
L’OMAGGIO DELLA BIENNALE A KOYO KOUOH, LA CURATRICE SCOMPARSA LO SCORSO 10 MAGGIO A 57 ANNI, IL CUI LAVORO SARA' VISIBILE SULLA RASSEGNA DEL 2026 – NEL SUO TESTO, CONSEGNATO NELL’APRILE 2025, KOUOH SCRIVEVA: “LA MOSTRA NON INTENDE ESSERE NÉ UNA LITANIA DI COMMENTI SUGLI EVENTI MONDIALI, NÉ UN ATTO DI FUGA DALLE CRISI. AL CONTRARIO, PROPONE UNA RICONNESSIONE RADICALE CON L’ HABITAT NATURALE E IL RUOLO ORIGINARIO DELL’ARTE NELLA SOCIETÀ: QUELLO EMOTIVO, VISIVO, SENSORIALE, AFFETTIVO E SOGGETTIVO” - NIENTE ARTISTAR PERCHÉ "L’INDIVIDUO È UN PROBLEMA E…"
Pierluigi Panza per il Corriere della Sera - Estratti
La Biennale d’Arte del prossimo anno si intitolerà In Minor Keys («In tonalità minore») e sarà firmata da Koyo Kouoh, la curatrice svizzera-camerunese scomparsa il 10 maggio scorso a 57 anni. Una decisione che trasforma la 61ª rassegna d’arte veneziana, in programma dal 9 maggio al 22 novembre 2026, in un atto di memoria e fedeltà creativa: In Minor Keys sarà la mostra che Koyo Kouoh ha immaginato, costruito e stava curando.
Un lavoro articolato che la Biennale, con il sostegno della famiglia della curatrice, si impegna a realizzare. È la seconda volta, in 130 anni, che ciò accade: il precedente è quello del critico, storico dell’arte e giornalista Luigi Carluccio, che firmò la Biennale del 1982 ma scomparve nel dicembre 1981 a San Paolo, mentre stava visitando la Biennale del Brasile.
«Abbiamo deciso di andare avanti con la sua squadra — afferma il presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco — con la consapevolezza che il suo gesto è quello di un pensatore che sussurra anche da un altrove. Quindi facciamo quello che la Biennale fa da sempre: mettiamo a terra, edifichiamo la sua idea. Lei, nell’assenza, è presente nel suggerire dall’altrove una strada che è il futuro».
A portare avanti il progetto sarà il team da lei formato: gli advisor Gabe Beckhurst Feijoo, Marie Hélène Pereira e Rasha Salti, l’editor-in-chief Siddhartha Mitter e l’assistente Rory Tsapayi.
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Nel suo testo curatoriale, consegnato nell’aprile 2025, Kouoh scriveva: «La mostra non intende essere né una litania di commenti sugli eventi mondiali, né un atto di disattenzione o di fuga dalle crisi complesse e continuamente intrecciate. Al contrario, propone una riconnessione radicale con l’ habitat naturale e il ruolo originario dell’arte nella società: quello emotivo, visivo, sensoriale, affettivo e soggettivo».
Una Biennale Arte in cui il sapere indigeno, «troppo spesso denigrato o cancellato dal tempo perdurante del capitale e dell’impero, torni a esistere come forza di senso, come gesto poetico e politico». La mostra In Minor Keys si presenta, dunque, in continuità con il filone post-colonial e legato ai French-studies che ha in Edward Said, Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault e Jacques Derrida i padri decostruttori e nelle Biennali di Venezia e Documenta di Kassel i luoghi del pellegrinaggio laico.
Sempre nelle parole della sua ideatrice sarà, inoltre, «una partitura collettiva, composta da un insieme di artisti che hanno costruito universi dell’immaginazione». Anche qui niente Artistar perché l’individuo è un problema e la collettività anonima una soluzione.
Sebbene solo il prossimo 25 febbraio saranno resi noti i nomi dei partecipanti (artisti, gruppi, comunità) e dei padiglioni nazionali della manifestazione, qualcosa si è intuito da alcune immagini (non fornite) mostrate in anteprima: molto artigianato, fotografie dagli angoli più remoti della Terra, espressioni di povertà in luoghi conviviali e collettivi, giardini curati con amore, opere esotiche, mandala, capanne ricostruite, paraventi, tappeti, disegni esoterici, mura, graffiti, ritagli, vecchi giornali, vestiti, schemi, mappe dell’India e della Cina delle risaie… opere di artigiani, artisti, fotografi, filmmaker e performer.
In Minor Keys non sarà una rassegna di denuncia né un rifugio estetico ma un invito, un po’ misticheggiante, all’ascolto, alla sospensione. Ispirandosi a Toni Morrison, anima della letteratura afroamericana premio Nobel nel 1993, e forse anche a libri come Il ramo d’oro di James Frazer, alcuni del team curatoriale hanno sottolineato come «la missione civilizzatrice appiattisca tutto e tratti l’ecologia come un danno collaterale della crescita. Ora c’è bisogno di ascoltare le tonalità minori, scoprire oasi e isole dove si tutela la dignità di tutti. Gli artisti sono i canali verso le comunità, verso la scoperta della vita quotidiana e verso l’amore e la magia».
L’invito alla riscoperta della sacralità del mondo arriva da quella parte del pianeta che non è l’Occidente globalista, digitale e dominato dalla finanza sebbene i curatori, discendenti da Paesi anche colonizzati o dal Sud del mondo siano oggi ben inseriti nelle strutture dell’opulento Occidente. Quello che un tempo siamo stati è ciò che ora la parte del mondo che non ha attraversato il consumismo (ma ci aspirava) ci invita a riscoprire. Il Paradiso è perduto , tuttavia si vive nel singolare paradosso di godere dei beni dell’Occidente ritenendolo, al contempo, sempre dalla parte sbagliata della storia dovunque si sieda. Un Occidente da decostruire attraverso l’arte.
KOYO KOUOH
KOYO KOUOH
Koyo Kouoh
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