UFFICIO ‘SINISTRI’ - GLI ANTI-RENZI DEL PD ALLONTANANO LA SCISSIONE E AFFILANO I COLTELLI PER LA PARTITA DECISIVA: QUELLA DEL QUIRINALE - SARÀ BATTAGLIA ANCHE SUL VOTO AL SENATO PER IL JOBS ACT

Il Jobs Act arriva a Palazzo Madama martedì, mercoledì e giovedì si vota. La fiducia non è decisa ma nessuno si sente di escluderla - Federico Fornaro, bersaniano, sta già preparando un documento critico e conta di ottenere le firme di 25 senatori…

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Tommaso Ciriaco e Goffredo De Marchis per “la Repubblica

 

RENZI CIVATI RENZI CIVATI

Allontanare la scissione, contare molto di più nel Pd approfittando di un Renzi che non sembra invincibile come due mesi fa. «Quelli che l’altro ieri sono usciti dall’aula durante il voto sul Jobs Act formano un gruppo molto più grande dell’Ncd», avverte Stefano Fassina. «Non ci faremo sentire soltanto sul lavoro, ma anche sulle riforme costituzionali ed elettorale. E sulla scelta del nuovo presidente della Repubblica».

 

Ecco la vera partita, il Quirinale, anche dentro al Partito democratico. Per questo l’obiettivo è far ballare il governo al Senato sull’articolo 18 così come è avvenuto a Montecitorio. Con numeri della maggioranza che a Palazzo Madama sono in bilico fin dalla partenza dell’esecutivo Renzi.

 

Massimo Mucchetti Massimo Mucchetti

Diventare la seconda gamba del governo è l’obiettivo della minoranza, seppure divisa e senza un leader riconosciuto. Costringere il premier a trattare con l’opposizione interna punto su punto. E non abbandonare il partito, ovviamente, come invece ipotizzano Rosy Bindi e Pippo Civati. I civatiani del Senato si comporteranno come il loro leader alla Camera. E sono 4 voti a sfavore della riforma del lavoro, anche nel caso di una votazione di fiducia. Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti, Felice Casson e Walter Tocci sono in trincea.

 

«La fiducia sarebbe una vergogna nazionale. Se Matteo la mette faccio un casino pazzesco», annuncia l’ex direttore Rai. Tocci ha visto le sue dimissioni respinte proprio ieri e si sente ancora più libero di manifestare il proprio dissenso. «Questo Jobs Act non lo avrebbe scritto neanche la Fornero», dice Ricchiuti.

 

Questo tipo di opposizione è già stato digerito dal governo in occasione dell’abolizione del Senato elettivo. Ma la maggioranza continua a viaggiare sul crinale di 7 voti di scarto tra la vita e la caduta dell’esecutivo quindi a Palazzo Chigi i movimenti sono continuamente monitorati.

 

pierluigi bersani pierluigi bersani

I tempi sono strettissimi. Il Jobs Act arriva a Palazzo Madama martedì, mercoledì e giovedì si vota. La fiducia non è decisa ma nessuno si sente di escluderla. Un voto sul governo altre plateali spaccature perché il grosso dei dissidenti non dirà no a Renzi. Se invece il dibattito sarà aperto i dissensi si manifesteranno più chiaramente.

 

Magari con la stessa modalità di Montecitorio ossia l’uscita dall’aula. Federico Fornaro, bersaniano, sta già preparando un documento critico e conta di ottenere le firme di 25 senatori. «Non è accettabile il doppio binario per cui allo stesso banco di lavoro sederanno un dipendente con l’articolo 18 e uno senza», dice.

 

Se davvero i parlamentari contrari alla linea saranno 25 ovvero uno su quattro dentro il gruppo Pd, si rafforzerà la minaccia di Fassina. «Sono tutti i voti che sommati a quelli della Camera peseranno nella successione a Giorgio Napolitano», pronostica Massimo Mucchetti. Una battaglia del genere, per avere un minimo respiro, va condotta sotto le insegne del Pd. «Bersani lo ha detto chiaramente — dice Alfredo D’Attorre —. La parola scissione dobbiamo cancellarla dal vocabolario. E noi vogliamo correggere oltre alle scelte di Renzi anche le oscillazioni di Bindi e Civati».

CORRADINO MINEO CORRADINO MINEO

 

Fondamentale diventa una sostanziale unità della minoranza dem. Obiettivo ancora lontano. «Non vogliamo alzare alcun muro — dice Fassina —. Tutti insieme vogliamo cambiare la strada intrapresa da Renzi. Non funziona sia politicamente sia economicamente. Lo dicono i lavoratori, le piazze che non sono fatte da funzionari della Cgil in gita». I fronti aperti sono tanti.

 

Stefano Fassina Stefano Fassina

«Sulla legge elettorale non accetteremo più come risposta Berlusconi non è d’accordo», avverte D’Attorre. E i rapporti di forza, continua Fassina, «sono cambiati. Abbiamo riconosciuto il grande lavoro fatto da Speranza e Damiano. Si può fare di più. Stando dentro il Pd». Manca un leader, è vero, lo ammette anche D’Attorre. «Uscirà fuori». Magari proprio al momento chiave, il voto per l’elezione del presidente della Repubblica, la madre di tutte le battaglie.

 

 

 

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