1 - USA; CONTINUA IMPASSE DEBITO, SALTA VOTO CAMERA...
(ANSA) - L'impasse sull'aumento del tetto del debito non si sblocca. E il quadro si complica, con lo speaker della camera, John Boehner, che non riesce a controllare il partito e fa naufragare l'atteso voto sul piano di riduzione del deficit e del debito dei repubblicani, mettendo ancora più a rischio gli Stati Uniti a quattro giorni dalla scadenza del 2 agosto, quando gli Usa potrebbero fare default.
Il mancato voto preoccupa la Casa Bianca, che si augurava di archiviare la misura di Boehner dopo il passaggio alla camera e il blocco in Senato, per far decollare un compromesso, al quale starebbero lavorando il leader dei repubblicani in Senato Mitch McConnell e il leader dei democratici in Senato, Harry Reid, e che prevedrebbe un aumento del tetto del debito in due fasi, come chiesto dai repubblicani, ma dipendente dal Congresso con una maggioranza di due terzi e non da tagli alla spesa.
2 - I BARONI DI WALL STREET CONTRO I TEA PARTY «ORA SERVE UN ACCORDO»...
Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"
Più una battaglia politica per ristabilire le rispettive «leadership» che l'avvicinamento a una soluzione della crisi. Dopo aver cercato di sedare la rivolta di una quarantina di deputati conservatori (quelli più vicini ai «Tea Party» ) ed aver riscritto parte del suo piano per rispondere alle obiezioni dei tecnici di bilancio indipendenti del Congressional Budget Office, ieri il capo della maggioranza repubblicana alla Camera, John Boehner, ha cercato di far passare in aula la sua proposta di legge sull'aumento del tetto del "budget" federale e la riduzione della spesa pubblica.
BOEHNER OBAMAUna proposta che la maggioranza democratica del Senato ha già detto che boccerà e che la Casa Bianca bloccherebbe comunque con un veto, ma Boehner ha deciso di andare avanti ugualmente per dimostrare di avere il controllo del suo gruppo parlamentare e ritenendo di avere più forza nel negoziato col Senato con un testo legislativo comunque varato da un ramo del Parlamento.
Ma il suo rude appello ai deputati ad «allineare i loro culi», non ha dato i risultati sperati: al momento di votare, Boehner si è reso conto che, non essendo riuscito a far rientrate molte delle defezioni tra i suoi 240 parlamentari, non aveva i 216 voti necessari per il «sì» al suo testo. Voto così rinviato, di ora in ora, nella notte.
congresso-USAE la Camera che prende tempo ribattezzando alcuni uffici postali con i nomi di eroi di guerra. Arrivati ormai alle porte della scadenza del 2 agosto - data dopo la quale il Tesoro americano rischia l'insolvenza - anche gli analisti politici più navigati restano senza fiato davanti allo spettacolo di un dialogo politico che, quando ormai si dovrebbe chiudere l'accordo, sembra ancora allo stato del negoziato preliminare.
Una situazione che, con la Borsa che ha perso colpi anche ieri, preoccupa le lobby economiche. Hanno appoggiato la crescita dei «Tea Party» contro Obama, ma ora non riescono a influenzarle nel momento cruciale. Ancora ieri, mentre i capi delle 12 maggiori finanziarie di Wall Street scrivevano al Congresso che non alzare il tetto equivarrebbe a dare «un colpo tremendo al mondo degli affari e alla fiducia degli investitori», attivisti dei gruppi della destra radicale sono tornati a manifestare davanti al Congresso invitando i repubblicani a tenere duro.
Wall StreetL'«impasse», intanto, continua. La destra punta su una manovra ora ritoccata a 917 miliardi (in dieci anni) e su un aumento del tetto del debito di 900 miliardi che costringerà, comunque, Obama -la cui festa per il 50esimo compleanno, il 4 agosto, è già a rischio -a passare anche Natale alla Casa Bianca a negoziare un altro innalzamento del limite all'indebitamento del Tesoro.
Una situazione che, oltre che per il presidente, sta diventando esasperante anche per i cittadini, visto che mai in passato una scadenza come questa -importante ma tecnica -era stata utilizzata per condurre una battaglia politica dagli effetti paralizzanti. In questo clima si creano spazi per le iniziative di gruppi di delusi che vogliono cambiare l'attuale sistema elettorale. È il caso dei «radicali di centro» di «Americans Elect», un gruppo poco noto ma con le spalle robuste (ha in cassa almeno 20 milioni versati da misteriosi finanziatori) che ha già raccolto 1,6 milioni di firme per cambiare il sistema di selezione dei candidati alla presidenza che dovrebbero essere scelti dai cittadini con un voto «online», senza mediazioni partitiche.
Detta così appare un'idea velleitaria, ma all'inizio anche quello dei «Tea Party» sembrava un movimento senza capo né coda. E «Americans Elect», nelle cui fila militano diversi ex professionisti della politica che hanno lavorato con personaggi come Hillary Clinton a Michael Bloomberg, si sta muovendo con furbizia e rapidità. Rivendicando una natura non partitica, rifiuta di fornire informazioni sui sui fondi che riceve e già lavora alacremente per organizzare entro il 2012 un referendum sul sistema elettorale in tutti i 50 Stati americani.
Obama si inchina a Hu JintaoÈ già riuscita in Arizona, Alaska, Kansas e Nevada, è al lavoro in altri Stati, dalla Florida al Michigan, e da ieri ha iniziato la raccolta di firme anche in California.
3 - IL TAGLIO DEL RATING PREOCCUPA GLI STATI UNITI PIÙ DEL DEFAULT...
Da "Il Foglio"
Nel mare delle trattative per trovare un accordo sull'innalzamento del debito americano - la soglia formale del default è martedì, quella sostanziale un paio di settimane più tardi - si distinguono due grandi correnti. Una è fatta di negoziati esclusivamente politici, di guerre per bande, di compromessi apparentemente irraggiungibili non soltanto fra gli uomini di Barack Obama e i repubblicani alla Camera, ma anche all'interno degli stessi schieramenti; l'altra ha a che fare con la stabilità della più grande economia del mondo, con la sofferenza dei mercati e con la pressione delle agenzie di rating che minacciano di declassare il giudizio di stabilità se la politica non saprà produrre un compromesso accettabile. N
Hu Jintaoel day by day, dunque, continua un dibattito rissoso fatto di valutazioni di breve respiro, mentre sullo sfondo appare la complessità di uno scenario che coinvolge la struttura stessa dell'economia americana. Molti analisti politici e autorevoli giornali, ad esempio il Wall Street Journal, dicono che l'accordo infine si farà: se le parti traccheggiano e rifiutano di muoversi dalle rispettive richieste è più per mantenere gli equilibri politico-elettorali che per obiezioni in merito all'innalzamento del debito pubblico (provvedimento che nella storia americana recente è stato di volta in volta espletato come una formalità fra le tante).
I due piani contrapposti - quello democratico del senatore Harry Reid e quello dello speaker repubblicano della Camera, John Boehner - sono ancora lontani, ma ieri la Casa Bianca ha provato una leggera manovra per accogliere "qualche modifica gradita a destra", e il terreno comune dei due progetti di tagli e innalzamento del debito si sta lentamente (forse troppo lentamente) allargando.
Boehner però era impegnato a serrare i ranghi del proprio partito, in rivolta per via delle sforbiciate alla spesa troppo poco radicali, e a organizzare un voto alla Camera puramente simbolico (l'idea è usare l'Aula per fare pressione) ma che per via delle fronde di tiratori franchi - quelle che il senatore John McCain ha paragonato a impaurite schiere di hobbit che s'illudono di sconfiggere il regno di Mordor - ha rischiato di diventare un autogol. Sono giorni che il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, lavora di aggettivi: "Disastroso", "catastrofico", "apocalittico", "devastante" sono solo alcune delle caratteristiche che attribuisce a un eventuale situazione di default.
In realtà l'apocalisse è più lontana di quanto il mantra della Casa Bianca - "non riusciremo a pagare le bollette" - o quello popolare - "svenderemo l'America ai cinesi" - lascino intendere. Innanzitutto, lo spauracchio della proprietà cinese: Pechino possiede soltanto l'8 per cento del debito americano (una fetta del 26 per cento se si isola la parte controllata da player stranieri) e il 63 per cento dei 14.300 miliardi è in mani americane, oppure è detenuto da governi alleati.
Tea PartyNessuno dei grandi attori che controllano il debito risentirà in modo particolare di un eventuale default, il quale comporterà di fatto un'insolvenza relativa di Washington, a fronte di un'economia strutturalmente stabile, e le Borse - già provate dalle trattative - non minacciano crolli verticali.
Diverso invece è il problema del downgrade del debito da parte delle agenzie di rating, eventualità che peraltro prescinde dall'eventuale accordo: Standard & Poor's e Moody's potrebbero comunque togliere la tripla A nel caso giudicassero qualsiasi piano proposto un rimedio troppo fragile.
Il giudizio delle agenzie ha a che fare con la struttura dell'economia di Washington, spaventa i mercati, diffonde l'instabilità e modifica i connotati della presenza economica americana nel mondo; il default, invece, è un'eventualità seria che tende però a rimanere nella "comfort zone" di Washington. Per questo nella competizione politica ora gli osservatori si chiedono quale dei piani sia più resistente alle analisi delle agenzie.