IL SOLITO CLAN CLAN – A NAPOLI UN BLITZ DI CARABINIERI E POLIZIA HA PORTATO ALL’ARRESTO DI VERTICI E AFFILIATI DEI CLAN DE LUCA-BOSSA, MINICHINI, CASELLA E SCHISA – GLI INVESTIGATORI HANNO FATTO LUCE SU UNA SERIE DI MINACCE E VIOLENZE NEI CONFRONTI DI UN COLLABORATORE DI GIUSTIZIA PER COSTRINGERLO A RITRATTARE - LA VITTIMA HA RACCONTATO DI AVER FATTO UN “PATTO SANGUE” CON UNO DEGLI ARRESTATI: “SE MI FOSSI PENTITO IO, LUI AVREBBE UCCISO MIA SORELLA. SE SI FOSSE PENTITO LUI, IO GLI AVREI UCCISO LA SORELLA”

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Da www.lastampa.it

 

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Le indagini che hanno consentito oggi ai Carabinieri e alla Polizia di Stato di sgominare il clan "De Luca Bossa - Minichini - Schisa - Casella" hanno anche fatto luce su una serie di episodi caratterizzati da minacce e violenze nei confronti di un collaboratore di giustizia e la sua famiglia per costringerlo a ritrattare.

 

La vittima, il detenuto Tommaso Schisa, insieme con la sua famiglia, ha subìto tra settembre e novembre 2019 minacce, violenze, furti e danneggiamenti in abitazione. Il clan, pur di raggiungere il suo obiettivo non si è fermato neppure davanti alla sua famiglia. Di queste azioni violente sono accusati sette indagati ritenuti dagli investigatori legati al clan.

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Le famiglie malavitose Minichini, De Luca Bossa, Schisa, Aprea, Casella sono risultate attive nella parte orientale di Napoli (Ponticelli, Barra e San Giovanni a Teduccio), in alcune zone del centro storico (Porta Nolana, Piazza Mercato), nel comune di Massa di Somma (Napoli), con collegamenti nel comune di Marigliano (Napoli).

 

Altri sei destinatari delle misure cautelari invece sono, ritenuti affiliati al clan "De Luca Bossa - Minichini", sono accusati di una plateale «stesa» avvenuta la notte del 19 marzo 2019 nella centralissima Piazza Trieste e Trento di Napoli, durante la quale sono stati sparati numerosi colpi di arma da fuoco contro diverse attività commerciali. Un raid scattato in risposta a un acceso contrasto avvenuto nei giorni precedenti con esponenti del clan "Mariano" dei Quartieri Spagnoli. La «stesa» in sostanza è stata frutto della contrapposizione armata tra i due gruppi camorristici per il controllo delle attività illecite dell'area orientale di Napoli.

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Nel 2015 aveva stipulato un patto di sangue Tommaso Schisa, collaboratore di giustizia finito nel mirino del suo clan per essersi pentito: è lui stesso a riferirlo agli inquirenti, l'11 novembre 2019. La circostanza emerge dall'ordinanza con la quale oggi il gip di Napoli ha disposto 66 misure cautelari nei confronti di altrettanti indagati ritenuti appartenenti al clan De Luca Bossa, Casella, Minichini, Rinaldi e Reale.

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«Io e Michele Minichini (destinatario oggi di una misura cautelare in carcere ed elemento di spicco dell'omonima famiglia malavitosa) abbiamo fatto un patto di sangue. I termini erano questi: se mi fossi pentito io, egli avrebbe ucciso mia sorella. Se si fosse pentito lui, io gli avrei ucciso la sorella».

 

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Quando la notizia del «pentimento» iniziò a diffondersi la sua famiglia venne presa di mira dal clan per impedirgli di fare rivelazioni: la sua abitazione venne subito selvaggiamente razziata. Poi venne avvicinato in carcere da un altro detenuto, un «lavorante», che gli aveva passato «l'imbasciata» (il messaggio) di ritrattare. Schisa finse di accettare ma poi rivelò tutto alla polizia penitenziaria. Ne seguirono una serie di azioni violente ai danni della sua famiglia.

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La moglie, la notte tra il 13 e 14 ottobre 2019, denunciò ai carabinieri di essere stata minacciata da un gruppo di donne parenti del marito (appartenenti al gruppo delle «pazzignane») che l'accusavano di essere l'artefice del pentimento dell'uomo. Malgrado respingesse con forza l'affermazione, una delle donne replicò dicendo che «ti meriti di finire in un pilastro di cemento» e poi «non preoccuparti, ci vediamo tutti domani mattina e ti ammazziamo».

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