- SI SALVI(NI) CHI PUÒ – IL CAPO DELLA LEGA IN VERSIONE FRONTE NAZIONALE PORTA NELLA STESSA PIAZZA I CONTADINI VENETI E I CAMERATI ROMANI – I DUE GRUPPI LEGANO POCO MA PAZIENZA, BISOGNA SEGUIRE LE ORME DI ZIA MARINE LE PEN -


Mattia Feltri per “La Stampa

 

La sorpresa è baritonale, come spesso le voci del Nord, e le mani si levano a indicare il Pincio sopra piazza del Popolo. «Eccoli!», e potrebbero riferirsi a bestie esotiche o a replicanti. E invece sono quelli di Casa Pound in sfilata, scendono dalle rampe di Giuseppe Valadier con le bandiere della ditta o quelle blu d’Europa barrata da una croce rossa, hanno le giacche nere, le tute mimetiche, gli occhiali scuri, hanno certi bicipiti con cui non si discute, e poi ci sono gli altoparlanti che diffondono una pomposa e tambureggiante musica di Hans Zimmer, presa forse dal Codice Da Vinci o forse dal Gladiatore.

 

SALVINI CONTESTAZIONE A ROMA

Le colonne sonore aiutano, danno un tono anche a una marcia sennò un po’ buffa, e quando la falange arriva sotto il palco è come se si aprissero le acque: tutti si allargano a far accomodare i giovanotti che ritmano cori sull’identità e la sovranità, e si concedono un breve momento di autostima a braccia tese. Il colpo d’occhio restituisce strane sensazioni, un cuoco direbbe che il risotto non è mantecato.?

 

 ?Lo si vedrà anche più tardi, quando toccherà a Matteo Salvini dare armonia a un pomeriggio stridente, sarà un tentativo rapsodico, il saltabeccare da questioni tradizionalmente nordiche come quella fiscale ad altre mai lambite, per esempio il sacrificio dei nostri nonni e bisnonni sul Piave nella Grande Guerra: fa parte del nuovo sentimento nazionale leghista e serve soprattutto a scaldare i neofascisti un po’ a disagio, coi loro striscioni neri in cui si sottolineano l’onore e altre qualità démodé.

 

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È stato questo il prevedibile grande difetto del pomeriggio, malgrado il vicepresidente di Casa Pound, Simone Di Stefano, avesse detto che «noi condividiamo anche nelle virgole il programma di Matteo Salvini». Non è una faccenda di destra o sinistra, è una faccenda puramente antropologica: come si mettono assieme un nerboruto della destra romana, lettore di libri editi da Settimo Sigillo, e un contadino veneto, venuto in piazza col campanaccio per mandare in mona il presidente del Consiglio?

 

Un meticciato raro, esaltato dall’infinito sventolio di bandiere colorate e indecifrabili, con corone, aquile, losanghe, ognuna indica un popolo, e poi bandiere con scritto «prima il Nord», con scritto «prima l’Italia», striscioni contro i fascisti ucraini, striscioni per i fascisti italiani. Buono tutto. ?I punti programmatici?Salvini, si diceva, ci ha provato. In fondo le rivendicazioni sono simili, purtroppo per lui le costumanze no, i linguaggi non parliamone.

 

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 E Salvini ha fatto di qui e di là, come un tergicristallo, ha promesso un’aliquota unica al 15 per cento (fin lì non si era spinto, a parole, nemmeno Silvio Berlusconi), l’abolizione del reato di eccesso di legittima difesa («se entri in casa mia in piedi devi sapere che ne uscirai steso», ha detto con brutale disinvoltura), ha salutato i marò, ha dedicato uno dei suoi numerosi «vaffa» a Elsa Fornero, ha offerto amicizia a polizia e carabinieri che «rischiano la vita per mille e duecento euro al mese», ha chiamato «strozzino» lo Stato, ha romanamente definito «zecche» gli antagonisti, ha persino dato consigli di lettura da Oriana Fallaci a don Milani, dalle foibe al genocidio degli armeni, ha trascurato Berlusconi ritenendolo ormai trascurabile, ha infine trovato la chiave universale con un «Renzi servo sciocco».

 

 Il premier era il minimo comun denominatore, Giorgia Meloni lo aveva poco prima inserito nell’italianissima «trojka» con Mario Monti ed Enrico Letta, un militante aveva fatto volantinaggio per avvalorarne la natura criminale, uno lenzuolone recitava oscuri versi - «Renzi getz such komm sitz ruhe!» - che pare siano comandi per cani espressi in tedesco.

 

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Ma che qualcosa non tornava lo si era visto subito. Non per i numeri. Di gente ce n’era, fra i venti e i trentamila, senza contare che i leghisti a manifestare a Roma ci vanno malvolentieri, gli sembra di andare a Sydney, di fare un viaggio senza senso, in un luogo ostile per natura e dove non saranno mai compresi. E comunque vedere la bandiere della Liga o quella del Sole delle Alpi sventolare in piazza del Popolo è stato impressionante: lo avremmo immaginato dieci anni fa?

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No, che qualcosa non tornava lo si è visto dalle espressioni quasi intimidite del popolo del Nord che si era preso la briga di espatriare. Non c’era l’aria della festa di Pontida, le carnevalate, il folklore, l’allegra ferocia, i fotografi si accanivano attorno a un agricoltore che si era messo in mutande a significare le sue finanze, gli altri tutti in piedi a drappelli ad aspettare un segnale, a raccogliere la spazzatura attorno ai bidoni sigillati per la sicurezza. Roma è così da più di venti secoli, e quando si viene da fuori si resta in catene e a naso all’aria. E allora capita di vedere questi legionari del ventunesimo secolo, diciamo così, scendere dal Pincio. Un paio d’ore più tardi, sollecitati dal nuovo imperatore barbaro, si metteranno tutti insieme a fare su e giù, prima piccola prova di cameratismo: «Chi non salta comunista è».