“NON SO DOVE SIA ANDATO A FINIRE IL BUONGUSTO” – DOPO L’ADDIO A GUCCI, FRIDA GIANNINI SPARA A ZERO SULLE “CARNEVALATE” NELLA MODA: “NON SE NE PUÒ PIÙ DI LOGHI, COLLABORAZIONI, SONO SOLO FENOMENI DI MARKETING. ESATTAMENTE COME LO È SCEGLIERE UN DIRETTORE CREATIVO SOLO PER I FOLLOWER. PRIMA I PAPARAZZI FOTOGRAFAVANO LE CELEBRITY, ORA LA GENTE SI ACCONCIA SOLO PER FARSI VEDERE” - NON SARÀ MICA UNA STOCCATA AD ALESSANDRO MICHELE? AH, NON SAPERLO…

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Anna Franco per “Il Messaggero”

 

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Testarda, volitiva, attenta ai dettagli e incapace per natura di venire a patti con le sue convinzioni. Frida Giannini, 49 anni, è così. E, forse, anche per questo è stata il più longevo direttore creativo di Gucci. «Dieci anni è un record che nessuno ha mai raggiunto - sorride - Entrai lì nel 2001 come responsabile degli accessori. Mi volle Tom Ford». Col quale Frida litigò per introdurre il famoso motivo Flora: «Lui non lo voleva, ma fu un successo». «Una scuola pazzesca, prima, è stata Fendi, perché in quegli anni cambiò più volte proprietà. Non c'era ancora il marketing e noi creativi ci occupavamo pure dei prezzi, lavoravo con Maria Grazia Chiuri».

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Non le mancano i riflettori?

«Il primo anno dopo l'improvviso addio a Gucci è stato difficile da gestire. Mi ero immedesimata con quell'azienda».

 

Non l'ha chiamata nessuno?

«Sto facendo collaborazioni che mi hanno ridato l'entusiasmo per questo lavoro dopo il disgusto. Mi hanno contattata in tanti, ma non mi hanno convinta. Anche i marchi silenti, che hanno un nome e che sarebbe bello far rinascere. Sto lavorando a un progetto per uno di questi. Ma un direttore creativo non può risolvere tutti i problemi: un'azienda che vuole rinnovarsi deve avere le idee chiare e la volontà di stare al passo coi tempi. Io adoro tuffarmi negli archivi e riportarli in vita, ma mi sono capitate situazioni in cui gli archivi erano proprietà di altri. O, peggio, c'era così poca organizzazione che tutti si occupavano un po' di tutto e questo, mi passi il termine, genera solo casino. E, poi, ho bisogno di sentire le farfalle nello stomaco».

 

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Per chi potrebbe sentirle?

«Ho standard alti. Lo so e me lo hanno anche detto. Mi annoierei a occuparmi di un solo settore merceologico. Nella mia testa ho già una collezione e mi piacerebbe applicarla a un brand italiano da rilanciare. Abbiamo delle manifatture meravigliose, ma tanti appiccicano la targhetta del Made in Italy e poi producono chissà dove. Questa cosa mi manda in bestia, perché, allora, non sei più lusso, ma sei Zara o H&M».

 

Chi stima?

«Dolce&Gabbana, che continuano a fare un prodotto di altissimo livello e stanno puntando sempre più sul lusso. E, poi, c'è Maria Grazia da Dior, che ha rinfrescato un marchio storico e che rende le donne belle. Io quando ho un'occasione mi vesto da lei».

 

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Quindi, è contro l'attuale estetica della bruttezza?

«Non è stato inventato nulla. Ne parlava già il filosofo Karl Rosenkranz a metà Ottocento. Mi spaventano questi casting dove sembra che i modelli abbiano una qualche malattia. Ma non se ne può più nemmeno delle collaborazioni, che sono solo fenomeni di marketing. Esattamente come lo è scegliere un direttore creativo solo per i follower. Un tempo fuori delle sfilate i paparazzi erano lì per le celebrity, adesso fotografano gente che si acconcia solo per farsi vedere».

 

Le piacciono gli influencer?

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«Credo siano necessari. Basti vedere come è balzato in borsa Tod's una volta che nel cda è entrata la Ferragni. Arrivano a tante persone e senza la comunicazione digitale non si può stare. Però, se si produce lusso si dovrebbe venderlo su piattaforme ad hoc, come Farftech o Net-a-porter, non su Alibaba, che è cheap. Bisogna scegliere dove dirigersi».

 

Ha parlato della Chiuri. C'è chi l'accusa di essere molto orientata al marketing.

«Tutti creiamo per vendere. Lei ha reso desiderabile tutto il mondo Dior. E non è facile raggiungere certe posizioni, tanto più per una donna. Nella moda ai vertici ci sono tutti uomini, si tratta di una lobby fortissima».

 

Dopo Gucci gli amici le hanno voltato le spalle?

«Quelli veri no. Ovviamente c'era chi prima gettava petali al mio passaggio e improvvisamente mi ha cancellato dalla rubrica».

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C'è la corsa ad accaparrarsi i millennial. Ha senso?

«Si pensa di fidelizzare un cliente fin da giovane. È una stupidaggine, perché i ragazzi sono volubili. Così le veri clienti fisse, quelle dai trent'anni in su, si ritrovano a non riconoscersi più in un brand e vanno altrove. Anche dei loghi non se ne può più. La gente ha voglia di cose belle. Adesso sembra sempre Carnevale, non so dove sia andato a finire il buongusto».

 

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Altre passioni oltre alla moda?

«La musica. Ho la mia stanza in casa con tanti lp che devo assolutamente catalogare. E, poi, l'attività di beneficenza con Save the Children. Col sociale collaboro fin dal 2005. Non solo raccolgo fondi, ma controllo che tutto vada a buon fine. Quest'anno per i 100 anni della onlus ci occupiamo della dispersione scolastica in Italia, un fenomeno assai frequente nelle nostre periferie più degradate. Ogni bambino ha diritto all'istruzione. Purtroppo gli evasori, ladri che dovrebbero stare in carcere, sottraggono risorse alla scuola e alla sanità. E i meno fortunati ne pagano le conseguenze».

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