
“IL FLOP AGLI EUROPEI? HO ESAGERATO NELLA PRESSIONE. HO SBAGLIATO IO, ME NE SONO ASSUNTO LA RESPONSABILITÀ” – IL CT LUCIANO SPALLETTI SI RACCONTA A VELTRONI SUL “CORRIERE”: "SENTO UN PESO CHE TOGLIE IL FIATO, SARÒ FELICE QUANDO SMETTO. MAI AVUTO UN PROCURATORE IN VITA MIA, NON VENGO DA CASCATE DI DIAMANTI MA DALLA FATICA DEI CALLI SULLE MANI” – "I FISCHI DELL’OLIMPICO, IL GIORNO IN CUI TOTTI DIEDE L’ADDIO AL CALCIO? MI SONO PESATI. NON SONO MAI RIUSCITO A FARMI SCIVOLARE LE COSE ADDOSSO. MI RESTANO DENTRO. A FRANCESCO VOGLIO BENE, MI PIACEREBBE FARE QUALCOSA CON LUI” – LA NAZIONALE E LO SCUDETTO VINTO CON IL NAPOLI - IL LIBRO
luciano spalletti foto lapresse
Walter Veltroni per corriere.it - Estratti
Luciano Spalletti ha pubblicato con Rizzoli un libro, scritto con Giancarlo Dotto, dal titolo «Il paradiso esiste... ma quanta fatica».
È un racconto sincero, senza omissioni e senza cattiverie, della storia di un uomo che è salito fino al gradino più alto della sua professione, allenare la Nazionale, partendo dal basso.
«L’ho fatto per lasciare ai miei figli il resoconto della vita che ho vissuto. Per me non è stato facile. Sono un pignolo, un perfezionista, credo di sapere il valore delle parole. Poi mi sono convinto che chi vive una vita da raccontare, ha il dovere di farlo. L’ho fatto evitando acidità e cattiverie, che pure nella mia carriera ho conosciuto e vissuto». Spalletti ha conosciuto la gavetta, ha imparato nella polvere dei campi dei piccoli paesi. Si è fatto le ossa, senza scorciatoie.
Non è mai stato un campione da serie A o da Champions. Al massimo ha giocato in serie C1. Era bravo, tosto, intelligente, come giocatore. E così è rimasto e per queste doti è diventato un allenatore importante. È un uomo facile? No, ma non bisogna esserlo.
Lo ritrovo nel suo ufficio alla Figc, vicino a Villa Borghese. L’ultima volta l’avevo incontrato nella sua campagna di Montaione. Comincio chiedendogli se corrisponde al vero l’impressione che mi sono fatto di lui, di un uomo timido e solitario.
«Sì, con la mia solitudine convivo benissimo. Anzi, la solitudine mi fa compagnia. Quando scappo a Montaione mia moglie mi dice “Ma che fai lì da solo?” Io sto benissimo, con la mia terra, i miei operai, le bestie che curo.
Quando sono lì, nel silenzio, con i miei pensieri, mi sento nel mio luogo ideale. Anche se dal punto di vista degli affetti il mio paradiso è la mia famiglia, mia moglie e i miei figli ai quali la mia attività ha tolto tempo, spazio, occasioni. E io lo avverto come una colpa, della quale però non ho colpa».
Quanti gradini hai salito per arrivare al paradiso azzurro?
«È stata una salita lunga, per arrivare fino alla Nazionale. Quando parti da laggiù, dai campi di terra battuta, non dalle squadre blasonate, senza avere la struttura, senza conoscenze di un mondo che vedevi lontano, gli scalini sono sempre alti e scoscesi. Ogni volta che ne sali uno non sai cosa troverai, tutto è sconosciuto».
Luciano Spalletti da giocatore nel 1991 con la maglia dell'Empoli
(…) Sai che mi sono reso conto che da giocatore o da allenatore sono entrato negli spogliatoi di tutte le categorie, dai pulcini alla Nazionale? Mi manca solo la prima categoria, magari un domani...».
La tua è una famiglia che ha faticato...
«Mio padre lavorava in vetreria e poi ha fatto il guardiacaccia, il magazziniere, ne ha cambiati molti, di mestieri. Mia madre lavorava nelle confezioni, quelle aziende, come la Modiva, che facevano capi d’abbigliamento. In casa c’erano loro, i due nonni, e poi io e mio fratello Marcello».
Che per te è stato molto importante...
«Lui giocava bene, lui era il calciatore e mi ha insegnato molto. In primo luogo ad avere carattere. Lo ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. Se mi attaccavano, lui diceva che andava benissimo, che ero il più forte. Per me è stato come un innaffiatore della fiducia in me stesso. Io di casini ne ho fatti. Sono sempre stato un naif in questo mondo che, nelle sue logiche, non conoscevo. Non ho mai avuto, in vita mia, un procuratore e questo mi ha sempre dato una grande libertà. Nessuno mi ha messo una mano sulla testa. Soltanto la mia famiglia. E Marcello, più di ogni altro. Prima di andarsene, minato dalla sofferenza, mi ha fatto delle raccomandazioni, alle quali sarò fedele».
Un caso raro, senza procuratore. Non dico che tu sia disattento, nessuno lo è, all’aspetto economico, ma hai sempre dato l’impressione di amare il tuo lavoro più dei biglietti di carta valuta.
«Ci sto attento, sia in entrata che in uscita. Non vengo da cascate di diamanti ma dalla fatica dei calli sulle mani. So che i soldi sono importanti. Ma certe volte mi sembra incredibile che mi paghino per fare ciò che più mi appassiona e mi diverte. Come se da bambino mi avessero pagato per giocare a figurine. Al Napoli, per esempio, sono andato, come racconto nel libro, con l’idea di accettare quella sfida, più che di guadagnare soldi. E il Presidente ne è stato immediatamente consapevole...».
luciano spalletti foto lapresse 1
Fermiamoci su Napoli, forse il momento più bello della tua carriera. Almeno fin qui...
«Ho girato moltissime società, moltissime città, ma non ho mai visto, in molti anni, un popolo che sappia essere così felice e così malinconico come quello napoletano. Io per questo sarò sempre grato al presidente De Laurentiis per avermi fatto fare quella esperienza. Poi è finita male e mi dispiace. Ho sofferto perché dopo lo scudetto il presidente non ha telefonato a nessuno di noi, non ci ha fatto gioire su un pullman scoperto insieme a quel meraviglioso popolo. Io amo Napoli e il Napoli.
luciano spalletti francesco totti
E ora spero che la città possa essere ancora molte volte felice. L’altra sera in Champions League ho visto l’Inter che è totalmente all’altezza delle più grandi squadre d’Europa. I nerazzurri, guidati dalla sapienza tattica di Simone Inzaghi, hanno raggiunto per due volte la finale di questo prestigioso torneo».
A Napoli all’inizio ti rubarono la Panda per invitarti ad andare via poi ti hanno amato alla follia... Amore che dura nel tempo...
«La passione che le persone mettono per la propria squadra spesso deborda, si fa emotiva, risente, come in fondo è giusto, dei risultati, assapora più la bellezza di una vittoria oggi piuttosto che di un progetto per il domani.
Ma forse è giusto così. Quando vedo le curve piene, le bandiere che sventolano, i ragazzi che coltivano una passione pura e non contaminata da altro, penso che quel potenziale potrebbe essere indirizzato anche per altri fini, per esempio di tipo sociale.
luciano spalletti foto lapresse 2
E poi vorrei che alle centinaia di migliaia di sportivi che vanno negli stadi fosse data la possibilità di vedere le partite in strutture moderne, civili. E penso che se cadessero i vincoli burocratici questi investimenti potrebbero generare lavoro e ricchezza diffusa».
Lo scudetto è stato il giorno più bello della tua vita professionale?
«In quei giorni ho provato la terribile felicità che si sente quando si regala felicità ad altri, qualcosa che ti fa vibrare in sintonia con persone che non conosci. Ma l’altro momento più bello sarà quando smetterò e non sentirò più sulle spalle questo peso, un peso scelto, ma che spesso mi toglie il fiato».
Nel libro ricordi spesso di essere orgoglioso di avere i calli nelle mani.
luciano spalletti davide frattesi
«Quei calli vengono dal lavoro, dalla fatica. Conoscere la terra ti insegna che tu puoi progettare e fare tutto quello che è giusto per i tuoi campi, ma se poi arriva una gelata ogni sforzo può essere stato inutile. Così è nel calcio. Un episodio, un solo momento, può fare drasticamente giustizia di tante idee giuste, di tanto impegno e abnegazione. L’essenziale è non restare schiacciati dalle difficoltà. È saper cadere e sapersi rialzare. Tutto dipende da noi: possiamo decidere di affrontare le difficoltà con determinazione o lasciarci sopraffare dalla tristezza».
Nel libro torni sul rapporto con Francesco Totti...
«Io gli voglio bene. Lui è il calcio, per me. Istinto, classe, intelligenza pura. Quando lo allenavo, mi rassicurava pensare che il mio futuro dipendesse proprio da quei piedi lì. E mi piacerebbe, ora che tra noi tutto è chiarito, che pensassimo a qualche esperienza professionale, anche fuori dal calcio, da fare insieme».
Ci dobbiamo aspettare un remake di «In viaggio con papà» con te e lui al posto di Sordi e Verdone?
«No, questo no, ma sarebbe bello che noi due tornassimo a fare cose insieme».
Quanto ti pesarono i fischi dell’Olimpico, il giorno in cui Francesco diede l’addio al calcio?
«Mi sono pesati. Non riesco, non sono mai riuscito, a farmi scivolare le cose addosso. Mi restano dentro, mi attraversano, mi corrodono. E le vittorie più delle sconfitte. Io ho molto amato quegli anni a Roma. Ancora ricordo l’emozione che provai quando Bruno Conti mi propose, ero a Udine, di allenare i giallorossi. Quella emozione è indelebile, non si cancella, ti rimane addosso».
Affrontiamo un momento doloroso per tutti gli italiani, la sconfitta agli Europei con la Svizzera...
«Ho capito di aver caricato i ragazzi di troppe responsabilità, ho esagerato nella pressione. Li ho messi al cospetto, forse con troppa forza, della storia dei campioni e delle squadre che avevano portato gioia all’intero Paese. E così i giocatori hanno perso leggerezza. Ho sbagliato io, me ne sono assunto la responsabilità, per tutti».
Riusciremo ad andare ai Mondiali stavolta? I bambini nati dopo il 2014 non hanno mai visto la maglia azzurra alla World Cup...
luciano spalletti davide frattesi
«Siamo tutti consapevoli dell’importanza delle qualificazioni. Ci è capitato un girone con una nazionale forte come la Norvegia ma io ho fiducia nei miei ragazzi. Siamo una squadra forte e abbiamo voglia».
Il calcio è un gioco semplice?
«Sì, ma la semplicità nel calcio è un punto di arrivo, non di partenza, come dico nel libro. L’importante è impegnarsi, progettare, studiare, avere cura del talento e della fantasia, insegnare la tecnica. Tutte cose che appaiono semplici, prese singolarmente. Ma comporle in un equilibrio anche tattico, fare in modo che una squadra non sia troppo scoperta dietro o troppo arida davanti, è il lavoro che facciamo noi allenatori. E questo, credimi, non è un lavoro semplice».
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