
Maurizio Tortorella per Panorama, in edicola domani
"Carlo Caracciolo era un vero amico: fosse ancora vivo, non avrebbe mai permesso che si pubblicassero tutte ‘ste calunnie». Giuseppe Ciarrapico è infuriato per la paginata di Repubblica, che il 19 luglio ha annunciato una richiesta di rinvio a giudizio contro di lui per una presunta truffa da 45 milioni sui contributi all'editoria.
«Ma stiamo scherzando?» protesta il senatore del Pdl. «È una vera montatura! Sono stato indagato per mesi e mesi, non m'hanno nemmeno interrogato. Non ne so nulla, nessuno finora ha mai chiesto il rinvio a giudizio. Li querelo». Poi è Ciarrapico che scherza: «Forse avevano saputo che lei voleva intervistarmi sul lodo Mondadori. E hanno agito preventivamente».
Andiamo al lodo, allora. Il 29 aprile 1991 fu lei a chiudere la «guerra di Segrate» fra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Che cosa ha pensato, quando ha saputo che il primo era stato condannato in appello a risarcire il secondo con 560 milioni di euro?
Ho pensato che De Benedetti avesse avuto un blackout di memoria.
Cioè?
Forse non si ricorda più quanti soldi aveva ottenuto, allora. La Cir ottenne i soldi per pagare la sua parte dalla Fininvest.

Ma come fu coinvolto, lei, come arbitro della trattativa?
Era il febbraio-marzo del 1991. Ero andato a casa del mio amico Caracciolo, per una delle tante colazioni che facevo con lui. E lì trovai alcuni uomini di De Benedetti: Corrado Passera e l'avvocato Vittorio Ripa di Meana. Dibattevano della Mondadori. Gli dissi: a me pare che state a fare la guerra della Secchia rapita...
In effetti, la diatriba tra la Cir e la Fininvest andava avanti da oltre 20 mesi.
Eh sì, ci avevano provato in tanti a metterli d'accordo, De Benedetti e Berlusconi. Qualche merchant bank, perfino Enrico Cuccia con la Mediobanca. Nulla.
E allora che cosa disse lei?
La verità: che la guerra di Segrate non serviva né a De Benedetti né a Berlusconi. Dissi: qui dobbiamo sapere quanto valgono gli asset dell'uno e dell'altro. Quando si arriverà alla quadratura del cerchio di questi due valori, l'accordo sarà finalmente possibile.

Fu lì che le proposero di mediare?
No. La proposta arrivò qualche giorno dopo, sempre da Caracciolo. Risposi però che me ne sarei occupato soltanto se avessi ricevuto l'approvazione da tutti coloro che erano coinvolti. E aggiunsi che la pretendevo per iscritto.
Quindi?
Nel giro di qualche giorno, ottenni il via libera da tutte le parti: Caracciolo, De Benedetti, Berlusconi, Ripa Di Meana... e perfino da Eugenio Scalfari, che allora era il direttore di Repubblica. Ricordo che venni letteralmente invaso da lunghi telex. Ma fu soltanto quando ebbi incassato l'accordo di tutti che accettai quel compito.
Quindi lei non fu scelto come «grande mediatore» in quanto espressione della politica?
Macché politica. Giulio Andreotti, che mi era amico, mi sconsigliò addirittura d'intromettermi. Disse: «Ma chi te lo fa fare? Sei un vaso di coccio tra vasi di ferro». Mentre Bettino Craxi, che nutriva profonda antipatia per De Benedetti, era convinto che La Repubblica non gli dovesse essere data.
Così partì la trattativa e lei cominciò a fare la spola tra i contendenti. Avrà studiato chissà quante carte...
Ci fu un incontro a Verona. Caracciolo arrivò con Passera e con un furgoncino zeppo di documenti. Chiesi: e con questi che ci dovrei fare? Risposero: qui dentro c'è tutto; quanto deve uno, quanto deve l'altro... Non li guardai nemmeno.

E che cosa fece?
Entrai in una cartoleria, lì a Verona, e comprai un quaderno a quadretti.
Un quaderno?
Sì. Divisi ogni pagina con un frego a penna e spiegai: da una parte mettiamo le valutazioni degli asset dell'uno, e dall'altra le valutazioni dell'altro. Fu un lavoro che durò tre mesi, con l'affettuosa vicinanza di Caracciolo. Da arbitro, cenavo una sera ad Arcore e una sera in via Ciovassino.
Ma alla fine, dopo la firma del 29 aprile 1991, le parti erano soddisfatte?
Scherza? Lo certificano anche le foto scattate allora. Sorridevano tutti. De Benedetti e Berlusconi si abbracciarono, addirittura. Alla fine dell'accordo, per suggellare l'affettuosità dei rapporti, andammo a trovare l'Ingegnere a casa sua. Carlo era già in vestaglia, ma cortesemente si rivestì e andammo a brindare tutti insieme.
Nella trattativa si parlò mai della sentenza della Corte d'appello romana del 24 gennaio 1991, quella che nella diatriba sulla Mondadori aveva dato ragione a Berlusconi?
No.

Ma lei, all'epoca, aveva mai sentito voci o illazioni sul fatto che quella sentenza fosse stata «comprata»?
No. E difatti mi stupii molto quando lo lessi sui giornali. Ma qualcosa ancora non mi torna: perché dei tre giudici che parteciparono a quella sentenza, a quanto ho letto, soltanto uno (Vittorio Metta, ndr) sarebbe stato corrotto? Mentre gli altri due (Arnaldo Valente e Giovanni Paolini, ndr) non sono stati nemmeno indagati.
È per quella sentenza «frutto di corruzione», comunque, che la Cir ha appena incassato 560 milioni di euro dalla Fininvest.
Sì, e 560 milioni di euro sono quasi 1.100 miliardi di lire. È un valore assurdo. In borsa, oggi, la quota della Fininvest nella Mondadori vale meno della metà. Per questo, quando ho letto la notizia sui giornali, ho pensato che De Benedetti abbia avuto un vuoto di memoria: decisamente, deve avere dimenticato quanto aveva già ottenuto vent'anni fa.
Insomma: l'accordo del 29 aprile 1991, secondo lei, non rappresentò affatto una sconfitta per la Cir?
Altro che sconfitta! Il giorno dopo l'Ingegnere parlò con qualche giornale della Finegil, la catena dei quotidiani locali che aveva appena incassato con l'accordo. Disse testualmente che aveva ottenuto «il beneficio economico di alcune decine di miliardi di plusvalenze». Verissimo: gli erano stati dati. La sua Cir, a compensazione di quel che aveva preso dalla Fininvest, formalmente pagò 185 miliardi di lire; ma ottenne quei soldi attraverso l'acquisizione gratuita della Cartiera di Ascoli, che aveva in pancia liquidità e giacenze per oltre 170 miliardi. Fu una vittoria, insomma. E lo spiegò bene lo stesso Caracciolo...

In quale occasione?
A un suo compleanno, nell'ottobre di qualche anno dopo. Fece una bella festa al castello di Torrecchia, a sud di Roma. C'erano De Benedetti e molti protagonisti dell'accordo. Sicuramente non Berlusconi. Ma c'era anche Guido Rossi, cui durante la trattativa era stato chiesto un parere tecnico. Durante il pranzo, Caracciolo incaricò me di fare il brindisi. L'Ingegnere si era offerto, ma lui non l'amava tanto: lo chiamava per sigla, «Cdb»...

E che cosa disse Caracciolo?
Alla fine prese la parola e pronunciò questa frase: «A Giuseppe Ciarrapico gli amici di Repubblica dovrebbero innalzare un monumento e collocarlo all'ingresso del giornale». Aveva ragione, il mio amico: avevo evitato che il giornale cambiasse padrone. E pensare che invece quelli oggi scrivono che sono un autore di truffe. Incredibile. Chi si rimangia gli accordi, piuttosto, quello sì...

A proposito: chi volle il paragrafo numero 11 dell'intesa, dove le parti si riconoscono reciprocamente «di non avere più nulla da pretendere»?
Per entrambi i contendenti quella era una vera «condicio sine qua non», un elemento risolutivo dell'accordo stesso. In teoria, adesso, si potrebbe fare ricorso sostenendo che, violato il paragrafo 11, quel contratto di 20 anni fa è nullo.

Alla fine lei ottenne benefici, dalla mediazione sulla guerra di Segrate?
Sì, una grande visibilità mediatica. Una notevole notorietà.

Intendevo benefici economici.
Macché, manco una lira. Gianni Letta però mi regalò un quadro: una bella veduta, di scuola romana.
E dall'altra parte?
Nulla. Quella è gente che sta molto attenta alla borsa.