AHI, AHI, WEIWEI: “I GOMMONI DI PALAZZO STROZZI A FIRENZE? UN OMAGGIO ALLA GENEROSITA’ DELL’ITALIA CHE CONTINUA AD ACCOGLIERE I RIFUGIATI - NON VADO IN CERCA DI ELOGI. L’ARTE È SEMPRE POLITICA” - MIO PADRE DISSIDENTE E MASSACRATO FU SEMPRE GENTILE: È STATO LA VITTORIA DELL’UMANITÀ DI FRONTE ALLA BARBARIE" -

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Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica”

 

C’è chi trova un insulto alla magnificenza di Palazzo Strozzi la fila di gommoni rossi che da qualche giorno segna come una corona di sangue, riprendendo le linee delle finestre a bifora, due facciate dell’edificio, su cui un artista giocherellone li ha appesi per sbatterci davanti agli occhi la tragedia dei migranti in balia di fragili imbarcazioni.

 

Ma non era prevedibile e anzi benvenuta una mossa così spettacolare da parte dell’artista cinese Ai Weiwei, di cui Firenze presenta la più grande e completa esposizione mai dedicata al suo lavoro?

 

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Saranno pure vilipesi dai turisti stupefatti che si fermano a guardare con la bocca aperta i ventidue gommoni, senza riconoscere quella stessa immagine nelle pagine delle loro guide; saranno pure visti da certi commentatori già all’attacco come un insulto agli ideali armonici del più sontuoso esempio di dimora rinascimentale. Però si sa che di sorprese traumatiche è pieno il percorso del magnetico Weiwei, perseguitato in patria e applaudito come un popstar nei musei d’Occidente, violento e ludico nei suoi mix di passato e presente, luoghi simbolici e interventi dissacranti.

 

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S’intitola Libero la sua retrospettiva, pronta a inaugurarsi il 23 di questo mese e in corso fino al 22 gennaio, con un allestimento che invade il palazzo fuori e dentro. Il centro del cortile è schiacciato da una claustrofobica ala metallica che vuol rammentare i giorni di detenzione di Weiwei, mentre le installazioni del piano nobile vanno da Forever, labirinto duchampiano che incastra un migliaio di biciclette cinesi e neorealiste, a Sichuan, serpentone formato dai 360 zaini di bambini morti nel crollo delle scuole collassate a causa di costruzioni scadenti durante il terremoto del 2008, e a Objects, che evoca con inquietanti riproduzioni di pezzi anatomici il mercato di organi in Cina.

 

Ha curato la mostra Arturo Galansino, giunto a dirigere Palazzo Strozzi con idee forti sulla contemporaneità, territorio in cui Weiwei è il massimo che si possa avere oggi. Influente nei messaggi, seguito da milioni di fan sui social e temerario fino all’autodistruzione.

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Ai Weiwei, questa mostra è un gigantesco autoritratto?

«È un viaggio nelle mie opere dagli anni Ottanta a oggi: include il mio periodo giovanile newyorchese, con la scoperta di Andy Warhol e Marcel Duchamp, le opere simboliche realizzate in seguito, con massicci assemblaggi di utensili, e i recenti progetti politici sulle migrazioni», risponde Weiwei, che ha l’aspetto di un gigante buono e imbronciato, e uno sguardo che mescola ombre e ironia.

 

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«Sono un lottatore. Se facessi l’atleta sarei un pugile. Prendo cazzotti che fanno male e mi metto in situazioni a rischio. Non vado in cerca di elogi. La mia battaglia è politica e sociale: l’umanità va difesa. La libertà non è una parola che si può dare per scontata, ma è frutto di una lotta. L’arte è sempre politica».

 

Sempre? E allora dove mettiamo la bellezza?

«L’arte è la capacità filosofica di trasformare un costrutto artistico in un linguaggio espresso. Arte può essere qualsiasi cosa. E la politica può avere il senso di un atto estetico. Certi teatrini di dibattiti sulle elezioni americane hanno un alto tasso di humour. L’arte di Shakespeare è spesso pura politica».

 

Bellezza sono anche i capolavori di Botticelli, di cui lei, qui a Firenze, ha ammirato i quadri fino a commuoversi.

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«Ogni messaggio estetico è politico. Botticelli può definire un diverso concetto di bellezza in relazione allo spirito del proprio tempo. L’arte richiede una mente critica. Quanto a me, lavoro in relazione ai cambiamenti del mondo. La crisi dei migranti è all’ordine del giorno ed è quindi al centro dei miei interessi. Sul piano estetico esploro forme e materiali reinterpretando la tradizione cinese con l’uso di legni pregiati o della giada o della porcellana o d’altro. Amo l’antico e non vi rinuncio. Un’altra mia direzione esplora i mutamenti sociali attraverso Internet ospitando il dissenso della gente e le proteste online».

 

Nella serie “Leg Gun” una sua foto postata su Instagram la coglie mentre imbraccia una gamba come una pistola: il gesto è stato ripreso da migliaia di follower. E proliferano immagini della sua vita pubblicate sul suo blog, come un’ossessione.

«L’arte potrà avere un futuro solo adattandosi alla tecnologia. I social danno libertà d’espressione. In una società come la Cina il singolo non esiste, ma grazie ai nuovi strumenti tutti possono diffondere pensieri e opinioni. Me ne infischio dell’ego e della fama: mi preme che sia sentita la voce di tutti, e io posso farmi tramite. Credo nell’umanità e nel bisogno di comunicare.

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Per un certo periodo, in Cina, sono stato in carcere sorvegliato dai soldati 24 ore su 24. Mi guardavano anche quando dormivo e andavo al cesso. Erano lì. Professionali. Non sapevano nulla di me né dei miei crimini. Dopo un po’ hanno preso a sussurrare. Bisbigliavano. Richiedevano la mia attenzione. Chiunque al mondo vuol dialogare col prossimo. Non esiste alcuna situazione che possa reprimere quest’urgenza».

 

 

Numerosissimi sono anche i suoi selfie.

«Significano immediatezza e informazione pura. Oltre al carcere ho avuto una lunga fase di arresti domiciliari. Vivevo tra telecamere e microspie. I selfie sono stati anche un modo per dare notizie su di me all’esterno. La mia esistenza è diventata simbolica per molti, visto che mi adopero per dare la parola a persone che non possono essere ascoltate. La mia fede nei diritti umani è totale. E l’esposizione ai media rende le mie condizioni più sicure. D’altra parte non ho niente da nascondere e non pretendo di non esistere. Tutti possono affacciarsi sulla mia vita».

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I messaggi delle sue opere sono sempre espliciti e diretti. Mai “trasversali”. Come i gommoni di Palazzo Strozzi.

«L’artista deve discutere e farsi comprendere apertamente su temi come la sofferenza dei profughi. L’Italia ha uno straordinario patrimonio culturale e i gommoni simboleggiano un passaggio salvifico che rinnova un monumento dell’arte. C’è anche un punto di vista realistico in questa scelta, ed è la generosità dell’Italia che continua ad accogliere i rifugiati ».

 

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È vero che ha ereditato l’amore per l’Italia da suo padre, il poeta Ai Qui, candidato al Nobel? In quanto dissidente, venne deportato e condannato a pulire latrine.

«Mio padre non ha mai perso la propria luce. Puliva i gabinetti senza sentirsi umiliato perché in lui respiravano arte e cultura. Mi raccontava la storia romana e mi mostrava riproduzioni della pittura rinascimentale. Con la rivoluzione culturale quelle stampe meravigliose che mi avevano fatto sognare furono strappate e bruciate. Lui fu picchiato e massacrato, ma restò sempre calmo e gentile. Era colmo di un’energia artistica con la quale seppe proteggermi in giovane età. Mio padre è stato la vittoria dell’umanità di fronte alla barbarie».

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