PICCOLI FASCI CRESCONO - VIAGGIO TRA I MILITANTI DEL "BLOCCO STUDENTESCO", EMANAZIONE DI CASAPOUND - TRA AZIONI DIMOSTRATIVE, CULTO DEL FUOCO E "CINGHIAMATTANZA", ECCO CHI SONO I NUOVI FASCISTI - "QUANDO CI IMPEDISCONO DI FARE POLITICA, NON PORGIAMO L'ALTRA GUANCIA" - IL DIVIETO DI FARSI LE CANNE E QUELLA SPINTA VERSO "UNO STILE DI VITA EROICO"

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Silvia Nucini per www.vanityfair.it

 

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Fuori dall’Istituto professionale per il commercio e il turismo Marignoni di Milano fumano tutti, compresa la bidella che dà l’ultimo tiro di sigaretta e poi grida: «Spegnete, dentro!».

 

Mancano cinque minuti all’inizio delle lezioni e i ragazzi del Blocco Studentesco allungano, a chi entra, il loro volantino: da una parte recita «Devoti alla vittoria», dall’altra – in un corpo che solo la giovinezza perdona – illustra i 7 punti di un programma che è un mix di praticità e filosofia.

 

Dai libri di testo elettronici (scaricabili e a prezzo fisso) alla riscoperta dell’identità italiana attraverso visite «nei luoghi sacri della Patria».

 

Il movimento Blocco Studentesco ha ottenuto, alle ultime elezioni degli organi collegiali e delle consulte provinciali degli studenti, 56 mila preferenze e 200 membri eletti in tutta Italia. Numeri importanti se si considera che quelli del Blocco sono fascisti.

 

La prima volta che dico «fascisti» davanti a loro, lo faccio a mezza voce, perché è una parola che pesa di paura e dolore. Il fatto che, da qualche tempo, si sia tornati a pronunciarla sembra averla sterilizzata e alleggerita. Se lo posso dire può esistere. E infatti i ragazzi mi invitano a mettere da parte ogni prudenza: «Siamo fascisti, certo!». 

 

Nato nel 2006 come emanazione di CasaPound, il Blocco è presente più o meno in 120 città italiane. «Milano forse è la seconda per importanza, dopo Roma. Ma non sono sicuro, non facciamo le gare», mi dice Bruno Furiosi, 18 anni, responsabile della sede milanese.

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A volantinare sono venuti in quattro, più due che guardano. «Il Marignoni è un istituto tranquillo, ma davanti alle scuole andiamo sempre in gruppo», dice Riccardo, 20 anni. «A quelli che buttano l’occhio al volantino e dicono “vaffanculo” siamo abituati, e amen. I problemi nascono quando ci impediscono di fare politica, ce lo impediscono fisicamente, intendo. Lì, noi non voltiamo le spalle e non porgiamo l’altra guancia. Succede spesso? Be’, abbastanza», aggiunge Bruno mentre si firma la giustificazione per entrare alle 9.

 

Nel Blocco, mi spiegano, ci sono i simpatizzanti –  a Milano una quarantina di persone – e i militanti che qui sono 25. I militanti si occupano del volantinaggio, delle affissioni, della preparazione degli striscioni (font littoriano) e dei pacchi di alimentari per le famiglie bisognose (rigorosamente italiane); il direttivo nazionale o locale mette a punto le «azioni». Durante le azioni usano i fumogeni e qualche volta le maschere con la bandiera italiana «per ribadire con forza i bisogni del nostro popolo».

 

«Se qualche volta abbiamo indossato i caschi da moto era perché il numero di oggetti contundenti provenienti dall’altra fazione era tale da richiederlo», dice Andrea, 19 anni, che si sforza costantemente di parlare come un ciclostilato. Lo fa anche per spiegarmi come si è avvicinato al Blocco. Testuale: «L’ho fatto per determinare la vita mia e quella del mio popolo. Di CasaPound mi ha colpito la profondità: abbiamo un responsabile culturale, Adriano Scianca, che è un intellettuale di primissimo piano. Il suo primo testo, Riprendersi tutto, in 40 semplici concetti illustra il nostro pensiero».

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Andrea oltre a studiare Scienze umane lavora in un negozio Pivert, azienda di abbigliamento che è un punto di riferimento in fatto di look per i ragazzi di CasaPound. All’insegna dello slogan «Dare spazio all’uomo», ha lanciato le collezioni «semidio», «fighter», «martialis» e «victores». Lo stile è quello casual, inteso come sottocultura inglese mutuata dagli skinheads: capi easy per andare in curva allo stadio. Ai piedi portano quasi tutti le New Balance.

 

Prima di lavorare in negozio, Andrea faceva le consegne per Foodora, la cui esistenza è, per lui, un segno di decadenza dei tempi. «Lo spirito di sacrificio è una delle cose che si va maggiormente perdendo nella società della comodità e dei consumi. Adesso alzi il telefono e ti portano da mangiare a casa», dice. Gli chiedo cosa ci sia di male nel cibo a domicilio, mi risponde che forse ha scelto l’esempio sbagliato per parlare di «quelle cose che non ti fanno credere che valga la pena lottare per la propria nazione perché comporta sacrificio». Aggiunge che, comunque, per fare le consegne di sacrificio ce ne vuole eccome, perché il meteo, spesso, è nemico.

 

Sia lui che Riccardo sono convinti – e i loro superiori glielo ricordano spesso, parlandone come di predestinati – che l’incontro con il Blocco e CasaPound fosse scritto nel loro destino. «Mi ero avvicinato ad altre realtà politiche», racconta Riccardo, «ma sentivo che qualcosa mi spingeva altrove, verso una rettitudine interiore e uno stile di vita eroico». Lo stile di vita eroico – mi spiegano – vuole dire diverse cose: sacrificarsi, avere determinazione, perseguire obiettivi osservando le regole e non – come ci insegnano – a ogni costo, e poi anche disprezzare certe mollezze e un certo modo di vivere piccolo borghese fatto di agi e status symbol. Per capire quali, basta ricordare una delle loro azioni: il lancio di farina alle persone in coda fuori dall’Apple Store di Roma in attesa di acquistare l’iPhone 6. «Non odiamo quel telefono, ce l’abbiamo anche noi. Ma non possiamo pensare che si possano sprecare cinque ore in fila per comprare l’ultimo modello di un cellulare».

 

Nella vita eroica ci sta anche il rifiuto totale di ogni droga, «da noi le canne sono vietate, e se beviamo lo facciamo sempre con moderazione», mi spiega Riccardo con davanti – va detto – un gin tonic.

 

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Per lui – come per Bruno e Andrea –  aderire al Blocco ha significato aprire un fronte di discussione in famiglia. O almeno una parte di essa, perché, tutti e tre, gli scontri più accesi li hanno con le loro madri. «Mia mamma è dichiaratamente antifascista. Quindi è tutto un confronto, anche costruttivo», dice Bruno. Per la madre di Riccardo, spiega lui, il problema è stata la paura:

 

«Colpa dei media che ci dipingono come dei mostri. Poi ha conosciuto i ragazzi, ha visto che sono persone normali». Per Andrea lo scontro non è familiare, ma ideologico: «Mia madre non comprende la mia scelta perché, come la maggior parte della gente, ha come valori primi il denaro e il lavoro. Ma credo che il tempo abbia portato un minimo di cambiamento nel suo pensiero».

 

La loro seconda casa è Roccabruna, il pub/sede di CasaPound Milano, nascosto tra le case popolari di Quarto Oggiaro. Teoricamente è aperto a tutti, ma per entrare bisogna suonare un campanello accanto a una vetrina tutta nera e aspettare che qualcuno apra dopo aver guardato da una feritoia. Pare che ogni tanto ci vada anche Nina Moric, ma la sera in cui ci sono io gli unici avventori sono due anziani della zona, venuti a curiosare per la prima volta. La musica di sottofondo è hardcore, sui muri c’è tutto il loro mondo di riferimento: da Corto Maltese all’Hockey Milano Rossoblu, agli Zetazeroalfa, il gruppo di Gianluca Iannone (tra i leader di CasaPound) che canta le loro vite. C’è un brano sul Blocco, ma quello preferito di Bruno è Disperato amore, e in particolare la strofa: «Ti senti solo su questa strada, ma non sei solo su questa strada». «Racconta di come qua si possano trovare dei fratelli», spiega.

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Dirsi fascista non è stata una cosa facile, all’inizio, per Giorgia, 18 anni, una delle due ragazze militanti del Blocco di Milano e la più giovane candidata alle Regionali per CasaPound. Prima vicina ai collettivi di sinistra, dopo essere passata al BS ha dovuto cambiare scuola «perché ero l’unica, e quelli del collettivo mi aspettavano dopo le lezioni. Avevo paura. Anche i professori non lo accettavano e organizzavano gite ai centri d’accoglienza e convocavano i miei». 

 

Per la sua scelta ha perso delle amicizie tra cui una «importantissima: era il mio amico di sempre». Favorevole alle unioni civili per gli omosessuali, ma contraria alle adozioni gay, all’utero in affitto e all’aborto se non nei casi di stupro, dice che le donne, in CasaPound, fanno le stesse cose degli uomini. E che in futuro si vede moglie e madre, «ma con un lavoro e totalmente autonoma economicamente». Dopo la maturità farà il test di Medicina per diventare chirurgo, come suo padre, e intanto fa la volontaria sulle ambulanze. «E non mi chiedere se aiuto anche gli extracomunitari senza permesso di soggiorno. Ovvio che sì.

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Li porto in ospedale e intanto penso: tu, qui, così, da illegale, non ci dovresti stare». Racconta che a CasaPound non sono razzisti, che però «queste persone devono essere messe nelle condizioni di non dover andare via dai loro Paesi». Aiutiamoli a casa loro come dice Salvini? «Sì, ma davvero, con uno sforzo mondiale e un ripensamento sul nostro modo di vivere». Dice che la prospettiva che gli italiani diventino una minoranza e che «la nostra storia sia riscritta dagli stranieri è mostruosa. Questa è la nostra nazione e va difesa fino alla morte». Del vivere eroico di cui hanno parlato gli altri, però, non le importa molto: «Per me bisogna essere concreti e basta. Se davvero qui si disprezzassero i borghesi, io dovrei andare via».

 

Dicono che di rituali loro non ne hanno: la cinghiamattanza (un ballo in cui ci si prende a colpi di cintura) è roba vecchia, che piaceva ai media, ma non si fa più. Il loro rito d’iniziazione è la lettura di Diario di uno squadrista toscano di Piazzesi. «Lo squadrismo va inquadrato storicamente e comunque il libro parla anche del cameratismo che per noi è sinonimo di fratellanza», dice Bruno. Altri riferimenti culturali sono: Fahrenheit 451, Dante, Petrarca, Fight Club, Into the Wild. D’estate partecipano ai campi formativi: si sta in mezzo alla natura, si fanno competizioni sportive. «Mens sana in corpore sano» è il sesto punto del programma del BS. Dice Riccardo: «La cosa più bella dei campi è il fuoco. Non serve a niente, ma deve rimanere sempre acceso: ci si organizza in turni per non farlo spegnere mai».

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Quando finiamo di parlare Giorgia mi accompagna fuori dal pub. Mi chiede cosa farei se i miei figli mi dicessero che vogliono entrare nel Blocco. Le rispondo che non sarei contenta. «Ok, va bene. Però sai che io proprio non lo capisco come non possiate pensarla tutti come noi?».

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