PANSA CHE TI RIPANSA, SI TOGLIE UN MACIGNO DALLE SCARPE - EU-GENIO, DA EDITORE PURO A MILIARDARIO IMPURO – LA VENDITA DI REPUBBLICA ED ESPRESSO A CDB RIEMPÌ I PORTAFOGLI DI SCALFARI E CARACCIOLO, MA FU LA PREMESSA DELLA BATTAGLIA DI SEGRATE – UN POTENTE DC MI DISSE: “IL CAF NON DIMENTICA E DENTRO SEGRATE, BETTINO HA UN AGENTE DORMIENTE: SILVIO BERLUSCONI”…

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Giampaolo Pansa per "Libero"

EUGENIO SCALFARI - Copyright PizziEUGENIO SCALFARI - Copyright Pizzi

Oggi che è tornata di moda la guerra di Segrate fra il Cavaliere e l'Ingegnere, qualcuno si domanderà quando è cominciata. Ho in mente una città e una data: Torino, l'11 aprile 1989.

Quel pomeriggio, nello splendore del Teatro Carignano, si festeggiava la nascita dell'edizione torinese di "Repubblica". Sul palco c'era Eugenio Scalfari, affiancato dai due vicedirettori: Gianni Rocca e il sottoscritto. Seduto in sala, avvolto in uno splendore carismatico, stava Gianni Agnelli, venuto a sentire quali fossero i propositi di quei pazzi saliti da Roma a insidiare il monopolio della sua "Stampa".

Dal palco ci chiedemmo perché mancasse l'Ingegnere, ossia Carlo De Benedetti, padrone della Mondadori. I suoi rapporti con Eugenio e il principe Carlo Caracciolo erano già molto stretti. E di lì a pochissimo si sarebbe saputo che lo erano diventati ancora di più. Poi anche l'Ingegnere arrivò puntuale, alle 17,30 spaccate. Sembrava incerto sulla poltrona da occupare. Il capo ufficio stampa della Fiat, Alberto Nicolello, si accorse di lui. E gli cedette il posto accanto all'Avvocato, per la goduria dei fotoreporter.

DEBENEDETTIDEBENEDETTI

Fu una giornata storica. Ma non per lo sbarco di "Repubblica" a Torino. Lo divenne quando, quello stesso 11 aprile, si apprese ufficialmente che Caracciolo e Scalfari avevano venduto a De Benedetti i loro gioielli. Ossia la metà di "Repubblica" che la Mondadori ancora non possedeva, più "L'Espresso" e la robusta catena dei giornali locali.

Carlo CaraccioloCarlo Caracciolo

"Barbapapà" e il Principe avevano resistito a lungo alle proposte dell'Ingegnere, voglioso di comprarsi tutto. Scalfari ci aveva spiegato più volte che la sua era la Strategia del Contadino. La metteva giù nel modo seguente. Il contadino vive sulla propria fattoria e non vuole saperne di andarsene. Molti vorrebbero comprargli il terreno e la casa, anche facendo carte false. Ma il contadino se ne resta lì, testardo. Resiste a tutte le lusinghe. Respinge tutte le offerte.

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Per noi della truppa di "Repubblica" era un discorso che piaceva, molto convincente. Non eravamo i proprietari del fondo, ma soltanto gli aiutanti del contadino Scalfari: i giornalieri di campagna, i ragazzi di stalla, i conduttori delle macchine agricole. Però la cascina era anche casa nostra. Ci stavamo bene. Si respirava aria buona. In più eravamo al servizio di un editore puro, che ricavava il proprio reddito soltanto dalla carta stampata. Mentre le fattorie degli altri giornali erano sotto il dominio di editori impuri. Che avevano altrove il cuore del loro business.

Bettino CraxiBettino Craxi

Quel giorno d'aprile scoprimmo che eravamo diventati uguali a tutti. In compenso, Caracciolo e Scalfari erano passati nella gloriosa serie A dei miliardari. Il Principe di miliardi ne aveva incassati qualche centinaio. Eugenio si era fermato poco al di sotto dei cento. Tutti versati in assegni circolari da De Benedetti. Che in quel modo diventava il capo del più grande impero editoriale italiano. Esteso da Segrate alla romana via Po, sede del gruppo Espresso.

C'era qualcosa da spiegare. E Scalfari, grande direttore e uomo molto accorto, se ne accorse subito. Gli bastò annusare il mutamento di clima nella redazione di "Repubblica". La fedeltà del vertice, a cominciare da Rocca e da me, non era in discussione. Lo stesso valeva per la maggior parte dei giornalisti. Ma non mancava chi s'era messo a rognare. E si chiedeva, inquieto: come si comporterà De Benedetti, il nuovo padrone totale della vecchia fattoria?

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Eugenio aveva anche un immagine da difendere. Si era sempre affannato a proclamare la propria diversità rispetto ai direttori delle grandi testate. Ripetendo di continuo che un direttore era davvero forte e libero se era padrone del suo. Ossia se possedeva almeno una parte del giornale che guidava. Ma dopo la vendita miliardaria non era più così.

Il 14 aprile 1989, Eugenio cercò di mettere tranquilli i lettori e la redazione di "Repubblica" con un articolo di fondo intitolato: "Una bandiera che non sarà ammainata". E il pomeriggio dello stesso giorno affrontò in conferenza stampa i corrispondenti esteri di stanza a Roma.

Il succo del suo discorso fu il seguente. È vero, Caracciolo e io abbiamo venduto la nostra azienda alla Mondadori. Ma adesso, con una parte del ricavato, siamo diventati azionisti di quel gruppo. E Caracciolo sarà addirittura il presidente della nuova Segrate, a fianco dell'Ingegenere. Oggi l'intero mondo dei media vede l'affermarsi di grandi concentrazioni. Chi vuole andare avanti, deve attrezzarsi per questa fase. Noi del gruppo Espresso eravamo terribilmente piccoli rispetto alle dimensioni necessarie per combattere le nuove sfide. Ecco perché abbiamo preso la decisione di vendere.

Un giornalista gli chiese: «In questo modo, ha ceduto le armi l'ultimo editore puro. Non è così?». Risposta di Scalfari: «Potevamo resistere, certo. Ma avremmo ingessato le nostre attività. Ogni progresso avrebbe richiesto aumenti di capitale ai quali da soli non avremmo potuto far fronte. Invece noi abbiamo fatto una scelta diversa: ci siamo trasferiti al piano superiore della Mondadori».

Belle parole, pronunciate da "Barbapapà" con la solita sicurezza. Era un dato del suo carattere che ammiravo molto. Anche nella carta stampata, se un direttore non si mostra sicuro di sé non è un vero leader. Scalfari lo era, persino nell'atteggiamento. Tanto che un giorno Caracciolo ci disse: «Non vi siete accorti che Eugenio porta la testa come il Santissimo in processione?».

Purtroppo, in quei primi mesi dell'Ottantanove, anche il clima politico volgeva al brutto per "Repubblica". In febbraio il congresso della Dc aveva scalzato Ciriaco De Mita, amico di Eugenio, eleggendo segretario Arnaldo Forlani. A metà maggio il congresso del Psi, all'Ansaldo di Milano, aprì la crisi di governo e De Mita perse anche la poltrona di Palazzo Chigi. Fu il trionfo di Bettino Craxi, nemico di "Repubblica" e amico di Silvio Berlusconi, azionista minoritario della Mondadori. E in luglio nacque il sesto governo Andreotti.

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Nessuno di noi se ne rendeva conto, ma si avvicinava la bufera. Nell'estate un potente della Dc tentò di mettermi sull'avviso. Mi disse: «Adesso che vi siete concentrati con De Benedetti, sarete più fastidiosi di prima. Ormai formate una squadra pericolosa, il perno di un vero e proprio partito orizzontale o trasversale, come giurano i socialisti. Un partito avversario dell'asse fra la Dc e il Psi, e troppo amico del Pci di Achille Occhetto».

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Poi quel big della Balena Bianca mi regalò una profezia: «Prevedo che non durerete a lungo. Craxi ve l'ha giurata. Anche Andreotti e Forlani sono uomini che non dimenticano: vi faranno pagare il vostro appoggio a De Mita. Oggi vi sentite più forti dentro la Grande Mondadori. E certamente lo siete. Ma questa forza sarà il vostro limite. Non vi lasceranno campare. Ricordati che, dentro Segrate, Bettino ha un agente dormiente: Silvio Berlusconi. Per il momento è tranquillo. Ma quando gli verrà data la carica, si muoverà nella direzione giusta. Per questo sento tirare attorno a voi un'aria brutta, molto brutta».

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La sera di giovedì 30 novembre 1989 stavo a Milano. Mi telefonò Gianni Rocca per dirmi che Scalfari era molto preoccupato: a Segrate stavano accadendo cose molto gravi. Il venerdì 1° dicembre sul "Sole-24 Ore" comparve un neretto a una colonna, intitolato: "Segrate svolta". Nel testo si leggeva: "Si aspetta l'arrivo di un comunicato, con l'annuncio di un cedimento della famiglia Formenton alle avvolgenti lusinghe del gruppo Berlusconi".

Cominciò così la lunga guerra di Segrate. Certo, Caracciolo e Scalfari erano diventati miliardari. Ma si trovarono alle prese con il più grave conflitto della loro brillante esistenza. E per ironia della sorte si sarebbero salvati grazie a due uomini che consideravano abominevoli. Il presidente Giulio Andreotti e Giuseppe Ciarrapico, ritenuto meno di niente in quanto fascistone.

Del resto, anche Scalfari, in gioventù, era stato fascista. Caracciolo, invece, aveva fatto il partigiano. Ma a guerra conclusa con la spartizione fra l'Ingegnere e il Cavaliere, disse al comitato di redazione dell'"Espresso": «Se fossi in voi farei una colletta e ordinerei una lapide da mettere all'ingresso del giornale. Con la scritta: a Giuseppe Ciarrapico il Cdr riconoscente».

 

 

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