Anna Lombardi per Robinson - la Repubblica
[...] A ventisette anni dalla morte di Keith Haring, i genitori parlano ancora con stupore di quel figlio straordinario partito dalla provincia e diventato il più riconosciuto artista della sua epoca
[...] La mostra di Milano ripercorre il suo rapporto con la storia dell’arte. Ma come iniziò la sua passione per la pittura?
Disegnare gli piaceva già da piccolo. Era l’unico modo di intrattenerlo: non siamo una famiglia sportiva, avevamo provato con i boy scout ma non si era appassionato. Così la sera, dopo cena, facevamo un gioco. Disegnavamo dei cerchi che lui doveva trasformare in qualcosa.
Era molto creativo già allora: due tratti e disegnava un gelato. Con un triangolo la faccia di un gatto. A volte disegnavamo qualcosa senza mai staccare la matita dal foglio. Penso che quel suo tratto così sinuoso e sicuro arrivi da lì. Dopo un trasloco scoprimmo che dietro al divano disegnava sul muro. Ma non avremmo mai immaginato che sarebbe diventato un artista
Perché
«Per noi un artista era un disegnatore commerciale che incassava il suo assegno tutti i mesi. Non eravamo affatto impressionati dall' arte che amava. Certo, sperimentare lo appassionava. Una volta, avrà avuto sedici anni, doveva badare a Kristen, la più piccola delle sue tre sorelle, che allora aveva quattro anni.
Quando tornammo le aveva dipinto mani e piedi e le stava facendo lasciare impronte su un grande foglio di carta. Noi ci arrabbiammo molto. Ma lui ritagliò quelle impronte e ne fece una scultura leggera. Ce n' è ancora un pezzo da qualche parte».
Vi piacevano i suoi lavori?
«Non erano qualcosa che noi chiamavamo arte. Non somigliavano a nulla di ciò che eravamo abituati a vedere. Ci piacevano quelli che esprimevano gioia di vivere: i disegni sorridenti, il bambino radiante, gli animali. Qualcosa invece era irritante».
Cosa vi disturbava?
«Ci fu il periodo che disegnava tutti quei peni. Vederli per casa era sgradevole. Disegnò perfino le Twin Towers come due grandi peni. E noi: " smettila. Ma a lui sembravano molto buffi e allegri».
Sapevate della sua omosessualità, della sua vita sregolata?
«Sono cose che abbiamo scoperto dopo. Le sorelle sapevano che a scuola fumava marijuana, noi nemmeno quello. Appartenevamo a due mondi diversi. Non comunicavamo molto».
Keith ha raccontato tutto nei suoi diari. Cosa avete scoperto di lui leggendoli?
«Non siamo mai riusciti a leggerli fino in fondo. Troppo dolore scoprire tutto quello che ha fatto e vissuto attraverso le sue stesse parole».
Diventò presto famoso: il successo, il denaro come lo cambiarono?
«Capiva il valore del denaro e quello della generosità. Da ragazzino consegnava giornali e parlava sempre con sorpresa del fatto che le mance dei poveri erano più generose di quelle dei ricchi. Se qualcuno glielo chiedeva era pronto a regalare un disegno fatto col pennarello che aveva sempre in tasca. Poi, certo, la fama gli piaceva».
Andy Warhol era un suo caro amico. Lo avete mai incontrato?
«Sì, un uomo silenzioso, che parlava a voce così bassa che non si capiva mai quel che diceva. Noi eravamo sperduti in quel mondo. Quando Keith c' invitava alle sue mostre la gente capiva da come eravamo vestiti che venivamo dalla Pennsylvania. Non ce ne curavamo. E nemmeno lui. Qualcuno, poi, provò ad aiutarci».
Qualcuno vi fece da guida?
«I suoi primi collezionisti, Mera e Don Rubell c' invitarono spesso. Abitavano vicino a Central Park in una casa così piena d' arte da sembrare un museo. Finalmente conoscevamo qualcuno e quando arrivavamo alle mostre chiedevamo subito: "Ci sono i Rubell?". Andammo anche a qualche festa».
Le sue famosissime feste, un po' installazione d' arte un po' musica sperimentale.
« Eravamo al suo primo Party of Life, l' incredibile festa per i suoi ventisei anni. Madonna non era ancora una rockstar e cantò per lui. Prendemmo un taxi per tornare in albergo mentre centinaia di persone erano ancora in fila per entrare. Il traffico era impazzito e il tassista bofonchiò: " Qualche stronzo di artista sta facendo casino". " È proprio uno stronzo", ridemmo, " è nostro figlio" » .
Com' era quel mondo?
« Surreale. È indescrivibile quello che vedemmo. Erano tutti così giovani. Ed incredibili. C' era il fotografo Tseng Kwong Chi, grande amico di Keith. L' attrice Ann Magnuson. I suoi amici graffitisti Kenny Scharf e Jean- Michel Basquiat. E Madonna, appunto, agli inizi della carriera. Avevano la stessa età, frequentavano gli stessi posti, erano arrivati a New York al momento giusto ed ebbero tutti successo. Naturalmente c' era pure chi era geloso di loro».
A chi vi riferite?
«Sarà stato il 1985, Keith era all' apice del successo. Aveva due mostre nella stessa strada, una da Tony Shafrazi, l' altra da Leo Castelli. Passava dall' una all' altra con un codazzo di persone. Mi accorsi che qualcuno aveva cattive intenzioni. Due tipi con delle strane buste. Mi precipitai su di loro giusto in tempo: avevano un barattolo pieno di bitume e piume. Volevano mettere Keith in imbarazzo davanti a tutta quella gente».
Quando avete scoperto che era sieropositivo?
«Lo chiamavano il cancro dei gay, nessuno sapeva bene cosa fosse. Keith sapeva che non sarebbe vissuto a lungo e ci invitò a fare un viaggio in Europa. Quando si avvicinò la fine, ci trasferimmo da lui. Trascorremmo insieme gli ultimi giorni».
Cosa ricordate di allora?
« Poco prima di morire arrivò una lettera. Aveva sempre sognato di ridisegnare Topolino per la Disney e loro volevano proporgli qualcosa, credo un cartone animato. Non ci credeva: " Me lo dite per farmi sentire meglio", diceva » .
Come pensate a lui, trent' anni dopo?
« È ancora tutto così surreale. La gente fa i selfie davanti alle sue opere, i nostri nipoti lo studiano a scuola, i musei organizzano grandi mostre. Lui ne sarebbe stato felice. Ma per noi è sempre il nostro ragazzo geniale che non capivamo, ma che abbiamo molto amato. Cos' altro potevamo fare se non sostenerlo? » .
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