1. LO ASPETTAVAMO TUTTI IL GRANDE FILM SULLA “TRUCE VITA” DI ROMA GODONA CHE CI AVEVA PROMESSO PAOLO SORRENTINO SU QUESTI ANNI TERRIBILI CHE STIAMO VIVENDO, SUL MONDO DI CAFONAL, SU QUELLO DEI SALOTTI LETTERARI, SULLE FESTE ASSURDE CARICHE DI COCA E DI TRISTEZZA: MA “LA GRANDE BELLEZZA” È UNA GRANDE DELUSIONE 2. ESTREMAMENTE LUNGO, ECCESSIVAMENTE AMBIZIOSO, ORGOGLIOSAMENTE PRESUNTUOSO, LIMITATO DA UNA REGIA TROPPO PRESENTE E SENZA POTER POGGIARE SU UNA SCRITTURA DI PRIMA GRANDEZZA. ED APPENA SI VA IN PROFONDITÀ NEI DIALOGHI E NELLA REALTÀ DI CERTI PERSONAGGI E DI CERTE SITUAZIONI, VENGONO FUORI MOLTE BANALITÀ E TRIONFA UNA VISIONE DI ROMA, DELLE SUE TERRAZZE E DEI SALOTTI LETTERARI UN PO’ DA SUPPLEMENTO CULTURALE DI “REPUBBLICA” SE NON DA PARODIA TELEVISIVA

Marco Giusti per Dagospia

Cannes. "Siamo tutti sull'orlo della disperazione" conclude drastico Jep Gambardella-Tony Servillo sulla sua terrazza romana. "Io non vi amo!" urla al suo pubblico la celebre artista performer con la topa dipinta di rosso e una falce e martello rasati sul pelo dopo aver dato una capocciata contro un vetusto muro romano neanche fosse una scena di "Attila flagello di Dio".

"Sì, sono un figlio problematico" urla alla mamma Pamela Villoresi un Luca Marinelli nudo col pisello di fuori tutto dipinto di rosso. "Fanny Ardant?", chiede Jep alla celebre attrice francese. "Oui" risponde lei in versione cicalona romana come fosse in un vecchio spot di Catherine Deneuve.

"Questa me la fai pagare a prezzo intero", ordina il chirurgo plastico, Massimo Popolizio, quando scopre che la sua cliente, Serena Grandi, lo ha tradito con un altro dispensatore di botox. "Il mio scrittore preferito è Proust... però anche Ammaniti...".

Che dire? Lo aspettavamo tutti il grande film sulla Roma del presente che ci aveva promesso Paolo Sorrentino su questi anni terribili che stiamo vivendo, sul mondo di Cafonal, su quello dei salotti letterari, degli intellettuali svuotati di speranze, sulle feste assurde cariche di coca e di tristezza, sull'eterno dominio della Chiesa. Un mondo dove, alla fine contano solo la giovinezza e la morte.

Una nuova "Dolce Vita", insomma, con un nuovo Marcello che si muove tra i monumenti della Roma eterna con lo sguardo cinico e disincantato di chi non può più uscire dalla grande bellezza che inutilmente ha tentato di descrivere e di conquistare. Con l'ombra della morte dell'intellettuale Steiner e quella della ragazzina perduta, la Ciangottini, sempre presenti.

Puntuale all'appuntamento arriva quindi "La grande bellezza", che Sorrentino ha scritto assieme a Umberto Contarello e che ha presentato stasera in concorso al Festival di Cannes, pronto a dividere pubblico e critica tra chi lo troverà un capolavoro e chi una mezza patacca.

Il film apre bene. "Mi hai veramente rotto er cazzo!" è la prima battuta che sentiamo dopo una lunga ouverture che ci mostra subito la bellezza romana e la morte, che coglie, forse alla vista di tanto splendore, un turista giapponese. Mortacci! Poi parte il film, che in mezzo a citazioni dotte di Celine, Proust, Dostoevskij, a tanti echi felliniani, all'ossessione per la geometrizzazione delle inquadrature, non può certo privarsi delle canzoni di Raffaella Carrà rivisitate, come la versione remix di Bob Sinclair di "A far l'amore comincia tu", o di Bruno Lauzi di ispirazione morettiana, come la bellissima "Ti ruberò" cantata da Monica Cetti.

Non si può neanche privare del blablabla dei nostri attori e delle nostre attrici alle feste. "Sto facendo un prete in una fiction e poi un tossicodipendente che si redime". "In questo paese di merda non ci sono bei personaggi femminili". Se Marcello camminava rasente i muri e stava in disparte, come a volere scomparire attaccato alle pareti, il Jep Gambardella di Toni Servillo è sempre al centro della scena, come fosse il motore anche visivo della eterna Roma mondana e del film.

Gran ballerino e dispensatore di battute. "Alla domanda che cosa ti piace di più della vita, quasi tutti rispondevano: la fessa, io solo rispondevo: l'odore delle case dei vecchi". Jep è una bella invenzione di Sorrentino e Servillo, lo riconosco, anche se ne avrebbe guadagnato da una messa in scena meno effettistica.

In un mondo che sembra scivolare verso la morte, tra i sogni di una gioventù lontana e le promesse che non sono state mantenute, Jep non è come Marcello il testimone di una Roma già in decomposizione, ma l'unico in grado di fingerne una vitalità.

Si aggrappa ai pochi personaggi umani che incontra, anche se non può che accompagnarli verso una inesorabile autodistruzione. Romano, un grande Carlo Verdone, umile e perfetto, scrittore non riuscito che vive di espedienti e tenta inutilmente di rimorchiare una ragazza che lo sfrutta.

E Ramona, una Sabrina Ferilli del tutto sorprendente e padrona della scena, tenera e realistica che non ha nessuna speranza nel futuro. In mezzo decine e decine di personaggi che popolano le notti romane, la minuscola direttrice del giornale dove scrive Jep ("Ti è piaciuto il minestrone Jeppino?"), Anna La Rosa, lo sguaiato industriale di Carlo Bucirosso con moglie, Iaia Forte, le ricche signore dell'alta borghesia, la nobile Pamela Villoresi e la comunista di Prati Galatea Ranzi, le conquiste di una notte, Isabella Ferrari inquadrata come nello spot Yamamay (sempre diretto da Sorrentino), collezionisti stravaganti, Lillo Petrolo, cocainomani, preti, lanciatori di coltelli, maghi, poeti (un buffo Severino Cesari muto), giornalisti, giraffe, fenicotteri, sante che perdono per strada una mezza ciavatta.

Estremamente lungo, eccessivamente ambizioso, orgogliosamente presuntuoso e un bel po' fanatico (come diceva Moravia), non sempre aiutato, anzi proprio limitato da una regia troppo presente (ma cosa ci aveva insegnato Rossellini?), e senza poter poggiare su una scrittura di prima grandezza, visto che purtroppo non ci sono più i Flaiano, i Pinelli, i Pasolini di un tempo, "La Grande Bellezza" ha il pregio di osare qualcosa di veramente difficile oggi per il nostro cinema, il grande ritratto corale di una città e di una società in disfacimento.

Ma proprio per la sua struttura bozzettistica, cioè la costruzione a piccoli e grandi quadri, a imitazione della "Dolce Vita" felliniana, senza poggiare su una storia maggiore portante, finisce per rimanere intrappolato dalle sue costruzioni geometriche e per dipendere troppo, nella pura pratica della piacevolezza di racconto, dal singolo episodio o dal singolo personaggio. Che non sempre, però, sono così riusciti e riescono a riattivare, ciclicamente, l'interesse per il film.

Così finché siamo alle prese con le feste, ben coreografate e riprese da Sorrentino, con lo sballo mondano, con le battutine da sketch, tutto va bene, appena si va in profondità nei dialoghi e nella realtà di certi personaggi e di certe situazioni, vengono fuori molte banalità e trionfa una visione di Roma, delle sue terrazze e dei salotti letterari un po' da supplemento culturale di "Repubblica" se non da parodia televisiva.

Non è la Roma che, almeno personalmente, conosco, è quella che mi viene filtrata dalla sezione cultura di "Repubblica". Dove non scrivono più né Ennio Flaiano né Giancarlo Fusco. Ridicolizzare poi le performance d'arte moderna o di artisti come Marina Abramovic, qui ridotta a macchietta nell'interpretazione di Anita Kravos incalzata dalla domanda di Jep sul significato di "vibrazione", dimostra quanto poco rispetto e conoscenza ci sia da parte di Sorrentino e di Contarello della scena artistica non solo italiana, ma mondiale.

Alle insulse domande di Jep sarebbe stata Marina a farlo piangere, non vice versa. E contrapporre alla ridicolizzazione dell'arte moderna la grande bellezza dell'arte classica nascosta a Roma è qualcosa che non si faceva nemmeno nelle commedie di Totò e Peppino ("Dalì dov'è?". "Di là" -"E Monet?" -"Sarà al buffet"). Per non parlare della sgradevolezza del dialogo tra un Jep risentito e la comunista in cachemire non più giovanissima Galatea Ranzi che fa tanto "Terrazza" di Scola velata di non poca misoginia e che ci porta fino a vederla nuda sfogarsi in piscina (perché?).

O delle sequenze che mettono a confronto Jep, grande scrittore prestato al giornalismo, con la sua direttrice, Dadina, minuscola e intelligente che sa comprenderlo, e ha un ufficio dove domina un gigantesco orso di peluche, come fosse un personaggio de "Gli incredibili". Ma dove ha visto queste cose Sorrentino? A Roma? Ma ne è sicuro?

Ora, a parte che perfino i Vanzina, hanno più conoscenza diretta e rispetto per la scena culturale e editoriale romana (ridatece i Vanzina!), e non si capisce come uno possa riconoscersi in questa galleria di personaggi mostruosi e grotteschi, il problema vero è che Sorrentino e Contarello, privandosi dello sviluppo che potevano dare alla storia e alla struttura del film due attori forti, romani e popolari come Verdone e Ferilli, che si presentano con personaggi nuovi e affascinanti, ma troppo presto e troppo brutalmente estromessi dalla scena, si ritrovano un film che finisce, soprattutto nell'ultima parte, per andare avanti per inerzia. Senza un vero interesse.

Né l'arrivo della suora centenaria, una sdentata Sonia Gessner dalla ciavatta pendula, con annesso uomo di fiducia, Dario Cantarelli, e l'arrivo dei misteriosi fenicotteri nel terrazzo di Jep, ci porta davvero a qualcosa. Alla fine, riconosciamo a Sorrentino il coraggio, lo sforzo e la bella costruzione dei suoi protagonisti, dal Jep di Toni Servillo, a metà fra La Capria e il Totò nobile di "Signori si nasce", ai Romano e Ramona di Verdone e Ferilli, e di averci restituito tutta la loro tristezza di personaggi che si allontanano con nostalgia dalla vita, ma non possiamo non dirgli che forse ha perso la grande occasione di fare con questi attori, sviluppandone di più i rapporti e le scene che ci portano alle loro scelte, qualcosa di più che una serie di bozzetti romani.

E Sorrentino è tra i pochissimi a avere la possibilità e l'autorevolezza di mettere in piedi un film così. Dobbiamo ricordare, infine, che se la Roma di Fellini era il risultato di una grande stagione culturale e giornalistica italiana, quella di Sorrentino, a parte il suo valere di regista, sembra il risultato della attuale mediocrità e poca vitalità della nostra scena culturale, degli eterni Gnoli intervistano a turno Eco e Scalfari (altra che la santa con la ciavatta), della nostra borghesia asfittica, e dello stesso cinema italiano sempre al collasso e alla ricerca di soldi. Questo è quello che ci diciamo tutti i giorni, no? E, allora, che cosa ci importa della grande bellezza romana che Sorrentino ci illumina?

 

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