''QUANDO GATTUSO LO PRESE PER IL COLLO...'' - MARCELLO LIPPI: "L'EFFETTO CALCIOPOLI SULLA NAZIONALE? EBBE UN PESO PER ME, PERCHÉ ROMPEVANO LE SCATOLE ANCHE A MIO FIGLIO, PER LA GEA" - "PERCHÉ NON NASCONO PIÙ QUEI CAMPIONI IN ITALIA? LA PRESENZA DEGLI STRANIERI HA UN PESO, MA C’ERANO ANCHE NEGLI ANNI DI DEL PIERO E TOTTI..." - IL SOPRANNOME PAUL NEWMAN CHE NON AMAVA, I COMPLIMENTI DI XI JINPING...

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Paolo Tomaselli per www.corriere.it

 

Mare, pineta o bomboloni della pasticceria di famiglia. Marcello Lippi, qual è stato il profumo più forte della sua infanzia?

«Quello del mare, a due passi da casa: trascorrevo sei mesi all’anno in costume e gli altri sei a giocare in Pineta. La mia vita era questa».

 

Il rapporto con il mare come si è evoluto?

«Il rapporto si è rafforzato, perché per me non esiste una vacanza senza il mare: faccio immersioni e soprattutto adoro tuffarmi, mia moglie dice che esagero, pensa sia pericoloso, ma non prendo rischi. E quando faccio i primi tuffi della stagione sono la persona più felice di questo mondo».

 

Il mare l’ha mai tradita?

«Fortunatamente no, non mi sono mai sentito in pericolo».

 

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I dolci hanno avuto ruolo importante?

«Mio padre aveva un laboratorio di pasticceria e dato che non andavo tanto bene a scuola davo una mano, portavo i dolci ai bar: quanti me ne sono caduti».

 

La scuola non le piaceva?

«Non avevo voglia, pensavo al pallone e basta».

 

Ha lavorato un anno da elettricista : nessuno le avrà mai detto «non sai neanche avvitare una lampadina».

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«In effetti qualcosina ho imparato, montavo i lampadari, non ero così scarso».

 

Il boom economico, gli anni della Bussola. Cos’era la Versilia di quegli anni?

«Quell’aria l’ho respirata tutta: c’era voglia di divertirsi e in questo la Versilia era uno dei luoghi più importanti, tra musica e belle donne. Io poi avevo una fortuna particolare: mio cugino era direttore della Bussola e mi faceva entrare anche se non avevo una lira in tasca».

 

Comodo così.

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«Sì ma io entravo con una ragazza, prendevo un tavolino e ci mettevamo a sedere. Lui arrivava e mi diceva: io ti faccio entrare ma i tavoli lasciameli liberi».

 

Poi si è preso le sue rivincite?

«Sì, perché ci tornavo da calciatore di serie A ed erano tutti felici di quello che mi stava succedendo. Cugino compreso».

 

Il primo settembre 1970 si era presentato alla Samp con l’unico vestito buono. La forma era importante.

«Sì, i miei genitori mi accompagnarono, dovevo mettermi il vestito: ma era un gessato di flanella e si moriva di caldo».

 

Sono tornati di moda i sigari, anche tra gli allenatori: lei li ha sempre fumati?

«Per la verità ho sempre fumato la sigaretta, da quando avevo quindici anni, e ho continuato anche da calciatore. Quando allenavo ne fumavo così tante che mi faceva male la gola e tossivo, così passai ai sigarini più leggeri e fumo gli stessi da allora, danesi. Rigorosamente mai al mattino».

 

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Il suo ‘68?

«Da militare e calciatore. Sapevamo quello che accadeva attorno a noi, ma il nostro sogno era quello di diventare professionisti, non altro».

 

Da giocatore fu accostato a Juve, Milan e Inter, ma rimase alla Samp. Ha qualche rimpianto?

«Sarebbe assurdo averne con tutte le soddisfazioni arrivate dopo, da allenatore».

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C’è un giocatore nel quale si rivedeva?

«Non mi rivedevo io, ma il grandissimo Fulvio Bernardini, allenatore della Samp e mio primo punto di riferimento diceva che ero identico a Franco Janich del suo Bologna: classicheggiante e un po’ lento».

 

Non ha mai amato troppo un altro accostamento, quello a Paul Newman. Poteva andarle peggio, non trova?

«Questo è sicuro. Non era sgradevole, ma non l’amavo».

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Con sua moglie come vi siete conosciuti?

«Quando giocavo nella Samp, conoscevo il padre, presidente di tutti i club del Genoa della Liguria. Una sera, sul lungomare in corso Italia, facevo un po’ lo scemo: ero abbracciato a una ragazza e avevo gli occhiali da sole, anche se erano le nove. Entrò questo signore con la famiglia, quindi anche con la figlia, e mi salutò, non feci una gran bella figura. Ma non fu l’unica».

 

Ovvero?

«Il giorno dopo esco di casa e dall’altra parte della strada c’era lei, ci salutiamo, ma non la riconosco. Un anno dopo eravamo sposati».

 

Con Stefania e Davide che padre è stato?

«Abbastanza comprensivo, anche se ho sempre tenuto la famiglia a Viareggio: mia moglie è stata molto brava a fare praticamente tutto da sola».

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Il 12 aprile sono nati anche Flavio Briatore e Matteo Berrettini. Con chi mangia la torta?

«Con Briatore l’ho mangiata già tante volte, siamo stati anche in società nel Twiga. Berrettini lo seguo, ha classe e carattere, mi piace molto».

 

Con il calcio ha frequentato tanti potenti, chi le è rimasto impresso?

«Quando arrivai alla Juve, il Dottor Umberto si avvicendò con l’Avvocato, che mi fece solo una telefonata all’inizio, come in bocca al lupo. A Villar Perosa l’estate successiva però c’era anche lui e disse di fronte a tutti una cosa molto forte: “Vedete quel signore lì, se la Juve è tornata quella che era prima è merito suo”. Da allora siamo entrati in confidenza: a Napoli avevo vissuto vicino a una villa sul mare che apparteneva agli Agnelli e lui era molto legato a quel luogo, gli ricordava momenti fantastici. Ne parlavamo spesso».

 

In Cina ha conosciuto il presidente Xi Jinping.

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«Sì, amava molto il calcio e con il nostro arrivo ci fu un impazzimento generale, perché vincemmo la Champions asiatica per la prima volta nella storia cinese. Mi mandava complimenti e saluti attraverso i ministri dello sport, che erano molto presenti. Poi mi volle in Nazionale: abbiamo fatto abbastanza bene».

 

Come mai un gigante del genere non ha continuità calcistica?

«È un fatto culturale. I ragazzi fanno altri sport, come il ping pong. Le società hanno costruito centri sportivi enormi, uno addirittura con 96 campi: qualcosa si è mosso, ma ora sembra tornato tutto come prima».

 

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Cosa le piace leggere?

«Riviste scientifiche, anche di medicina».

 

La passione giovanile per la pittura non l’ha più esercitata?

«No, anche se ero bravino».

 

Quando si parla del Mondiale 2006 si sottolinea l’effetto che ha avuto Calciopoli per compattare la Nazionale. Pesò così tanto?

«Ebbe un peso per me, perché rompevano le scatole anche a mio figlio, per la Gea. Ero arrabbiato perché non aveva neanche una stanza negli uffici della Gea, non ne faceva parte. Dissi al presidente federale che, a prescindere dal risultato, alla fine me ne sarei andato. Venne fuori tutta la verità, ma sono stato di parola. Anche se Gattuso mi pigliava per il collo, dicendomi: “Dove vai, vinciamo anche gli Europei!”».

 

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I calciatori furono anche definiti «bamboccioni». Lo erano?

«No, era un gruppo di persone di alto livello, con grande personalità. Ho avuto un sacco di leader carismatici. Grandi uomini e grandi calciatori, ecco perché abbiamo vinto».

 

Perché non nascono più quei campioni in Italia?

«La presenza degli stranieri ha un peso, ma c’erano anche negli anni di Del Piero e Totti. Il motivo non lo so, ma so che di bravi ce ne sono ancora».

 

La finale del Mundial, l’11 luglio ’82, dove la guardò?

«A casa, da solo, come tutte le partite. Non voglio nessuno che faccia commenti, che mi chieda cosa avrei fatto, che mi disturbi».

 

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Il ricordo della vittoria di quella Nazionale è più forte rispetto a quella del 2006?

«Non credo, anche se non si vinceva da tanto e avrà fatto più sensazione. Però se giro per il mondo tutti si ricordano del 2006. Ovunque vado, mi conoscono tutti come l’allenatore campione del mondo, più che della Juve, anche se con la Juve ho vinto tantissimo».

 

Lei aveva capito che era il Mondiale giusto?

«Sì, la convinzione era maturata fortemente, anche per qualche episodio positivo. Ero convinto che avremmo vinto».

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Nella prossima serie A ci saranno 7 allenatori toscani. Solo un caso?

«Forse sì, ma non c’è dubbio che i toscani abbiano conoscenze calcistiche, esperienza, passione e anche quella scaltrezza e quella furbizia che servono in questa professione».

 

Con Sacchi è andato spesso a cena?

«Non ce n’è bisogno, ci sentiamo, c’è grande stima reciproca. Poi ho un grande rapporto con Ancelotti».

 

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C’era qualche collega con cui non si prendeva?

«Sì, ma non glielo dico».

 

Ha una fama di duro: lo è mai stato troppo?

«Non sono mai stato un duro, ma ho sempre cercato di fare capire una cosa: il grande obiettivo è costruire un gruppo con stima e voglia di stare assieme, per mettere a disposizione degli altri le proprie grandi qualità. Io mi preoccupavo di questo. E quando c’era qualcuno che la pensava diversamente lo pigliavo metaforicamente per un orecchio e lo toglievo dal gruppo».

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Rapporto con la religione?

«Non di grande entusiasmo, ma di grande rispetto».

 

Invidia chi crede che ci sia qualcosa dopo la morte?

«Non solo credo che ci sia qualcosa dopo la morte, ma credo anche che ci sia un Dio, qualcosa di sovrannaturale che ha creato tutto questo».

 

Che rapporto ha con le paure, come quella della morte?

«Paure non ne ho, quando sarà il momento arriverà, ma non ci penso. Guardo il mare e penso al futuro».

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