L’EFFETTO PLACEBO NON È UN EFFETTO PATACCA – UNA FINTA PILLOLA NON CURA MA APPAGA, LAVORANDO SU SINTOMI MODULATI DAL CERVELLO: È IN GRADO DI REGOLARE LA PRESSIONE, CALMARE IL BATTITO CARDIACO, TRATTARE L'INSONNIA E ALLEVIARE IL DOLORE – IL FUNZIONAMENTO RIMANE UN MISTERO, MA OCCHIO PERCHÉ È L'INTERO RITUALE AD ATTENUARE LA PERCEZIONE DEL MALANNO: IL PAZIENTE DEVE ANDARE IN CLINICA, FARSI ESAMINARE E…

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Matteo Grittani per “la Repubblica – Salute”

 

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Nel 1996 un gruppo di 56 studenti di Psicologia dell'università del Connecticut prese parte a uno studio per testare un antidolorifico rivoluzionario: il Trivaricane. Gli sperimentatori accolsero i ragazzi con tanto di camice, applicarono a ognuno la nuova pomata su uno dei loro indici lasciando l'altro libero e poi esercitarono su entrambe le dita una lieve pressione con piccole pinzette. Tutti i ragazzi riportarono meno dolore sull'indice trattato: il Trivaricane sembrava promettere bene.

 

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Nulla di strano, se non che il potente farmaco altro non era che un intruglio a base di iodio, acqua e olio di timo senza alcuna azione analgesica. A ingannare il gruppo di futuri psicoterapeuti fu uno dei meccanismi neurobiologici meno compresi della medicina: l'effetto placebo. Il meccanismo è noto alme-no dalla fine del '700, quando il medico britannico John Haygarth scoprì di poter curare i sintomi dei suoi pazienti con finti medicamenti.

 

Un placebo non abbassa il colesterolo, non ferma le metastasi, ma appaga (placebo è "piacerò", dal latino piacere), cura lavorando su sintomi modulati dal cervello; è in grado di regolare la pressione, calmare il battito cardiaco, trattare l'insonnia e soprattutto alleviare il dolore.

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Come agisca è ancora oggi poco chiaro: «È come se il cervello suggerisse al corpo di sentirsi meglio», spiega Ted Kaptchuk, direttore del programma Placebo Studies alla Harvard Medical School. Ma non basta una pillola identica a quelle vere per renderlo efficace: il paziente deve andare in clinica, farsi esaminare dal medico e quindi ricevere la "medicina". Insomma, è l'intero rituale ad attenuare la percezione del malanno.

 

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Ma è tutto merito dell'immaginazione, o ci sono anche cause fisiologiche? Responsabile del fenomeno sarebbe una complessa serie di reazioni che vanno dall'incremento dei livelli di endorfine e dopamina - i neurotrasmettitori "del buonumore" - al mutamento dell'attività celebrale in alcune aree dell'en-cefalo. Quali? I neuroscienziati Ulrike Bingel e Tor Wager sono riusciti a circoscrivere il meccanismo a due zone in particolare: il talamo e i gangli della base.

 

I ricercatori hanno "fotografato" il metabolismo cerebrale di 600 individui, mappando le aree del cervello che si attivano con l'effetto placebo. I risultati dell'analisi pubblicata sulle pagine di Nature Communication dimostrano che i trattamenti placebo riducono l'attività nella corteccia insulare posteriore, un'area tanto sconosciuta quanto cruciale perché "crea" le informazioni del dolore e le invia all'amigdala.

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«L'idea del dolore è costruita dal cervello in zone coin-volte nella motivazione e nei processi decisionali», precisa Wager. «Grazie a queste anali-si - sostiene Bingel - sarà possi-bile sfruttare meglio i benefici dell'effetto placebo, anche se c'è ancora molto lavoro da fare». Nonostante un grado di cono-scenza del corpo umano mai così accurato, rimangono oggi (quasi) intatti il fascino e l'insondabilità del suo organo più complesso.

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