che alla fine vengono sistemati.

 

LIBRO MARIO ROSSETTI LIBRO MARIO ROSSETTI

Durante l’aria si cammina a piccoli gruppi, e io cerco la gente che mi può essere affine. Faccio conoscenza con un commercialista milanese in carcere per un fallimento, molto depresso, che deprime ulteriormente anche me: gli hanno appena negato una scarcerazione che avrebbe dovuto essere imminente, almeno stando al suo avvocato.

 

Quando entri in carcere con una condanna da scontare sai quant’è alta la montagna che devi scalare, ti organizzi mentalmente, puoi costruire un viaggio interiore e fronteggiare l’abisso. Quando non capisci perché sei dentro né per quanto ci resterai, c’è da impazzire. Lo stato di angoscia è esponenziale, in funzione di variabili che non conosci e non controlli: pensi che se il pm o il gip hanno litigato con la moglie proprio il mattino in cui devono decidere su di te, tu starai dentro quindici giorni in più; ma che se invece la figlia ha preso la lode all’esame di laurea, firmeranno subito.

 

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Mi impegno a sopravvivere, cerco di entrare nella logica carceraria al meglio, sfruttandone tutti i canali: l’infermeria, l’assistente sociale, lo psicologo. Nel frattempo, succede qualcosa. Saprò in seguito che mia moglie, la prima domenica dopo il mio arresto, ospite a pranzo degli amici Maria Antonietta e Yoram, aveva ripetuto quello che le avevano detto gli avvocati, e cioè che, considerato l’isolamento giudiziario, l’unico sistema per avere mie notizie sarebbe stato tramite una visita ispettiva di un deputato o di un consigliere regionale.

 

Il padrone di casa non aveva replicato, né promesso niente, ma aveva alzato il telefono e contattato un suo amico deputato, Ricardo Franco Levi. Levi viene a San Vittore e, nonostante cerchino di scoraggiarlo, riesce a farsi portare nel sesto raggio, quello che, di solito non viene fatto visitare, date le condizioni fatiscenti.

 

San Vittore San Vittore

Il deputato insiste per venire nella mia cella anziché incontrarmi nel parlatorio, allora mi portano in corridoio, mi mettono in un angolo con due sedie e mi fanno parlare con lui alla presenza di un ispettore. La conversazione è banale: come sta, le manca niente, come si sta organizzando per tirare avanti, però a me fa un piacere infinito incontrare una persona del mondo esterno, un segno che fuori di lì il mondo esiste ancora e si ricorda di me.

 

Parlo a Ricardo Franco Levi della mia claustrofobia e lui, uscendo, a sua volta ne parla con gli ispettori della polizia penitenziaria. È come un «apriti Sesamo». Dopo qualche ora mi convoca la comandante degli agenti penitenziari e mi dice che purtroppo le procedure del carcere nel mio caso non hanno funzionato, perché io sono arrivato ultimo del gruppo dei miei coimputati e quindi non si sono messe in atto le cautele consuete per attenuare il contraccolpo psicologico di chi entra la prima volta in carcere, e mi comunica che sarò trasferito in infermeria in osservazione.

rebibbia rebibbia

 

Torno in cella a preparare le mie cose, saluto i miei primi otto concellini, faccio anche un breve discorso di ringraziamento per il modo con cui mi hanno trattato. Sono loro stessi a dirmi che l’infermeria è la parte meno peggiore del carcere. Si affidano a queste celle i casi più delicati, quelli da seguire con più attenzione, sia per il tipo di accusa sia per le situazioni personali.

 

Quando arrivo in infermeria, la prima cosa che noto è un vecchietto sorvegliato a vista da una guardia seduta di fronte a lui nel corridoio. Mi spiegano che ha ammazzato la figlia e che temono possa suicidarsi. Nella nuova cella trovo Saro, un detenuto con quasi trent’anni di galera alle spalle, uno tosto, un boss vero. Le guardie lo hanno preavvertito del mio arrivo e gli hanno detto di «farmi da tutor»: lui, divertito, mi chiede cosa voglia dire.

 

rebibbia rebibbia

Trovo anche un provveditore alle opere pubbliche in lacrime come un bambino, non solo per essere stato arrestato ma anche perché le cronache dei giornali hanno riportato le intercettazioni telefoniche relative ai suoi tradimenti nei confronti della moglie. La tragedia che diventa commedia nella banalità di una scappatella che finisce in prima pagina sul «Corriere della Sera».

 

Mi è molto utile, il boss: spiega a me e al mio compagno tante cose del carcere e, quando ci vede abbattuti, per distrarci ci racconta la sua vita. E ha ragione: sarebbe da farci un film. Lui bambino rinchiuso in un pozzo dal padre per allenarlo a sopportare l’isolamento in galera; lui e la sua banda assoldati da un noto finanziere per fare irruzione a casa del cognato alla ricerca di documenti in un’epopea familiare di cui tutti abbiamo letto sui giornali, il maxisequestro di droga ai mercati generali di Milano, la sua banda che controlla ancora oggi una parte di corso Buenos Aires e che lui teleguida anche da lì, dal carcere. Ovviamente siamo i primi a essere serviti per colazione, pranzo e cena perché i portantini sono uomini della sua banda”. 

 

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