Simona Orlando per Il Messaggero
Più che un volto Brian Eno è un suono. Anzi una marea di suoni, spesso non estratti da strumenti convenzionali ma con uno stile preciso. Non musicista, non cantante, non citato ideatore di innumerevoli progetti, mai le negazioni sono state così affermative. Sin da quando era uno studente d’arte sapeva cosa benissimo cosa non voleva fare: trovare un lavoro. Non capiva se desiderava essere un musicista o un pittore e allora ha dipinto la musica, sempre più interessato al processo che al prodotto.
Fino al 30 settembre all a Galleria Valentina Bonomo di Roma (Via del Portico D’Ottavia 13) c’è la sua mostra ‘Light Music’, una personale dove mette in relazione light boxes e speaker flowers, quadrati luminosi e fiori metallici che oscillano in base al suono che emettono, creando una esperienza per lo spettatore. E’sempre stato il suo punto forte comporre o scomporre riuscendo a non isolarsi e a comunicare, a spiazzare l’ascoltatore senza mai metterlo in pericolo. Si è amalgamato con tante sensibilità, questo serafico 68enne in continua mutazione: nel ’71 con i Roxy Music, poi “uomo dei trattamenti” per U2 e Coldplay, in grado di gestire gli sclerotici Devo o le follie dadaiste dei Talking Heads, eminenza della trilogia berlinese di David Bowie. Del quale però non vuole parlare: «Non ne posso più, da mesi non mi chiedono altro».
Non è uno che ama sfoggiare aneddoti e speculare sulle sue importanti conoscenze, anzi si dice che in studio con i grandi artisti sia più provocatore che reverenziale. Curioso di tutto, ha definito la musica ambient, fatto word music, col onne sonore, jingl e, videoarte. Da sperimentatore a progettis ta pop, in equilibrio perfetto fra azzardo e gusto. Da un mese è uscito con il disco The Ship, una lunga suite dove si naviga e si naufraga, tra voci di soldati della Prima Guerra Mondiale e di sopravvissuti del Titanic, due eventi che dovevano segnare il trionfo dell’uomo sulla natura e che invece hanno mostrato il suo fallimento. Ma ci sono misteri che nem meno Eno sa spiegare: «Proprio non capisco come sia possibile che questa mia musica sia appena finita in cima alle classifiche inglesi di dance/elettronica».
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Esistono punti di incontro fra “The Ship” e queste opere visuali?
«Il disco era nato come una installazione tridimensionale a Stoccolma, volevo fare canzoni come sculture da esplorare, dentro cui circolare e camminare. Ho iniziato la carriera separando la musica e l’arte visiva, gradualmente negli anni li ho avvicinati: la musica è rallentata sempre più fino ad essere pittura e i dipinti li ho fatti muovere fino a diventare musica. Questa mostra è il mio punto di arrivo dopo molti tentativi di unire le due attività. La penso come “ambient painting”, pittura ambientale»
Ha spesso parlato di democratizzazione della musica grazie alla tecnolo gia. Vale anche per le arti visive?
«C’è differenza fra i due mondi economici: in una galleria d’arte sai di vendere cose costose a poche persone, in campo musicale sai di vendere cose non costose a molte persone. In vita mia è solo la seconda mostra commerciale che faccio, dove le opere sono in vendita. E’ una specie di esperimento per me. Le mie istallazioni luminose le ho messe anche negli ospedali inglesi, sperando di migliorare la situazione dei pazienti»
In musica come nell’arte visiva ciò che non si allinea, viene poi incorporato e reso commerciale. C’è qualcosa che resta puro?
«Non ho problemi con il mercato. Alla gente piace comprare e io mi guadagno da vivere vendendo. La difficoltà non è il mercato in sé ma la tua risposta, cioè se smetti o cambi quello che vuoi fare per compiacerlo. A me non è successo. Mi alzo ogni giorno e faccio esattamente ciò che voglio. Non è meraviglioso? Almeno se non sono felice so che è colpa mia, non ho nessun altro a cui attribuire responsabilità»
Ogni epoca ha il suo suono. Qual è quello che caratterizza questo tempo?
«Se vivi in campagna il rumore del vento e delle foglie è gradevolissimo ma dopo un po’ ti manca comunque quello della città, che sfortunatamente è la gente che parla e il traffico. Il suono del nostro tempo sembra essere quello dei mezzi di emergenza, costante e brutale»
Sa creare incredibili paesaggi sonori. I suoni li cerca o li subisce?
«Lo studio in cui lavori non puoi spegnerlo. Puoi chiudere la bocca e non mangiare, ma è impossibile chiudere le orecchie e non sentire. Spesso però i suoni me li vado a cercare, accendo qualcosa, colpisco il wifi per capire se emana qualcosa di interessante»
In “The Ship” ha messo una cover dei Velvet Underground incisa 12 anni fa. Perché ora?
«Non ho mai smesso di cantare, ma recentemente avevo smesso di registrare la mia voce. “I’m Set Free” stava lì, aspettavo solo il momento giusto ed è arrivato quando ho scoperto che il mio do si è abbassato tantissimo. Sono i vantaggi della vecchiaia»
E’ contrario all’idea di singoli artisti rivoluzionari e parla piuttosto di una forza creativa collettiva. Non le sembra si sia concentrata tutta nel passato?
«Più che geni usciti dal nulla, io credo nelle scene, nei gruppi di persone geniali , perciò preferisco parlare di “scenius”. Esistono tuttora nel mondo dell’arte ma anche in quello della scienza, dove scoprono cure per le malattie, o della tecnologia, che creano cose tipo la Stazione Spaziale Internazionale. Non sono uno di quelli che pensa che i creativi più portentosi siano nati nel passato».