IL CINEMA DEI GIUSTI - HO VISTO, SU SKY, IL RICCO DOCUMENTARIO “SERGIO LEONE – L’ITALIANO CHE INVENTÒ L’AMERICA” DIRETTO DA FRANCESCO ZIPPEL, CHE LA STESSA LEONE FILM, CIOÈ I FIGLI, HANNO DEDICATO ALL’OPERA DEL PADRE - RIMANE UN MISTERO IL PERCHÉ NON SIA STATO INSERITO TRA I DIECI DOCUMENTARI ITALIANI FINALISTI AI DAVID. PROVO A INDOVINARE? TROPPO OVVIO, TROPPO GIÀ VISTO. MAGARI IL FILM NON È PROPRIO PIACIUTO. PERCHÉ? TROPPO FATTO IN FAMIGLIA. OGNUNO FA IL SUO DOCUMENTARIO. SI SA… - VIDEO

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Marco Giusti per Dagospia

 

sergio leone l italiano che invento l america 5 sergio leone l italiano che invento l america 5

Ho finalmente visto, su Sky, il ricco documentario dedicato a Sergio Leone, “Sergio Leone – L’italiano che inventò l’America” diretto da Francesco Zippel, che la Stessa Leone Film, cioè i figli, hanno dedicato all’opera del padre. Con una schiera di apparizioni celebri da far paura, da Tarantino a Spielberg, da Scorse a Chazelle, da Tornatore a Verdone, da Tsui Hark a Dario Argento, da Sir Christopher Frayling a Clint Eastwood. Rimane francamente un mistero il perché non sia stato inserito tra i dieci documentari italiani finalisti ai David, senza per questo togliere nulla ai film nominati.

sergio leone l italiano che invento l america 4 sergio leone l italiano che invento l america 4

 

Provo a indovinare? Troppo ovvio, troppo già visto, chissà? E se i giurati che scelgono i documentari ai David, presieduti da Piera Detassis, sono stati disattenti o poco interessati al film su Sergio Leone, neanche un attimo dopo ci ha pensato Laura Delli Colli, nipote di Tonino Delli Colli, occhio e amico fraterno di Sergio, a sistemare le cose offrendo un Nastro d’Argento come Documentario dell’Anno al film senza aver bisogno di nessuna votazione. Un risarcimento immediato a coprire una, chiamiamola, forte dimenticanza.

 

quentin tarantino sergio leone l italiano che invento l america quentin tarantino sergio leone l italiano che invento l america

Oppure…  magari il film non è proprio piaciuto. Perché? Troppo fatto in famiglia, diciamo agiografico, non una novità? Non resta che guardarlo. Anche se non ha la forza maniacale del film di Tornatore su Morricone, anche se il tema Leone è stato studiato da tanti documentari negli anni e i testimoni rimasti sono sempre di meno, devo dire che gran parte di quello che dicono soprattutto Tarantino e Scorsese, Frayling e Morricone, incredibilmente, aggiungono ancora ulteriore interesse all’opera di Leone. Sempre nuovi sguardi.

 

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Al punto che avrei davvero voluto vedere un documentario tutto con Tarantino che parla di Leone, come il “Django e Django” di Luca Rea, o con Scorsese o Frayling che parlano di Leone. Anche se, da studioso e da televisivo, Stracult ha dedicato molti speciali a Leone, mi mancano in questo sontuoso documentario le storie più mitizzate dei film di Leone. Il suicidio sul set di Al Mulloch, i racconti di Mario Brega sulla fame sul primo film, il montaggio di “Il buono, il brutto, il cattivo” con Eugenio Alabiso, il primo giorno sul set di “Per un pugno di dollari” raccontato da Sergio D’Offizi.

 

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Mi manca Giancarlo Soldi e la spiegazione del perché Leone si fece crescere anche lui la barba. Lo so che sono troppe storie da mettere assieme, ma certo trovo un po’ strano che non venga nominato nemmeno una volta Gian Maria Volonté, che per noi ragazzini al tempo, era importante quasi come Clint Eastwood, o non si sia cercata una vecchia intervista a Lee Van Cleef o a Henry Fonda. Mi ricordo che andai fino nella Murcia per intervistare Margarita Lozano. Ognuno fa il suo documentario. Si sa.

 

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E credo che la famiglia Leone e Zippel abbiano voluto fare qualcosa di definitivo su Sergio Leone che lo riportasse alla sua grandezza internazionale. Un percorso critico, che partì dai critici inglesi, come Christopher Frayling e francesi come Sylvie Pierre sui Cahiers, e toccò poi i registi della generazione di Tarantino costruendo tutto un nuovo mito del cinema di Leone. Escludendo gli italiani.

 

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Perché Leone, non solo quando uscirono i primi film negli anni ’60, ma anche negli anni successivi, non è mai stato amato dalla critica italiana, diciamo fino a Tullio Kezich, che ha sinceramente odiato i suoi western con coerenza fino alla fine, amando, come tutti quelli della sua e della generazione soprattutto John Ford (e questa spiega il rovesciamento critico di Tarantino, che odia i film di Ford), nemmeno da Goffredo Fofi, che scrisse che i film western all’italiana, tutti, sono della “merda” su Positif, nemmeno da Ghezzi, che detestava solo il fatto che Leone si potesse paragonare a Ford, ma nemmeno dai nostri cineasti intellettuali.

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Solo grazie alla presenza di Bertolucci e Argento come soggettisti di “C’era una volta il west” l’atteggiamento si modificò un po’. Ma Leone era visto come una sorta di enormità, assurdità italiana. Ford, si disse da subito, è un’altra cosa. A un certo punto pure di vacca da mungere per un cinema che pensava più alto. I registi di punta erano altri, da Luchino Visconti a Gillo Pontecorvo, che non volle confondersi col genere.

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Mentre Pasolini capisce l’importanza degli spaghetti western e si butta nel genere come attore. Credo che ancora oggi, passati cinquant’anni, il problema tra cinema popolare e cinema alto, da festival, rimanga. Assurdamente. I fratelli Leone chiamano i più grandi registi del mondo a celebrare il padre e da noi si rimane indifferenti a tanto sforzo. E Leone oggi, magari, ci sembra troppo visto.

 

sergio leone 1 sergio leone 1

Tanti anni fa, quando uscì “per un pugno di dollari”, gli spettatori fiorentini e tra loro un giovane Carlo Monni andare al cinema a fine agosto a vedere il film. Il primo giorno, al primo spettacolo. A Carlo piacque così tanto che rimase inchiodato in sala e se lo rivide fino a imparare le frase più celebri a memoria. “Al mio mulo non piace che si rida, perché pensa che si rida di lui…”. Ecco. Senza bisogno di scomodare i critici, i premi, Ford e Tarantino, Carlo Monni aveva capito da subito, e noi allora con lui, come lui, la forza dei film di Sergio Leone. Una forza popolare. Impossibile da battere. Che ce ne facciamo dei premi?

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