ITALIAN GRAFFITI - ROMA DOPO NEW YORK: AL "MACRO" UNA MOSTRA RIPERCORRE 40 ANNI DI STREET ART - IL CURATORE PAULO VON VACANO: “GESTI ESTREMI DI ANARCHIA E INDIVIDUALITÀ MA CON IL PARADOSSO DI ADERIRE A REGOLE FORTI... LA LEGGE NON SCRITTA DEL VERO COATTO: RUDE MA CON UN'ETICA” - VIDEO - -

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Maria Egizia Fiaschetti per La Lettura – il Corriere della Sera

 

 

CROSS THE STREETS CROSS THE STREETS

Dirt don' t hurt , lo sporco non nuoce. Non sempre. Potere alchemico dell' immaginazione. Il «frigo-gate» dell' era Raggi, il complotto dei rifiuti ingombranti abbandonati in strada, non era ancora un trending topic ma la discarica aveva già un che di mitico: trasformata in parco giochi da un gruppo di creativi abituati a calpestare la monnezza Capitale. A uscire dalla propria comfort zone , la cameretta, per dipingere la città.

 

Ripercorre quasi quarant' anni di arte urbana la mostra Cross the Streets , a cura di Paulo von Vacano in collaborazione con Nufactory e il progetto Abc della Regione Lazio, che aprirà il 7 maggio al Macro di Roma. Le sale al piano superiore raccontano il fenomeno del writing (1979-2017) attraverso i protagonisti: dalla prima generazione di fine anni Ottanta agli interventi site specific ideati o riproposti per l' allestimento.

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Con una (ri)scoperta: un gruppo di opere degli americani Lee Quinones e Fab 5 Freddy, esposti nel 1979 alla galleria La Medusa. «Roma - sottolinea il curatore della sezione, Christian Omodeo - ha ospitato la prima mostra di graffiti fuori da New York. Un passaggio veloce, one shot , ma il contesto era già molto ricettivo: all' inaugurazione c' erano anche Gianni Agnelli e la famiglia Fendi.

 

LEE QUINONES LEE QUINONES

La Capitale è stata centrale per il writing , per quanto il suo ruolo sia stato sempre un po' sottostimato. Sono mancati curatori e galleristi in grado di supportare la scena. Non è un caso che all' ultima Quadriennale l' arte urbana sia stata completamente ignorata». Eppure, nonostante le campane a morte che l' hanno data più volte per spacciata, resiste e continua a evolversi da oltre mezzo secolo.

 

La ragione, forse, è nel rapporto inestricabile con la contemporaneità: tra giungla comunicativa, deriva identitaria e generazioni che, a dispetto dei cliché, si sentono tutto fuorché perdute. Da qui, la spinta a smarginare dalla pagina bianca per incidere nello spazio pubblico. «I graffiti non sono soltanto una palestra per il tuo ego - riflette Emiliano "Stand" Cataldo, classe 1973, writer della prima ora - ma il sottoprodotto di una società malata con degli anticorpi etici al suo interno. Il buon writer è dedito alla causa, rispettoso, prolifico e ha stile... Per affermarti non conta da dove vieni, come ti vesti, qual è il tuo credo politico: conta solo la qualità del lavoro. L' opposto di un mondo in cui riesci se sei uno squalo, arrivista e spregiudicato».

 

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A 17 anni realizza il suo primo intervento su muro con la firma Emc: «Sotto casa, all' Alberone. Sono cresciuto in una famiglia di pittori - ricorda - ma a un certo punto il foglio non mi bastava più». I tuoi come l' hanno presa? «Non era una forma di trasgressione, mi ero già emancipato dalla famiglia. Mia madre mi ha chiesto se ero proprio sicuro di non voler dipingere tele... Le ho risposto che cercavo qualcosa di più fresco, lasciare un segno nella città». La sua scuola sono cinema e tv: «Non avevamo punti di riferimento. I primi graffiti li ho visti nei videoclip musicali o in film come Flashdance ... Li registravo su vhs, premevo still e ridisegnavo le lettere».

EMILIANO STAND CATALDO EMILIANO STAND CATALDO

 

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Nel 1992, durante un viaggio in Interrail per l' Europa, «scopre» la subway : «Tornato a casa, ho deciso che dovevo dipingere i treni». Vuoi per il parco mezzi vetusto, vuoi perché i vagoni per decenni non vengono puliti (un' opera di Stand ha continuato a viaggiare su un treno della linea A della metropolitana di Roma per quasi tre lustri, ndr ), la pancia della Capitale comincia ad attrarre i migliori writer europei: a metà degli anni Novanta è il posto . E il fenomeno, nato naïf, partorisce i suoi primi epigoni. L' allestimento al Macro riavvolge il nastro dall' inizio: da Napal, trasferitosi a Roma dall' Australia nell' 85, fino al post-graffitismo.

 

La seconda generazione è rappresentata da Jon, autore di un intervento progettato assieme a Koma, tra i pionieri del writing romano, che ricrea l' ambientazione sensoriale di un deposito e della banchina di una stazione della metropolitana.

Una griglia metallica divide lo spazio in due: al di là della rete si intravedono fotografie dei treni e uno schermo con la proiezione del film Un gioco da ragazzi . In un' altra stanza, buia, scorrono le immagini del video Aleph-bet che, grazie a un certosino lavoro d' archivio, mostra l' invecchiamento dei vagoni (linee A e B della metro e Roma-Lido) dal 1993 al 2012.

 

paolo von vacano paolo von vacano

A segnare gli anni Duemila è il passaggio - in parte per motivi anagrafici, in parte per l' iper-stratificazione - a nuove modalità espressive pronte a misurarsi con il mondo dell' arte. La sintesi è affidata all' esperienza del collettivo Why Style (Emiliano «Stand» Cataldo, Stefano «Nico» Proietti, Stefano «Pane» Monfeli, Alessandro «Scarful» Maida, Joe Franceschi, Jonathan Levin, Mirai Pulvirenti) che mescola post-graffitismo, skateboarding, grafica e fotografia. L' atto di fondazione, un anti-manifesto che pur omaggiandolo si fa beffa del mito americano, è la fanzine autoprodotta «Hateful» . Sulla copertina l' immagine simbolo del film Wild Style (1983) viene rettificata in Why Style - un po' new dada un po' détournement - prestandosi a una doppia lettura: punto interrogativo, perché lo stile?; o finestra sul futuro, «e adesso che facciamo?».

 

Dago e Paulo Von Vacano Dago e Paulo Von Vacano

La sezione della mostra dedicata alla street art - spiega Paulo von Vacano, che con la casa editrice Drago ha prodotto anche il catalogo della mostra - «approfondisce i temi della tolleranza, della multiculturalità, della convivenza. Gli highlight saranno una grande opera di Shepard Fairey sulle donne musulmane e un lavoro di Mos One, metà romano e metà egiziano, sulla calligrafia araba». La mostra, in una città in cui dalle catacombe a Pasquino le strade hanno sempre «parlato», sconfinerà dagli spazi museali per interagire con il territorio: da un cleaning day sulle banchine del Tevere a conferenze sulla cultura hip-hop, fino a eventi sportivi e laboratori con bambini immigrati.

 

LEVIN E MONFELI LEVIN E MONFELI

Un' osmosi tra «in» e «out», società civile e istituzioni, che riflette lo spirito più autentico dell' arte urbana: «Gesti estremi di anarchia e individualità - sottolinea il curatore - ma con il paradosso di aderire a regole molto forti: rispetto, impegno, coesione con il resto del gruppo e amore per la propria città... La legge non scritta del vero coatto: rude ma con un' etica».

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