MAFIA CACIO E PEPE – LE SENTENZE SU “MAZZETTA CAPITALE” SEGNANO LA SCONFITTA DI PIGNATONE. L’UOMO CHE HA COMBATTUTO “COSA NOSTRA” E ‘NDRANGHETA NON E’ RIUSCITO AD APPLICARE A ROMA LO SCHEMA DELL’ASSOCIAZIONE MAFIOSA – ED I CONDANNATI ESULTANO - 

-


 

GiovannI Bianconi per il Corriere della Sera

 

Non era un' associazione mafiosa, bensì un' associazione per delinquere «semplice». Anzi, due: una più piccola, quella del benzinaio di corso Francia, dedita per lo più alle estorsioni; l' altra più grande e strutturata, messa in piedi per corrompere la pubblica amministrazione. Entrambe incarnate da Massimo Carminati, l' ex estremista nero divenuto criminale comune di peso ma non un boss, evidentemente. Non più Mafia Capitale, insomma, ma Mazzetta Capitale.

 

massimo carminati

Un sistema nel quale più dell' assoggettamento e dell' intimidazione imposta dalla caratura del bandito con un occhio solo ha inciso la compravendita dei politici esercitata da Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative sociali.

 

Un «mondo di mezzo» diverso da quello disegnato dall' accusa, che aveva sommato la «riserva di violenza» garantita dagli ex picchiatori degli anni Settanta divenuti malavitosi di strada alla corruzione praticata sistematicamente da imprenditori spregiudicati; la prima metà del sodalizio è caduta, lasciando in piedi la seconda che rientra in un contesto molto più «normale», accettabile e digeribile da una città come Roma.

 

È il motivo per cui gli imputati esultano, insieme ai loro avvocati, a dispetto di pene molto severe inflitte dalla X sezione del Tribunale di Roma: vent' anni di carcere per Carminati, 19 per Buzzi e a scendere quasi tutti gli altri (solo 5 dei 46 accusati sono stati assolti), con una scala di responsabilità che dal punto di vista dei ruoli attribuiti ai singoli personaggi sembra seguire l' impostazione dei pubblici ministeri.

 

massimo carminati

Ma la vera posta in gioco era un' altra: la scommessa di una nuova associazione mafiosa, originale e originaria, autoctona e autonoma, diversa da tutte le altre contestate finora, che da oggi non è più nemmeno presunta. Semplicemente non c' è, perché così hanno deciso i giudici del Tribunale, dopo che altri giudici l' avevano invece riconosciuta: il gip che ordinò gli arresti a fine 2014, il tribunale del Riesame che li confermò e persino la Cassazione, che aveva ribadito come non fosse necessario il controllo del territorio né l' esercizio della violenza; bastava la minaccia, anche implicita, e la corruzione del sistema politico che era da considerarsi l' arma principale a disposizione di una nuova mafia.

 

PIGNATONE

Questo impianto, dopo un anno e mezzo di dibattimento, non ha retto. Il tribunale composto da tre magistrati ha ritenuto (forse a maggioranza, due contro uno, ma sono solo rumors non verificabili che non tolgono nulla al peso della decisione) che la minaccia insita in una personalità dal passato turbolento come quella di Carminati non fosse sufficiente a configurare neanche quel «metodo mafioso» che ormai da tempo ha superato i confini siciliani o calabresi, dove viene praticato da decenni.

 

Era la sfida della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, il magistrato che dopo aver contrastato Cosa nostra e 'ndrangheta ha applicato (insieme ai suoi aggiunti e sostituti, e ai carabinieri del Ros che molto hanno creduto e investito su questa indagine) quel metodo investigativo e quel reato a questo frammento di criminalità romana che ha aggredito la pubblica amministrazione. Sfida persa.

 

RAGGI AL PROCESSO

Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni della sentenza, quale apporto ha portato l' ex estremista nero all' associazione corruttiva del rosso Buzzi, se non la «riserva di violenza» negata dai giudici. Nell' attesa, ci si dividerà tra l' esultanza di chi ha sempre definito tutta questa costruzione nient' altro che una fiction a vantaggio di qualche carriera, una «mafia all' amatriciana» inventata a tavolino per i motivi più disparati, e il rammarico di chi dirà che Roma sconta un ritardo culturale nella lotta al crimine e ha perso un' occasione storica per impedire che tutto prima o poi si annacqui, finisca sotto la sabbia o si perda nelle nebbie mai completamente diradate.

 

Divisioni inevitabili di fronte a un' accusa tanto clamorosa quanto inedita, che ha tenuto banco per quasi tre anni e ha avuto indiscutibili ricadute politiche. Finendo per travolgere le due precedenti giunte comunali e mettendo qualche premessa per l' avvento di quella nuova (non a caso ieri la sindaca Raggi s' è presentata in aula per assistere personalmente all' ultimo atto). Ma è evaporata in meno di un' ora, il tempo necessario a leggere il dispositivo della decisione; polemiche e letture contrapposte sono garantite.

intervento di gianni alemanno

 

Tuttavia al di là della sconfitta subita dai pm - parziale e non definitiva, ché le condanne ci sono comunque state e per il resto ci saranno gli altri gradi di giudizio - restano l' importanza e il merito di un' inchiesta e di un verdetto che hanno scoperchiato il grande malaffare di Roma.

 

Con pene molto pesanti che, se da un lato aumentano il valore per l' assoluzione dall' accusa di mafia, dall' altro hanno il sapore del contrappeso confermando la gravità di quanto scoperto: dai 10 anni di carcere inflitti a uno dei principali collaboratori dell' ex sindaco Alemanno (a sua volta imputato per corruzione in un processo parallelo) ai 6 per l' ex presidente del Consiglio comunale durante la giunta Marino. Sintomo di un' infiltrazione criminale, seppure non mafiosa, che non aveva confini politici e ha condizionato l' amministrazione della Capitale d' Italia.