
“DETESTO LA MESSA BEAT” – PAPA LEONE, SENTI CORRADO AUGIAS: “LE RIFORME DEL CONCILIO HANNO MOLTI ASPETTI POSITIVI, MA CAMBIARE LA LITURGIA PER RIAVVICINARE IL POPOLO DEI FEDELI ALLA CHIESA È STATO UN ERRORE. IL SACRO HA BISOGNO DI UNA MUSICA CHE SIA SACRA DAVVERO. QUANDO SENTI IL GREGORIANO, QUANDO SENTI I CARDINALI INTONARE IL VENI CREATOR SPIRITUS, SENTI DI STARE DAVANTI A QUALCOSA CHE TI TRASCENDE. QUANDO C’È QUELLO CHE SCHITARRA PARE UNA PARODIA DEL FESTIVAL DI SANREMO” – “IL PIÙ GRANDE NELLA STORIA DELLA MUSICA? BEETHOVEN. FU IL PRIMO AD AVERE CONSAPEVOLEZZA DEL SUO GENIO. MOZART E HAYDN NON AVEVANO IL CONCETTO DI GENIO, CHE VIENE CON IL ROMANTICISMO…”
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”
corrado augias - la musica per me
Corrado Augias, sulla copertina del suo nuovo libro, «La musica per me», c’è lei, con la giacca abbottonata, al pianoforte. Anche pianista?
«Quella foto ha una storia. È volutamente ricalcata sulla foto di Puccini. A metà tra scherzo sorridente e affettuoso gesto di venerazione».
Ma il piano lo suona?
«Mi sarebbe piaciuto farlo davvero bene. Certo, non a livello di Pollini o Benedetti Michelangeli; avrei voluto diventare un buon pianista. Ma ho cominciato tardi: dopo la guerra bisognava pensare a mangiare, a casa mia non c’erano soldi. E poi non c’erano gli strumenti di oggi. Oggi compri una bella tastiera con le cuffie, e ti puoi esercitare senza rompere l’anima agli altri».
A che età ha cominciato a suonare?
«A 18 anni. Tardi, appunto: le mani si erano già legate. Ho scoperto che imparavo troppo lentamente, e dovevo laurearmi. E lavorare».
CORRADO AUGIAS BAMBINO SU UN CAMMELLO, NEL DESERTO LIBICO
Qual è stato il suo primo lavoro?
«Guida turistica. Zio Eugenio, marito di una sorella di mia mamma, aveva un’agenzia di viaggi, e mi affidava i gruppi francesi perché parlavo la lingua. Stipendio: cinquemila lire a settimana».
Il primo concerto a cui andò?
«La Pastorale. La Sesta di Beethoven. Alla basilica di Massenzio. Non capii niente.
La musica sinfonica va preparata, non si può ascoltarla così: bisogna sapere cosa vai a sentire. E oggi i giovani non hanno la pazienza necessaria. Se vuoi ascoltarla consapevolmente, è complicato. Altrimenti ascolti dei suoni».
Lei come reagì?
«Rimasi impressionato. La Sesta è un racconto, un poema sinfonico. Il ruscello, gli uccellini che cinguettano, il rumore del bosco, il temporale, la quiete dopo la tempesta.
Una cosa fantastica. Potenziata dall’eco leopardiana: “Passata è la tempesta, odo augelli far festa...”».
[…]
Lei nel libro associa il ricordo dei suoi genitori a due musiche.
«Mio padre era morto da poco, mia madre era venuta ad abitare qui sotto. Avevo le chiavi, entrai, la trovai che ascoltava alla radio una musica bellissima. Scoprii poi che era l’opera 100 di Schubert, il secondo movimento detto tema svedese: pianoforte, violoncello, violino. Mia madre era commossa fino alle lacrime, senza sapere perché».
E suo padre?
«Era un uomo molto spiritoso, di grande humour. Lo ricordo mentre ascolta “Sophisticated lady” facendosi la barba. Lo invidiai, ma non per la musica, per la barba: non vedevo l’ora di farmela anch’io. Però quelle note mi sono rimaste dentro come un simbolo».
Di cosa?
«Dell’America. L’America buona, quella dei liberatori. Ce lo dicevamo con Ettore Scola: chi da bambino ha visto arrivare gli americani non se li è più tolti dalla testa. Quegli elmetti bellissimi, quelle camicie così diverse dalle povere uniformi dei nostri soldati...
I nostri portavano le fasce gambiere, loro stavano su quelle jeep così dinamiche, in posizione sportiva, con la gamba di fuori... Scola voleva fare un film sull’arrivo degli americani. Era molto difficile, ma lui avrebbe azzeccato il tono. Pensi a “La famiglia”: quante cose dice, prendendole di traverso! Ma Scola è morto, e un film così nessuno può più farlo, perché bisogna esserci stati».
Nel suo libro lei racconta il coro della sua scuola cattolica.
«Il prete venne in classe e ci disse di cantare una canzone. Girava tra i banchi. Poi indicò: tu, tu e tu. Aveva un grande orecchio. Scelse anche me. Stavo in prima fila, dietro c’erano quelli con le voci un po’ più gravi. Dava una nota, un la, e diceva: tu canta così, tu invece così, un’ottava sopra. Noi ridevamo. Ma quel sacerdote ci stava insegnando la polifonia».
Chi è stato il più grande nella storia della musica?
«I grandi sono tanti. Con la lama alla gola, dico Beethoven».
Perché?
«Perché fu il primo ad avere consapevolezza del suo genio. Mozart e Haydn sapevano di essere bravissimi musicisti, ma non avevano il concetto di genio, che viene con il romanticismo. La vita di Beethoven è romantica. Travagliatissima.
Sentimentalmente infelice, segnata da amori mercenari e dal dominio delle malattie.
Tutti parlano della sordità, ma lui ne aveva altre, compreso un grave fastidio agli occhi e un disturbo gastrointestinale che lo costringeva a tenere il pitale sotto il pianoforte.
E in una condizione così terrena scrive un’opera sublime come l’inno alla gioia. Non è solo il “libiamo” della Traviata, è un inno universale: “Alle Menschen werden Brueder”, tutti gli uomini saranno fratelli. C’è l’eco di Kant: la legge morale, il cielo stellato».
[...] Altri musicisti che ama, oltre a Beethoven?
«Gustav Mahler. Una figura tragica. Piccolo ebreo boemo, grande compositore, diventò direttore del teatro dell’opera di Vienna ma fu molto ostacolato, fu costretto a farsi cristiano per superare l’ostilità che lo circondava.
Nel libro pubblico la sua foto. Sta tornando dall’America per l’ultima volta, sbarca in Francia, arriva a Vienna, e muore. È straziante. L’infelicità fatta persona. Nella sua prima sinfonia, detta il Titano, nel secondo movimento, che è praticamente una marcia funebre, si sente un’eco di una musica popolare: fra’ Martino, campanaro...».
CORRADO AUGIAS DURANTE LA CAMPAGNA ELETTORALE DI ROBERT KENNEDY
Come mai?
«Da bambino Mahler assisteva spesso a scene litigiose e violente tra i genitori, che lo spaventavano. Una volta scappa di casa, scende in strada, sente un organetto di barberia che suona fra’ Martino, che è in maggiore.
Quel motivo associato alla scenata gli rimase talmente nella testa che lo mise nella sinfonia, in minore, e gli diede un ritmo da marcia funebre: un tempo straziante. Anni dopo ne parlò con Freud. Ci sono cose della prima infanzia che restano dentro per sempre».
E Mozart?
«Mi piace molto, ovviamente. Ha scritto tutto, il suo catalogo ha 626 numeri d’opera; essendo morto giovane, è un miracolo. Altri sono morti ancora più giovani: Bellini a trentatré anni, Schubert a trentuno, Pergolesi a ventisei. La morte in giovane età è tipica del musicista e del poeta».
Secondo Muti, il più grande è Mozart. E non fu Salieri ad avvelenarlo...
«Certo, l’enigma di Mozart non è la morte, è la vita. Come ha potuto comporre al massimo livello le cose più diverse?Musica sacra, musica profana, opere magnifiche come la trilogia italiana: Don Giovanni, Così fan tutte, Le nozze di Figaro. Capolavori assoluti. Alla cugina scriveva una lettera coprofila, piena di “cacca in bocca”. Poi per la festa del Corpus Domini scriveva la partitura di “Ave verum corpus” senza correggere una nota».
Muti spera che il Papa riporti nelle chiese la musica sacra.
«Ha ragione anche su questo. Detesto la messa beat. Le riforme del Concilio hanno molti aspetti positivi, ma cambiare la liturgia per riavvicinare il popolo dei fedeli alla Chiesa è stato un errore. Il sacro ha bisogno di una musica che sia sacra davvero. Quando senti il gregoriano, quando senti i cardinali intonare il Veni creator spiritus, senti di stare davanti a qualcosa che ti trascende. Quando c’è quello che schitarra pare una parodia del festival di Sanremo».
E tra gli italiani chi sceglie?
«Tra gli operisti ovviamente Verdi. Un padre per tutti noi. In “Senso” Visconti coglie lo spirito patriottico, unitario di Verdi quando mette in scena gli ufficiali austriaci, con le loro belle giubbe bianche, che lasciano la Fenice di Venezia indignati dai manifestini tricolori scesi dai palchi e dal loggione dopo la cabaletta del Trovatore: “Di quela pira l’orrendo foco...”.
Di Verdi a me piace molto la scena del Don Carlo in cui Filippo II si scontra con il grande inquisitore. La scena più politica di Verdi. Da brividi: Filippo accetta di sacrificare il figlio, Don Carlo, ma tenta almeno di salvare l’amico Rodrigo, marchese di Posa. Eppure l’inquisitore rifiuta di perdonarlo, si congeda con un “forse”. Una scena di grande potenza. Il manifesto dell’anticlericalismo».
Lei fa notare che la Nona di Beethoven fu eseguita nel 1989 per il crollo del Muro e nel 1942 per il compleanno di Hitler.
«È l’ambiguità della musica. Un problema irrisolto. La musica ha una logica senza concetti. Ha una logica perché è un linguaggio, ha regole, sintassi, grammatica. Ma non ha concetti, per cui lo stesso motivo lo puoi suonare con la stessa legittimità per il liberatore e per il tiranno».
conclave - i cardinali nella cappella sistina
corrado augias europarlamentare
CORRADO AUGIAS - TELEFONO GIALLO