
“LA RAI MI FECE FUORI SENZA RAGIONE, MI AGGIRAVO COME UNO ZOMBIE IN VIALE MAZZINI COME SE MI AVESSERO TIRATO DUE SBERLE” – GIOVANNI MUCIACCIA, CONDUTTORE DELLO STORICO PROGRAMMA ART ATTACK, ACCUSA PER LA SUA DEFENESTRAZIONE CARLO FRECCERO – “HO AVUTO LA SFORTUNA DI IMBATTERMI IN UN DIRETTORE DI RETE COME LUI CHE IN UN ANNO HA DECISO DI CHIUDERE 10-12 PROGRAMMI IMMOTIVATAMENTE. NON L’HO MAI INCONTRATO DI PERSONA, NON HO MAI RICEVUTO NEMMENO UNA TELEFONATA: CREDO SIA MOLTO SCORRETTO QUELLO CHE HA FATTO…” – E SULL’IMITAZIONE DI FIORELLO - VIDEO
Alessandra Dal Monte per corriere.it - Estratti
Ricordiamo tutti per Art Attack, lo storico programma di Disney Channel (poi approdato su Rai2) che dal 1998 al 2005, e poi di nuovo dal 2010 al 2018, ha cresciuto a suon di «lavoretti» almeno tre generazioni di bambini. O per l’immortale imitazione di Fiorello del 2003 — «colla vinilica» e «fatto?» — che su Viva Radio 2 ne prendeva in giro l’allure da «bravo ragazzo».
In realtà, venti e passa anni dopo, Giovanni Muciaccia, classe 1969, non è molto diverso da allora: la voce è uguale identica, i capelli pure — «A mia mamma sono diventati grigi a 70 anni, devo avere dei buoni geni», racconta alla vigilia del debutto del suo nuovo spettacolo teatrale, «Ieri oggi e domani», il 2 maggio a Milano al Teatro Manzoni e poi in cartellone il 3 maggio nella capitale e il 15 a Torino — e anche la silhouette è rimasta quella snella di un tempo.
Merito della dieta perenne — insalata, pasta, pesce e verdure cotte — a base di cibi dell’orto: «Ormai è un modo di vivere: io, mia moglie e i nostri due figli abitiamo a Formello, nella campagna fuori Roma, abbiamo le nostre prugne e le nostre olive, compriamo solo alimenti bio e cuciniamo sempre. Io non fumo, mangio carne e bevo vino una volta a settimana, evito i dolci. Mi alleno in casa e vado a correre sulla via Francigena». Proprio un bravo ragazzo insomma, anche a tavola.
Muciaccia, lei è sempre così? Placido e ligio? Ci sarà una volta che è sbottato.
«Certo: mi arrabbio nel traffico, la gente irrispettosa in auto mi fa innervosire. In generale la maleducazione e il non rispetto del prossimo mi fanno scattare: è quello che dico sempre ai miei figli, bisogna capire che non esistiamo solo noi ma anche gli altri. Me lo ha insegnato mio padre, ne ho fatto tesoro».
In tv non si vede da un po’: si è mai arrabbiato per questo?
«Più che altro ci sono rimasto malissimo quando sono stato fatto fuori dalla Rai: mi aggiravo come uno zombie tra viale Mazzini e viale Clodio, come se mi avessero tirato due sberle. Era novembre 2019».
Come è andata esattamente?
«Ho avuto la sfortuna di imbattermi in un direttore di rete, Carlo Freccero, che in un anno ha deciso di chiudere 10-12 programmi immotivatamente. Io all’epoca stavo facendo Cinque cose da sapere e La porta segreta: niente, spazzato via tutto. Non avendo paracadute politici mi sono ritrovato a casa: è stato uno choc, una forma di violenza. Penso che un direttore non debba avere il potere di chiudere all’improvviso programmi di divulgazione, che dovrebbero essere nello statuto della tv pubblica».
Lo ha mai più sentito?
«Non l’ho mai incontrato di persona, non ho mai ricevuto nemmeno una telefonata: credo sia molto scorretto quello che ha fatto, le persone nella vita vanno affrontate, non ci si può arroccare dentro a una torre così».
Come ha reagito?
«Per fortuna mi ero già organizzato una vita, mi sono detto che doveva andare così e mi sono dedicato ad altro: libri, spettacoli. Alla fine vivo ancora di Art Attack perché da quando ho iniziato il programma mi sono messo a studiare l’arte, e oggi la divulgo attraverso gli spettacoli teatrali e le ospitate che faccio tra festival ed eventi. Ho un pubblico di tre generazioni super affezionato che mi segue».
Riesce a vivere con questi lavori?
«Certamente: ai tempi di Art Attack ho guadagnato ma anche risparmiato, sono stato saggio. Avevo già avuto momenti difficili: nei primi anni ’90 a Roma, quando facevo lavoretti saltuari tra teatro e tv, mi sono trovato completamente senza soldi. Per andare avanti ho venduto la telecamera e la moto. Quell’esperienza mi ha insegnato l’importanza del risparmio, soprattutto in un mestiere come il mio, che va a periodi».
giovanni muciaccia spiega la crisi di governo
Vorrebbe tornare in tv?
«Mi piacerebbe ma non vivo in attesa della telefonata: ho colleghi che se spariscono un mese dallo schermo gli prende un coccolone. Io no, ho capito presto che le cose non sono eterne. Non lo sono neanche se sei un raccomandato: ci vuole equilibrio nella vita, grazie a questo mi sono evitato la depressione».
Come ha costruito un equilibrio nella sua vita?
«Intanto ho una bellissima famiglia: mia moglie Chiara Tribuzio e i nostri due figli Edoardo, 14 anni, e Maria Vittoria, 9 anni. Facciamo una vita semplice e stiamo molto insieme. Poi ho una grande passione per il kite surf e il mare: ecco, lì sono meno placido, cerco l’adrenalina. Ho rischiato di morire tre volte, una nel canale d’Otranto e due all’estero. Non riuscivo a tornare a riva».
Ci racconti del suo matrimonio in Polinesia: perché questa scelta?
«Chiara, pugliese di Foggia come me, me l’ha presentata un amico. Ci siamo sposati in Polinesia nel 2009: un matrimonio nato per caso, eravamo partiti per fare una vacanza di kitesurf con una coppia di amici, siamo finiti a sposarci con una corona di fiori in una piantagione di cocco. Quando al ritorno ho registrato il matrimonio mia mamma ci è rimasta un po’ male, ma abbiamo scelto così per non scomodare nessuno».
Torniamo ad Art Attack: come iniziò a lavorare per il programma?
«Il programma, ideato da Neil Buchanan, era della BBC. Disney comprò il format per esportarlo in più Paesi. Io all’epoca venivo dalla tv per ragazzi, avevo fatto La banda dello zecchino, mi contattarono tramite l’agenzia che mi seguiva e feci 3 provini: all’inizio sembrava che volessero una coppia, poi invece scelsero un solo conduttore. Fu un’avventura stranissima: dal 1998 al 2005 giravo per due mesi l’anno a Londra.
giovanni muciaccia spiega la crisi di governo 2
Nessuno capiva l’italiano, per far fare gli stacchi di camera dovevo indicare gli oggetti. C’erano conduttori da ogni parte del mondo, tutti nello stesso posto per girare lo stesso format».
Fu un grande successo.
«L’Italia fu il Paese che andò meglio di tutti. Sembra che il programma mi sia stato cucito addosso, in realtà è il contrario: era un vestito pronto che ho indossato facendolo mio, trovando un tono che potesse funzionare con i bambini italiani, che non sono abituati al metodo inglese di approccio all’arte, quello del ‘do it yourself’.
Devo ringraziare le esperienze a teatro, dove ho iniziato a 17 anni tra Foggia, Roma e la Calabria: la voce, nel racconto, è tutto. Ancora oggi ho dei genitori che mi dicono ‘hai fatto crescere i nostri figli, te li abbiamo affidati, sei parte della famiglia’».
Le mani che si vedevano nel programma di chi erano?
«A volte le mie, a volte quelle di Neil. Il famoso doppiaggio delle mani: una fatica far capire bene cosa stessero facendo. Il racconto era la struttura che teneva in piedi tutto il programma».
L’hanno richiamata anche per le edizioni 2010-2014, girate a Buenos Aires.
«Sì, ero l’unico conduttore rimasto dal ciclo precedente. Un po’ perché il programma in Italia era stato associato a me, un po’ perché ero rimasto uguale anche fisicamente».
Ha conosciuto Neil?
«Sì, l’ho visto più volte. Ora non so che fine abbia fatto, ma se mi dicessero che è alle Bahamas multimilionario non mi stupirei».
Ha più sentito Fiorello dopo le imitazioni?
«No, ma sono terrorizzato all’idea di tornare da Fiorello perché quelle imitazioni hanno scatenato l’inferno: la gente mi fermava per strada, tra foto e battute. Mi sono camuffato mille volte per non essere visto. Non che la cosa mi desse fastidio, succede ancora adesso, ma in quel periodo era particolarmente intensa».
Ha mai rifiutato dei programmi in tv?
«Ho detto una marea di no nella mia vita, reality tipo L’Isola dei famosi me l’hanno proposto 4 volte. Non lo farei mai perché non si mangia, per me impensabile, e poi perché non è un’esperienza secondo me professionale. Non giudico chi fa questi show, ho avuto una grande lezione di vita una volta: giudicai un collega che si spogliava in pubblico per un reality, poi lo ritrovai in un ospedale oncologico pediatrico con un figlio ricoverato. Quindi: ognuno fa quello che vuole, ma penso che quel tipo di programmi li accetti se hai sperperato tutto e ti servono soldi».
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