GRASS LA DISFATTA DEL FALSO MORALIZZATORE - SI PUÒ ESSERE UN GRANDE SCRITTORE E UN VIGLIACCO O UN MASCALZONE. L'INDEGNITÀ MORALE, LA MENZOGNA, NON È MAI STATA E NON DEVE ESSERE UN ARGOMENTO LETTERARIO.
Bernard Henry-Levy per il "Corriere della Sera" (traduzione di Jacqueline Malandra)
Sì, certo, si può essere un grande scrittore e un vigliacco o un mascalzone. Sì, certo, l'indegnità morale, la menzogna, non è mai stata e non deve essere un argomento letterario. Sì, certo, Céline. Sì, certo, Aragon. Sì, certo, solo i morti oppure gli asini non hanno nulla da nascondere. Sì, certo, i nani, gli gnomi immondi, le tarantole provano un piacere sadico nel picchiare sulla testa dei giganti e approfittare della minima occasione per riportarli a una dimensione umana. Nell'affare Grass, tuttavia, nello scandalo creato dalla confessione sensazionale del premio Nobel per la letteratura che racconta come, a diciassette anni, fosse entrato nelle Waffen SS, non è di questo che si tratta. E a tutti coloro che, compresi alcuni dei miei amici, da qualche giorno si levano in piedi per assumere la difesa del grande scrittore oppresso dal politically correct generale, vorrei dire che purtroppo combattono la battaglia sbagliata.
Il primo problema, con questa confessione, è che qui abbiamo un intellettuale - e dico proprio un intellettuale; dico e ripeto che qui non si tratta dello «scrittore che ha tutti i diritti» e che è «tanto più grande in quanto ha una parte maledetta e una zona d'ombra» - il primo problema, dunque, è che qui abbiamo un intellettuale che ha voluto essere ed è stato, in qualche modo, la coscienza della Germania.
Lo rivedo a Berlino, nel 1983, al compleanno di Willy Brandt. Lo sento, prima alla tribuna, poi seduto in mezzo a una piccola corte di amici e ammiratori, capello liscio e verbo aggressivo, occhiali dalla montatura ovale che lo facevano somigliare a Bertolt Brecht, con il faccione rugoso tremante di emozione, che esortava - e come aveva ragione! - i contemporanei dell'«altra Germania», quella buona, a guardare in faccia quel famoso «passato che non passava». Ed eccolo che, vent'anni dopo, ci fa sapere che era nell'esatta situazione di quegli uomini dalla memoria dimezzata, ossessionati da crimini tenuti nascosti, e che allora invitava, così virtuosamente, a mettersi in regola con i loro scopi reconditi. Postura, dunque. Impostura. Statua di sabbia. Commedia. Il Commendatore (nel Don Giovanni di Mozart, ndt) era un Tartufo. Il professore di morale era l'incarnazione stessa dell'immoralità che combatteva.
L'altro problema è che questa rivelazione funziona come un rivelatore, un proiettore gigante, un lampo di fari sinistro e prodigioso sull'intera biografia dell'autore del Tamburo di latta. Mi ricordo - ci ricordiamo - delle sue indulgenze verso Cuba. Del suo rilancio filosovietico al tempo in cui, come diceva François Mitterrand, i pacifisti erano a Ovest e i missili della morte a Est. Ci ricordiamo del modo in cui questo socialdemocratico - come, appunto, François Mitterrand - si attaccò fino alla fine, con un accanimento così misterioso, alla finzione criminale di una Germania orientale che bisognava preservare, diceva, dalla «colonizzazione» da parte della Repubblica federale tedesca e dell'America.
Ecco qui. Tutto qui. Sono dispiaciuto per John Irving, che continua ad «ammirare» questo «eroe», questa «figura morale», questo «esempio». Se Grass rimane un esempio, lo è di questa legge ferrea, mai o quasi mai smentita: l'amnesia è il destino; vi sono vuoti di memoria che sono buchi neri, abissi in cui il peggio viene travolto e precipita; una menzogna di questo calibro, una sola, anche ridotta a questo «dettaglio» che è un errore di gioventù - ed è come una radiazione oscura, un tumore, che invadono una vita e vi diffondono le loro metastasi.
E poi infine il problema è quello del momento scelto dallo scrittore per liberarsi dalla sua «vergogna». Personalmente non credo troppo all'immagine dell'autore senza scrupoli che si serve di una confessione molto scandalosa per lanciare meglio il suo libro sul mercato. Ma osservo che la memoria gli torna qualche giorno dopo che a Berlino, sui luoghi stessi dei Giochi Olimpici del 1936, si è disputata la finale dei Mondiali di calcio. Osservo che gli torna in una Germania in cui stranamente si è udita poco la protesta di quelli che hanno chiesto almeno di velare le statue di Arno Breker (lo scultore prediletto di Hitler, ndt),
che, settant'anni dopo, circondano ancora lo stadio. Ascolto la singolare dichiarazione di Martin Walser, l'uomo che si è messo in luce otto anni fa, dicendo che non ne poteva più di sentir parlare di Auschwitz e che adesso saluta la «lezione di morale» impartita da Günter Grass a fronte degli «usi normalizzati del pensiero e della parola». Senza parlare dell'affare Handke, poi di questa hezbollizzazione delle menti della quale ho trascorso l'estate, proprio qui, ad osservare i progressi in Germania come nel resto d'Europa. Annoto e ascolto tutto questo. E non posso non dire a me stesso, come Laurent Dispot nel suo testo La Règle du Jeu, che «Jankelevitch aveva ragione»; che vi è qualche cosa di marcio nel regno della lingua e della memoria in Germania; e che in questo clima di febbre fredda, di banalizzazione e flirt discreto con l'orrore, s'inserisce il crollo di quello che si considerava il bastione più solido contro il ritorno del nazismo rimosso.
Günter Grass, questo grosso pesce letterario, questo rombo congelato da sessant'anni di pose e di menzogne che, improvvisamente, si decompone al calore di una verità tardiva. Questo tipo di scongelamento ha un nome: è una disfatta.
Dagospia 25 Agosto 2006
Sì, certo, si può essere un grande scrittore e un vigliacco o un mascalzone. Sì, certo, l'indegnità morale, la menzogna, non è mai stata e non deve essere un argomento letterario. Sì, certo, Céline. Sì, certo, Aragon. Sì, certo, solo i morti oppure gli asini non hanno nulla da nascondere. Sì, certo, i nani, gli gnomi immondi, le tarantole provano un piacere sadico nel picchiare sulla testa dei giganti e approfittare della minima occasione per riportarli a una dimensione umana. Nell'affare Grass, tuttavia, nello scandalo creato dalla confessione sensazionale del premio Nobel per la letteratura che racconta come, a diciassette anni, fosse entrato nelle Waffen SS, non è di questo che si tratta. E a tutti coloro che, compresi alcuni dei miei amici, da qualche giorno si levano in piedi per assumere la difesa del grande scrittore oppresso dal politically correct generale, vorrei dire che purtroppo combattono la battaglia sbagliata.
Il primo problema, con questa confessione, è che qui abbiamo un intellettuale - e dico proprio un intellettuale; dico e ripeto che qui non si tratta dello «scrittore che ha tutti i diritti» e che è «tanto più grande in quanto ha una parte maledetta e una zona d'ombra» - il primo problema, dunque, è che qui abbiamo un intellettuale che ha voluto essere ed è stato, in qualche modo, la coscienza della Germania.
Lo rivedo a Berlino, nel 1983, al compleanno di Willy Brandt. Lo sento, prima alla tribuna, poi seduto in mezzo a una piccola corte di amici e ammiratori, capello liscio e verbo aggressivo, occhiali dalla montatura ovale che lo facevano somigliare a Bertolt Brecht, con il faccione rugoso tremante di emozione, che esortava - e come aveva ragione! - i contemporanei dell'«altra Germania», quella buona, a guardare in faccia quel famoso «passato che non passava». Ed eccolo che, vent'anni dopo, ci fa sapere che era nell'esatta situazione di quegli uomini dalla memoria dimezzata, ossessionati da crimini tenuti nascosti, e che allora invitava, così virtuosamente, a mettersi in regola con i loro scopi reconditi. Postura, dunque. Impostura. Statua di sabbia. Commedia. Il Commendatore (nel Don Giovanni di Mozart, ndt) era un Tartufo. Il professore di morale era l'incarnazione stessa dell'immoralità che combatteva.
L'altro problema è che questa rivelazione funziona come un rivelatore, un proiettore gigante, un lampo di fari sinistro e prodigioso sull'intera biografia dell'autore del Tamburo di latta. Mi ricordo - ci ricordiamo - delle sue indulgenze verso Cuba. Del suo rilancio filosovietico al tempo in cui, come diceva François Mitterrand, i pacifisti erano a Ovest e i missili della morte a Est. Ci ricordiamo del modo in cui questo socialdemocratico - come, appunto, François Mitterrand - si attaccò fino alla fine, con un accanimento così misterioso, alla finzione criminale di una Germania orientale che bisognava preservare, diceva, dalla «colonizzazione» da parte della Repubblica federale tedesca e dell'America.
Ecco qui. Tutto qui. Sono dispiaciuto per John Irving, che continua ad «ammirare» questo «eroe», questa «figura morale», questo «esempio». Se Grass rimane un esempio, lo è di questa legge ferrea, mai o quasi mai smentita: l'amnesia è il destino; vi sono vuoti di memoria che sono buchi neri, abissi in cui il peggio viene travolto e precipita; una menzogna di questo calibro, una sola, anche ridotta a questo «dettaglio» che è un errore di gioventù - ed è come una radiazione oscura, un tumore, che invadono una vita e vi diffondono le loro metastasi.
E poi infine il problema è quello del momento scelto dallo scrittore per liberarsi dalla sua «vergogna». Personalmente non credo troppo all'immagine dell'autore senza scrupoli che si serve di una confessione molto scandalosa per lanciare meglio il suo libro sul mercato. Ma osservo che la memoria gli torna qualche giorno dopo che a Berlino, sui luoghi stessi dei Giochi Olimpici del 1936, si è disputata la finale dei Mondiali di calcio. Osservo che gli torna in una Germania in cui stranamente si è udita poco la protesta di quelli che hanno chiesto almeno di velare le statue di Arno Breker (lo scultore prediletto di Hitler, ndt),
che, settant'anni dopo, circondano ancora lo stadio. Ascolto la singolare dichiarazione di Martin Walser, l'uomo che si è messo in luce otto anni fa, dicendo che non ne poteva più di sentir parlare di Auschwitz e che adesso saluta la «lezione di morale» impartita da Günter Grass a fronte degli «usi normalizzati del pensiero e della parola». Senza parlare dell'affare Handke, poi di questa hezbollizzazione delle menti della quale ho trascorso l'estate, proprio qui, ad osservare i progressi in Germania come nel resto d'Europa. Annoto e ascolto tutto questo. E non posso non dire a me stesso, come Laurent Dispot nel suo testo La Règle du Jeu, che «Jankelevitch aveva ragione»; che vi è qualche cosa di marcio nel regno della lingua e della memoria in Germania; e che in questo clima di febbre fredda, di banalizzazione e flirt discreto con l'orrore, s'inserisce il crollo di quello che si considerava il bastione più solido contro il ritorno del nazismo rimosso.
Günter Grass, questo grosso pesce letterario, questo rombo congelato da sessant'anni di pose e di menzogne che, improvvisamente, si decompone al calore di una verità tardiva. Questo tipo di scongelamento ha un nome: è una disfatta.
Dagospia 25 Agosto 2006