
LE AMBIZIONI SBAGLIATE - ''PERCHÉ SE SCRIVO CHE HO FATTO SESSO CON UNO STRONZO E MI È PIACIUTO, SONO IRRISOLTA. SE LO SCRIVE PHILIP ROTH, È LETTERATURA?'' - LA SCRITTRICE GIADA BIAGGI PARLA DELLA RIEDIZIONE DI “PORTNOY”: ''ROTH HA POTUTO SCRIVERE PAGINE E PAGINE IN CUI UN UOMO SI MASTURBA COL FEGATO DI VITELLO, E NON È STATO DERISO, MA ANALIZZATO. INTERPRETATO. CONSIDERATO SCANDALOSAMENTE BRILLANTE" - ''IL LIBRO URLA SESSO, VERGOGNA, DESIDERIO, COLPA, E LO FA IN MODO COSÌ PRECISO E ASSURDO, CHE SÌ, MI DICO, VORREI ESSERE PRESA SUL SERIO COME LUI QUANDO PARLO DI SESSO..."
Giada Biaggi per d.repubblica.it - Estratti
La settimana scorsa ho riletto Il lamento di Portnoy. Anzi no: ho riletto Portnoy. Punto. Così si chiama adesso nella nuova traduzione di Matteo Codignola, uscita per Adelphi il 20 maggio. Niente più “lamento”. Un taglio deliberato. Un gesto editoriale, un’ablazione minimale.
O forse una piccola castrazione emotiva. Come se dopo decenni fosse diventato imbarazzante ammettere che quell’urlo era davvero un lamento. O magari è un modo per restituire al libro qualcosa della sua forma clinica, spogliarlo dell’enfasi, lasciarlo lì: Portnoy.
Ma la domanda resta: cosa ce ne facciamo di questa riedizione di Philip Roth di Adelphi? Per quanto mi riguarda: tanto. Anzi tantissimo. Roth mi piace.
Mi è sempre piaciuto. È stato un mio sogno erotico finché era in vita. E non sto parlando del giovane Roth, ma proprio di lui da vecchio, il daddy, con la camicia sgualcita, l’aria da professore in pensione che si ricorda a memoria tutto Marx ma cita Lenny Bruce per metterti in soggezione.
Mi sono immaginata più volte un rapporto sessuale con Philip Roth, il che è già di per sé una cosa che fa ridere, o preoccupare, o entrambe le cose. Come forse la maggior parte di ciò che mi riguarda.
Nella fantasia, l’intesa parte durante un firmacopie in una libreria. Io gli dico, con un tono tra l’ironia e la timidezza strategica, che sono una comica ebrea — anche se non è vero, o meglio: non sono ebrea, ma in quel momento sembra un dettaglio negoziabile.
Lui mi guarda con quell’espressione che conosce esattamente la distanza tra ciò che dici e ciò che vuoi davvero dire. E io penso, mentre mi sistemo i capelli come se fosse un gesto casuale e invece è preparato da settimane: adesso mi scopa.
Il Roth di Portnoy mi piace perché scrive come un chirurgo in acido: affilatissimo, spietato, divertente. È uno stand-up comedian a tutti gli effetti. Perché ha saputo raccontare il grottesco maschile prima che diventasse qualcosa da mettere in discussione.
Ma, soprattutto, perché Portnoy è un libro che urla sesso, vergogna, desiderio, colpa, e lo fa in modo così preciso, così assurdo, così sistemico che sì, mi dico, vorrei essere presa sul serio come Portnoy quando parlo di sesso. Perché Roth ha potuto scrivere pagine e pagine in cui un uomo si masturba, e non è stato deriso, ma analizzato. Interpretato. Considerato scandalosamente brillante. Portnoy come catastrofe etica, antropologica, quasi teologica.
Roth non solo esponeva il sesso, la colpa, il desiderio, ma lo faceva parlando da ebreo, contro altri ebrei, per bocca di un nevrotico che non solo si masturba col fegato di vitello, ma lo racconta con comicità slapstick. Era troppo. Troppo intimo, troppo ridicolo, troppo simile alla verità per essere sopportato.
E forse è questo che lo rende ancora oggi così disarmante: Portnoy non si limita a dire le cose sbagliate, le dice da dentro. E chi legge, spesso, ride prima ancora di rendersi conto che non dovrebbe. Io, quando racconto una scena di sesso idiosincratica, vengo corretta con un “troppo esplicito”. Se parlo di vergogna o desiderio in pubblico, è oversharing.
Se scrivo che ho fatto sesso con uno stronzo e mi è piaciuto, sono irrisolta.
Se lo scrive Portnoy, è letteratura. E poi leggo l’intervista che Emmanuel Carrère ha rilasciato a la Repubblica dopo aver presentato Portnoy al Salone del Libro di Torino. Carrère – che ammiro e che sa come si costruisce una voce – dice che Roth è stato uno degli autori più influenti della sua vita, che Portnoy è ancora un libro esplosivo. E ha ragione. Ma in quell’intervista, come spesso succede, la voce femminile manca. Nessuno si chiede perché ancora oggi dobbiamo accettare che l’identità sessuale maschile sia “profonda” e “sofferente”, mentre la nostra viene scambiata per autofiction a buon mercato.
E qui, inevitabilmente, penso a Girls. Più precisamente all’episodio American Bitch — il terzo della sesta stagione — forse il più ambiguo, raffinato, disturbante di tutta la serie. È quello in cui Hannah viene invitata da Chuck Palmer, uno scrittore affermato, a discutere di un pezzo critico che lei ha scritto su di lui dopo alcune accuse di molestie.
L’incontro è nella casa di lui: un appartamento ultra-borghese a Manhattan, pieno di libri e oggetti totemici del maschio-alpha-intellettuale: una sua foto con Toni Morrison e un quadro oro con la faccia di Woody Allen a mo’ di icona ortodossa. L’episodio sembra uscito da una pagina alternativa di Lamento di Portnoy, riscritto però con il punto di vista della ragazza accusatrice.
Solo che quella voce, mentre prova a imporsi, viene costantemente sminata da Palmer con charme, ironia, paternalismo e anche una dose calibrata di apparente vulnerabilità maschile. È brillante, è gentile, è l’uomo che ha letto tutti i tuoi pensieri prima ancora che tu li formulassi.
È il Roth del firmacopie. Hannah, parlando con lui, capisce di essere finita in una trappola elegante, pensata da uno che conosce fin troppo bene il funzionamento delle accuse, dei sensi di colpa, della parola femminile. L’intera conversazione, che sembrava un confronto alla pari, è in realtà l’ennesimo racconto scritto da lui. E lei, come tutte, è solo un personaggio secondario.
Come accadeva in Portnoy, dove le donne — la Scimmia in particolare, la fidanzata goffa e sessualmente disponibile — non parlano mai davvero. Sono funzioni, pulsioni erotiche, specchi della nevrosi maschile. Portnoy soffre, si masturba, urla, si confessa. E tutto viene accolto come opera alta, comica, disperata, intellettuale. Nessuno gli chiede di ridimensionarsi. Nessuno gli dice che sta esagerando. Nessuno lo corregge con “forse sei un po’ troppo esplicito”.
philip roth
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