“FARE LA SEX WORKER È STATA UNA VENDETTA VERSO GLI UOMINI CHE HANNO LA TENDENZA A TRATTARE LE DONNE COME PROSTITUTE ANCHE SE NON LE PAGANO” – LA SCRITTRICE EMMA BECKER RACCONTA NEL LIBRO “LA MAISON” I SUOI DUE ANNI DA PROSTITUTA IN UN BORDELLO A BERLINO: “LA PRIMA VOLTA? A 20 ANNI. UN RAGAZZO MI HA DATO 500 EURO PER AVERE UN ORGASMO. COMA MI CHIEDEVANO I CLIENTI? GLI UOMINI VOGLIONO SOPRATTUTTO IL..."

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Luca Mastrantonio per "www.corriere.it"

 

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Emma Becker è una scrittrice francese, vive con il compagno e la prole a Berlino, dove per due anni ha lavorato in una casa di tolleranza. Ne ha tratto un libro che in Francia ha scalato le classifiche scaldando gli animi di lettori e lettrici, tra critici maschi entusiasti e femministe indignate. Non tutti sono disposti, né disposte, a comprendere le sfumature.

 

Anche linguistiche, per i termini usati da Becker nel romanzo e in questa conversazione, dallo sprezzante “puttana” al neutro “sex worker”, anglismo professionale da “lavoratrice del sesso”; passando per l’etimologico “prostituta”, che a testimonianza dell’antichità di questo mestiere viene dal latino “prostare” (da cui “postribolo”), cioè stare davanti, mettersi in mostra. 

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La Maison, pubblicato in Italia da Longanesi, non è un’apologia della prostituzione, ma del bordello dove l’autrice ha lavorato felice; non è nemmeno una denuncia della prostituzione, ma solo di quella che ha visto praticata per strada e in un bordello borderline. Deluderà i fanatici del moralismo e del libertinaggio, ma piacerà sicuramente a chi ama la letteratura che indaga la realtà, aprendo gli occhi ai lettori e il cuore ai personaggi.

 

Si tratta di un romanzo fortemente autobiografico, dove l’autrice, che si firma Emma Becker (pseudonimo ispirato al cognome della nonna tedesca Pennecker) e si chiama Emma Durand, ha cambiato giusto i nomi di persone e bordelli.

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Il libro mescola la cronaca, con fatti e descrizioni, e la letteratura, con introspezione e fantasie. Due sguardi che in parte coincidono con i bordelli raccontati: il primo, infernale, il secondo, più umano, felice.

 

«Ho lavorato in due case molto diverse. La prima, che ho chiamato La Giostra, era triste, le ragazze venivano dall’Est, dubitavo spesso che volessero fare quel lavoro, forse erano state fatte loro delle false promesse. In quel posto mi sono sentita come una giornalista, non riuscivo a identificarmi con loro, descrivevo e basta. Poi nella seconda, La Casa, era tutto diverso, forse perché non comandavano gli uomini, ma una donna, un’ex prostituta».

 

Perché si trasferì da Parigi a Berlino?

«I miei genitori stavano divorziando, io e mia sorella ci siamo trasferite insieme a Berlino. Fu una sorpresa, per lo stile di vita, le feste, la libertà sessuale. Al KitKatClub credevo di essere nell’Antica Roma! C’erano grassi, vecchi, brutti, giovani, belli, persone in sedia a rotelle... Una decadenza fantastica. Il “vivi e lascia vivere” di Berlino ti fa capire che lì ha senso la prostituzione legale».

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Poi sceglie di lavorare in un bordello.

«Dopo qualche mese dovevo trovarmi un lavoro: ancora la cameriera? La fiorista? I miei genitori non erano con me, sentivo di non dovermi giusfiticare su come guadagnavo, così ho provato».

 

Qual è stato il vero primo cliente? Il canadese imbranato del romanzo?

«Il mio primo cliente in assoluto?».

Non so quanti “primi clienti” si possono avere. Qual è stata la prima volta che ha fatto sesso per soldi?

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«Avevo 20 anni, ero in Francia, dove la prostituzione è illegale, ed è vero che puoi fare un sacco di soldi però devi essere pronta a prendere un rischio maggiore perché non c’è nessuno a proteggerti o non puoi andare dalla polizia a lamentarti. Sono stata un’ora con un ragazzo e quando sono uscita dalla camera avevo 500 euro da spendere, perché non avevo affitti da pagare, vivevo con i miei nonni. Le persone dicono spesso sia una fantasia femminile comune, per me no. Vero è che un rapporto occasionale può deludere, io ho provato un orgasmo: 500 euro per avere un orgasmo! Non male, mi dissi».

 

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Quali erano i prezzi nel bordello?

«Guadagnavo 80 euro all’ora. Per questo alcune colleghe hanno detto: “Lei è a buon mercato, non ha bisogno di soldi, lei va lì solo perché vuole scrivere un libro”. Sì, nei mesi migliori puoi arrivare a 2 o 3mila euro. E comunque nel bordello mi veniva dato il 55% dei miei soldi, il resto andava alla casa. Come scrittrice invece puoi arrivare al 10, 12% dei ricavati e devi lavorare di più».

 

Il libro insiste sulla differenza tra “fare la prostituta” e “sentirsi una prostituta”. Non dipende dal luogo, ma da quello che sentono le donne e da come si comportano gli uomini.

«Cosa significa sentirsi una prostituta? In Francia, Paese come l’Italia, abbiamo libri e quadri che descrivono le prostitute in modo romantico e idealizzato. Non vittime, ma donne che avevano il potere su uomini ricchi e potenti perché erano furbe, erano donne! Però poi il giudizio morale sull’industria del sesso è una condanna giudaico-cristiana. Per la mia formazione, io, come penso le altre donne, non voglio sentirmi una prostituta, cioè un fazzoletto che gli uomini usano e buttano via. E c’è questo paradosso: si insulta una donna come “puttana” non perché chiede soldi, ma per dire che è una donna perduta, che non merita considerazione.

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Quando sono diventata una professionista del sesso ne ero fiera perché sentivo il potere che avevo letto nei libri, ho provato una specie di vendetta verso gli uomini che hanno la tendenza a trattare le donne come prostitute anche se non le pagano. Ecco: prendere uno stipendio per prestazioni che facevo gratuitamente a uomini che non sapevano nemmeno cosa cercasser è un’esperienza di empowerment per me. Sentirmi come una prostituta in quel periodo non era umiliante, non mi faceva sentire meno donna. Mi faceva sentire più donna, un simbolo, per alcune donne».

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Lei scrive: “Verrà il giorno in cui saremo a corto di argomenti contro il concetto di puttana felice. Già è arrivato, e oltre gli argomenti ormai superati c’è solo una paradossale invidia sotto mentite spoglie”.

«Io mi pagavo la libertà di fare quello che mi piaceva, cioè scrivere libri: avevo 25 anni, ero libera, non avevo figli, c’erano giorni in cui pensavo che nessun altro mi avrebbe dato una possibilità migliore. Avevo fatto la cameriera, venduto fiori... questo tipo di lavoro era molto più intrigante: non c’era mai un giorno uguale all’altro, non hai mai lo stesso cliente, non sai mai come sarà la tua giornata e per me questo è stato un periodo molto interessante della mia vita. Per questo ho avuto, potrei dire, l’audacia di parlare di cosa sia una prostituta felice. Certo le ragazze che lo fanno per 10 o 20 anni non credo abbiano la stessa disposizione d’animo».

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Lei racconta anche incontri spiacevoli, con clienti violenti; e altri divertenti, piccole rivincite, come la costosa ripetizione di sesso orale ricevuto da un cliente imbranato.

«Facevo perlopiù “sesso da matrimonio”. Ero sorpresa all’inizio, perché io avevo letto i libri del Marchese de Sade, pensavo di incontrare ragazzi con richieste assurde... e invece gli uomini vogliono sesso basico con una donna che non è la loro. E c’erano un sacco di ragazzi che non lo avevano mai fatto prima, da “iniziare”. C’erano anche quelli un po’ strambi, ma il menù fisso era la posizione del missionario e parlare di lavoro, mogli... Ero l’amante di uomini sposati, a pagamento».

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Una recita. Che logora...

«Dopo un po’ che si fa questo lavoro, parlo per me, cominci a desiderare qualcosa che sia autentico, qualcosa per cui non vieni pagata. Qualcosa che abbia un significato. Reciti giorno dopo giorno, il tuo lavoro è far finta di essere l’amante, felice quando ti vengono a trovare, quando a te in realtà non interessa, a te interessano i soldi che riceverai, come a qualsiasi persona che lavora. E alla fine la recita diventa realtà. Non so, una parte di me stava appassendo, avevo bisogno di una relazione vera».

 

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Quando ha conosciuto il suo compagno, lavorava già nella casa?

«Sì. Era amico del fidanzato di mia sorella. Gli ho detto che non avrei smesso di lavorare solo perché stavamo insieme e lui ha capito; mi ha sempre supportato ed è stato molto orgoglioso dell’uscita del libro. Questi uomini rari, come diciamo in francese, non si trovano sotto lo zoccolo di un cavallo».

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Le femministe in Francia hanno duramente attaccato il libro.

«Perché non descrive la prostituzione come una schiavitù, ma come libera scelta. Certe femministe non lo accettano, considerano le prostitute vittime di un lavaggio del cervello fatto dagli uomini e dal patriarcato, e in quanto vittime non possono decidere sulla propria situazione. Alcune femministe hanno scritto che ero stata abusata da piccola ed era per questo che pensavo che fosse uno strumento di self-empowerment.

 

Non si vergognavano di mentire, buttarmi fango addosso... Ho cercato di confrontare i punti di vista, ma non c’è modo. Loro hanno sempre ragione e tu hai sempre torto: una sex worker per quelle femministe è come un eterno bambino che non ha potere di decidere nulla. Io sono una femminista intersezionale: se le donne vogliono fare una cosa devono poterla fare, fare le lavoratrici del sesso o mettersi il velo».

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Ha avuto anche recensioni da chi fa questo lavoro?

«Sì, e devo dire che anche se non è illegale in Germania c’è chi chiede maggiori diritti e tutele. Da loro ho avuto critiche interessanti. Mi dicevano, ma in che veste scrivi? Da sex worker o sei una scrittrice che ha fatto un’esperienza e stai cercando in un certo senso di rubarci le voci? Per me era la stessa cosa: ero un’operatrice del sesso, ma scrivere è il mio lavoro».

 

Il libro ha avuto anche un’ ottima accoglienza presso la critica.

«Per molti scrittori uomini famosi era intrigante vedere una giovane donna che ha deciso di fare la sex worker e scriverne, per alcuni c’era una autoconferma, gli piaceva andare con le prostitute e pagare le donne».

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In famiglia com ‘è stato preso? Da suo padre, sua madre...

«Mio padre, quando ne abbiamo parlato, non aveva niente contro il sex work in sé, ma credo sia difficile per un padre immaginare la propria figlia così. Il che è già problematico se ci si pensa, perché non è che una figlia appartenga al padre. Le donne in famiglia capivano chiaramente di cosa stessi parlando. Non solo di sex work, ma delle relazioni tra gli uomini e le donne in quel mondo.

 

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Mia nonna è stata sposata per 50 anni, capiva cosa intendessi con “prestazioni sessuali” gratuite, fare sesso con il proprio marito perché lo vuoi vedere contento e vuoi ci sia una bella atmosfera in casa... Com’è che non viene chiamata prostituzione? Penso che la prostituzione abbia molte forme. La mia è soltanto una abbastanza onesta e diretta».

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