
ARCHEO-BOMBATI! L'EX CICLISTA GIANNI MOTTA RICORDA LA RIVALITA’ “CATTIVA” CON GIMONDI E LE DUE VOLTE IN CUI AL GIRO FU TROVATO POSITIVO AL DOPING: “NEL 1968 PER UN PRODOTTO CHE NEMMENO SAPEVO ESISTESSE. ME L’HANNO FATTA, MI SA. E L’HANNO FATTA PURE A MERCKX. NEL 1971 EBBI UNA BRONCHITE. IN SETTIMANA AVEVO PRESO UN FARMACO CHE DAVANO PERFINO AI BAMBINI. SQUALIFICARMI FU ECCESSIVO” – LA "DEBOLEZZA EXTRA CICLISMO" DI PANTANI E LANCE ARMSTRONG: "NON CAPISCO COME GLI ABBIANO PERMESSO DI VINCERE COSÌ TANTO”
Flavio Vanetti per il Corriere della Sera - Estratti
In alcuni momenti dell’intervista Gianni Motta inserisce passaggi in dialetto lombardo. Seguirlo diventa un piacevole modo per calarsi nel flusso dei ricordi di un campione capace di vittorie «facili», ma che per varie ragioni, a partire da un incidente nel cuore della carriera, non è stato un dominatore. In ogni caso, è un viaggio a ritroso in un ciclismo dall’enorme presa popolare e in un’Italia della quale, forse, c’è nostalgia.
Gianni Motta lavorò alla Motta...
«Ero nel reparto “credenza”: cioccolato, tortine, tutto quello che sta in un armadio. Disegnavo guarniture sulle paste e farcivo le torte: mi piaceva. Anche papà e mamma, lei sfollata da Verbania, lavoravano lì: si conobbero e nacque... il “Mottarello”».
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Ha vissuto la rinascita dell’Italia.
«Un gran periodo dopo anni tremendi: papà era stato prigioniero a Buchenwald e a Mauthausen. Venivamo dal niente, non avevamo nulla ma poi siamo passati anche al troppo».
Motta e Gimondi come Coppi e Bartali?
«Forse sì, avevamo spaccato la tifoseria. Diventai professionista nel 1964, vinsi 7 gare. Gimondi arrivò nel 1965, conquistando la Roubaix e il Tour. Quell’anno andavo forte pure io, ma al Giro della Svizzera, mentre ero in fuga, una macchina mi passò sopra la gamba sinistra. Fui operato, saltai il Giro. Riuscii ad andare al Tour e ad arrivare terzo. Gimondi però trionfò: tutto cominciò così».
Con Gimondi c’era davvero rivalità?
«Vera, cattiva. Rapporti inesistenti. Conterranei, ma tanti bergamaschi tifavano per me. A Felice non invidiavo nulla: quasi quasi vincevo più di lui. Quell’incidente mi ha condizionato, i medici non capivano che cosa avessi».
Prego, racconti.
«Nel 1967 cominciai a sentire dolori, ma riuscivo ancora a impormi. Pensavano che fosse un’ernia o che fossi un lavativo e uno che andava a donne. Nel 1968 vincevo, però non ero più io. 1969: vincevo perfino con una gamba sola, eppure meditavo di smettere perché avevo già avviato un mobilificio e un maglificio, pensando al dopo-ciclismo».
Tuttavia nel 1970 finì alla Salvarani, la squadra di Gimondi.
«Fu un’azione di marketing: i due rivali assieme, mi diedero una barca di soldi. Però i medici non risolvevano il guaio. Un noto traumatologo voleva operarmi, convinto che fosse una miopatia.
Non ci credevo, rifiutai l’intervento. Suggerii io il test da fare: risultò che l’arteria iliaca, a causa della botta di quell’auto, aveva una strozzatura e il muscolo non era ben irrorato. Il mio medico, il dottor Modesti, mi mandò a Padova dal professor Cevese: rimosse un’incrostazione interna di vari centimetri, ricucì l’arteria con 40 punti. Un miracolo: dopo 50 giorni vinsi il circuito di Urbisaglia e il Giro dell’Umbria».
A mettere d’accordo lei e Gimondi arrivò Eddy Merckx.
«Senza quel problema forse sarebbe cambiato tutto. A quel punto ero però già in un altro mondo: avevo acquistato macchine per produrre tessuti, la testa era altrove».
Le piace il ciclismo italiano di oggi?
« Ghe nissun! (non c’è nessuno!, ndr ). Ciccone? Caruso? Mah... Oggi essere in una squadra è già considerato un traguardo. Noi invece eravamo spinti dalla fame. Prima del lavoro, andavo a Bergamo: sveglia alle 3.30, bici, tre giri delle mura; tornavo a casa per colazione, poi via a Milano. Era facile accettare i sacrifici».
Giro d’Italia 1966: il trionfo.
«Vinsi contro i più forti, solo contro tutti. Fu un Giro duro, mi imposi facilmente anche se me ne combinarono di tutti i colori per farmi perdere. Io ero poi alla Molteni, Gimondi alla Salvarani: la Salvarani più vinceva e più vendeva cucine».
Nei Giri del 1968 e del 1971 fu trovato positivo al doping.
«Nel 1968 per un prodotto che nemmeno sapevo esistesse. Me l’hanno fatta, mi sa. E l’hanno fatta pure a Merckx. Nel 1971 ebbi una bronchite. In settimana avevo preso un farmaco che davano perfino ai bambini. Mi arrabbiai, squalificarmi fu eccessivo: “Sappiamo la tua buona fede, le tracce sono minime. Ma il picco c’è”. Amen».
Invece nel 1972 la stangarono per essersi fatto trainare.
«Si saliva al Monte Jafferau.Davanti c’erano Fuente e Merckx, seguivamo io, Bitossi e Balmamion. Passò l’ammiraglia, mi agganciai. Ma mi curavano...».
Ha vinto meno di quello che poteva?
«Sicuramente sì. Però i tormenti alla gamba sono stati decisivi. Io ero poi altruista: lasciai dopo un’ultima vittoria, non volevo deludere i tifosi».
Le manca non aver vinto Mondiale e Tour?
«Il Tour non tanto, l’oro iridato, invece, mi manca. Una volta feci 280 chilometri di fuga, anche se non da solo. Non mi rimprovero nulla: ho fatto di tutto per vincere un Mondiale».
Il ciclismo ha vissuto momenti bui, nell’ombra del doping.
«Non giudico nessuno. Ma per citare due esempi, Pantani aveva una debolezza extra ciclismo; tuttavia ha fatto sognare pure me. Quanto a un Lance Armstrong, non capisco come gli abbiano permesso di vincere così tanto».
Motta era forte pure in pista.
«Mi piaceva come specialità, ma la vita era da eremita. Ci facevano fare i pistard per cassetta e pubblicità: Antonio Maspes stava un’ora davanti alla scritta Ignis».
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Gianni Motta che cosa fa a 82 anni?
«Amo il giardinaggio, vado ancora in bici. Al Giro collaboro con la Mediolanum assieme a Moser, Fondriest e Ballan: ogni mattina pedaliamo con suoi invitati. Ho due figlie, Paola ha lavorato anche in F1 con Flavio Briatore, ma se avessi avuto dei maschi li avrei avviati al ciclismo».
Meglio la maglia rosa o la maglia gialla?
«La gialla non so nemmeno che cosa sia. Anzi, non del tutto: ho quella del Giro della Svizzera. Però ho una bellissima maglia rosa. Quell’anno non ce n’era per nessuno: io volavo».