
SONO 80 ANNI CHE OGNI TANTO RICICCIA IL CONFLITTO TRA PAKISTAN E INDIA - IL 15 AGOSTO DEL 1947 VENNE RICONOSCIUTA L'INDIPENDENZA DEI DUE STATI. IL KASHMIR RESTAVA UNA REALTÀ A SÉ, MA IL MAHARAJA CHE LO GOVERNAVA, HARI SINGH, ERA INDUISTA MENTRE LA MAGGIORANZA DEI SUDDITI ERA MUSULMANA. PER QUESTO I CITTADINI SI RIVOLTARONO CONTRO IL MONARCA - LA GUERRA TRA INDIA E PAKISTAN DEL 1965, CHE COSTO' INUTILMENTE LA VITA A 5 MILA SOLDATI, IL CONFLITTO DEL 1999 E LA TREGUA DEL 2003 - LO SCRITTORE INDIANO PANKAJ MISHRA "LA TENSIONE CONVIENE A ENTRAMBI PERCHÉ..."
1 - UN DUELLO LUNGO 80 ANNI
Estratto dell'articolo di Samuele Finetti per il “Corriere della Sera”
Mentre il mondo era travolto dalla Seconda guerra mondiale, Jawaharlal Nehru, rinchiuso dai britannici in un carcere alle porte di Mumbai, si dedicò alla scrittura. In quelle pagine, poi raccolte nel volume The discovery of India, il futuro primo ministro scrisse: «Quando penso all’India, penso a molte cose. Ma soprattutto alle valli del Kashmir in primavera, ai loro prati in fiore e al rumore dei ruscelli che vi scorrono».
Liberato, e poi divenuto premier, nella primavera del 1947 Nehru si sedette al tavolo con Muhammad Ali Jinnah — il «padre del Pakistan» — per negoziare quella che sarebbe passata alla Storia come «partizione». Il subcontinente fu diviso in due Stati: l’India e il Pakistan.
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Ma quando, il 15 agosto, la loro indipendenza fu formalmente riconosciuta, il Kashmir restava una realtà a sé: confinante con entrambi i Paesi, e da entrambi reclamato, costituiva un caso spinoso. Perché il maharaja che lo governava, Hari Singh, era induista; mentre la maggioranza dei sudditi era musulmana. Singh insisteva per la propria indipendenza.
In ottobre, però, i contadini musulmani si rivoltarono contro il monarca, che non ebbe altra scelta che rivolgersi a Nehru perché gli fornisse aiuto in cambio dell’annessione all’India. Iniziò così un conflitto a fasi alterne che si protrasse fino al gennaio del 1949, quando un accordo cristallizzò la linea del fronte come fragile confine tra i due Paesi. [...]
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Ma sotto la cenere della tregua covava ancora la scintilla della guerra. Alimentata dai ricordi, sia tra i musulmani che tra gli indù, dei violenti massacri che avevano insanguinato le aree del confine dopo la partizione. Quando, nell’agosto del 1965, il Pakistan iniziò a infiltrare soldati nel Kashmir indiano per fomentare una ribellione, la risposta di New Delhi fu immediata. Superata la linea di confine, le truppe indiane colsero immediati successi militari. Ma presto la situazione si arenò in uno stallo, sancito dalla fine delle ostilità in autunno. Era stato un conflitto breve e inconcludente, costato la vita a circa 5.000 soldati.
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Inutilmente, perché nel 1966 Stati Uniti e Unione Sovietica mediarono un nuovo accordo che stabiliva il ritorno ai confini precedenti. Cinque anni, e India e Pakistan erano di nuovo in guerra. Il teatro era il Pakistan Orientale (l’odierno Bangladesh), dove New Delhi sosteneva la guerriglia bengalese vittima della violenza delle autorità pachistane, ma scontri e incursioni aeree si verificarono anche nel Kashmir.
Seguì un periodo di relativa pace, nonostante frequenti schermaglie. Al crepuscolo del secolo, tuttavia, la tensione si acuì di nuovo. Tra il 1998 e il 1999, unità militari pachistane penetrarono in India. La risposta arrivò nella primavera del ’99: la guerra di Kargil — la regione sulla Linea di controllo che Islamabad intendeva conquistare — infiammò l’area fino a luglio, con combattimenti su terreni impervi a oltre 5.000 metri di quota. Nel 2003 fu siglato un cessate il fuoco, tuttora in vigore. Ma nuovi focolai di violenza sono divampati. [...]
2 - «LA TENSIONE CONVIENE A ENTRAMBI». LO SCRITTORE INDIANO MISHRA: NON TEMO L’ESCALATION, MA NON CI SONO MEDIATORI
Estratto dell'articolo di Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera”
«L’India doveva fare qualcosa. Soprattutto questo governo, che ha posto la difesa nazionale in cima all’agenda, non può che rispondere a muso duro a qualsiasi attacco» dice al Corriere lo scrittore indiano Pankaj Mishra, romanziere, analista e storico tra i più taglienti del subcontinente. [...]
A preoccupare molti osservatori è che si tratta del più grande attacco da decenni e che ha preso di mira non solo località nel Kashmir conteso ma anche nel Punjab pachistano.
«Bisogna guardare a cosa sta accadendo all’interno dell’India e del Pakistan per capire come potrebbe evolvere la situazione: nessuno dei due Paesi può affrontare una guerra su larga scala perché entrambi, in forme diverse, sono alle prese con una grave crisi economica. Il Pakistan ha un’economia soffocata dall’onnipresenza dei militari.
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L’India è un Paese molto ricco ma resta abitato da persone molto povere: nella quinta economia al mondo, meno del 10% della popolazione appartiene alla classe media, la stragrande maggioranza sono tutti poveri o molto poveri per l’alto numero di disoccupati e sottoccupati.
Di fronte all’incapacità di generare posti di lavoro stabili, il governo è come se dicesse loro: non possiamo garantire impieghi stabili per tutti ma riusciamo a difendervi. La postura militarmente aggressiva del Bjp, il partito nazionalista indù del premier Modi, serve soprattutto a mantenere intatto il proprio bacino di voti».
I missili lanciati dal governo indiano sono stati apprezzati anche dall’opposizione, Rahul Gandhi compreso. La sorprende questo appoggio bipartisan?
«No, per tanti politici, anche all’opposizione, sarebbe controproducente mettersi contro questa ritorsione condotta in nome della sovranità dell’India».
La gente comune in India cosa pensa di quel che sta accadendo?
«A fronte della grande copertura mediatica dentro e fuori l’India, credo che l’indiano medio non abbia né il tempo né l’energia per farsi un’opinione. Ha così tanti problemi pratici da affrontare nella vita di ogni giorno che può dedicare solo qualche minuto per scrollare sul cellulare notizie su quanto avviene fuori dal suo raggio d’azione quotidiano».
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Il rischio di una escalation è reale?
«Io non credo. Né Delhi né Islamabad vogliono imbarcarsi in una guerra, non ne hanno le forze. Ci sono buone ragioni per credere poi che la deterrenza nucleare basti a evitare uno scenario apocalittico». [...]