L’AGGHIACCIANTE INTERVISTA DI SEBASTIANO VASSALLI: “POTEVO UCCIDERE, SONO COSTITUZIONALMENTE INCLINE ALL’ODIO – MIO PADRE IL MERDA - CALVINO ERA UN UOMO NON TROPPO GRADEVOLE - MORAVIA INSOPPORTABILE – SONO CONVINTO CHE FU GIULIO EINAUDI IL RESPONSABILE DEL SUICIDIO DI PAVESE’’

“Mia moglie? Morì nel maggio del 2000. Dopo 32 anni di matrimonio. I primi venti, tutto sommato, felici. Poi una catastrofe progressiva. La depressione, gli squilibri mentali, resero tutto più difficile. Si invaghì perfino di una vicina di casa. Presa dai sensi di colpa, rovesciò la situazione, accusandomi di tradirla. Un inferno”….

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Antonio Gnoli per “la Repubblica

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Chi era suo padre?

«Un nullafacente. Dedito, durante la guerra, alla borsa nera e poi non so. Fascista. Fino in fondo. Sempre dalla parte sbagliata. Il Merda».

 

Come dice?

«È il nome che gli do. Non ne merita altri. Non ne ricordo altri».

 

E sua madre?

«Altro campione di umanità».

 

La grandezza di Sebastiano Vassalli — ammesso che si possa parlare di grandezza — ha inizio dalla sua ombrosità. È un uomo cupo. Come se un’infelicità di fondo abbia prodotto una relazione con il mondo fatta di sospetto malmostoso e pessimismo. Più che solo, è un uomo solitario. Vive a Novara: appartato. Raramente esce dal suo guscio. E se lo fa è nella strenua convinzione che, dopotutto, non ne valesse la pena. Perché muoversi?

 

Dunque. La sua faccia di compassato roditore (somiglia a un castoro) svetta nell’oscurità dei suoi pensieri che elabora con paradossale vigore. Come da fermo. Come se una diga, che egli stesso ha costruito, impedisca, alle acque della mente, di travolgere tutto.

Non sarà un caso che tra gli amori giovanili di Vassalli ci sia Dino Campana (il libretto uscì qualche tempo fa per Interlinea, una casa editrice che pubblica le sue cose più personali).

 

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E insolito può apparire lo scrittore che si paga il biglietto di andata e ritorno verso l’inferno. Ma sospetto che egli ci si trovi a suo agio. Cosa sono la mente e il corpo? Trascurabili inezie se non ci fosse la scrittura. E questa, sostiene Vassalli, lo fa volare. Oltre le angosce, oltre le ostilità. Uomo paradossale. Vassalli. Mi affascina. Mi ipnotizza. Mi repelle.

 

Cos’è l’odio?

«Quale odio?»

 

Faccia lei: letterario, umano.

«Bisogna che maturi, come il grano, per poterne parlare ».

 

Lei odia, ha odiato?

«Ho odiato volentieri. Sono costituzionalmente incline all’odio. È una raffinazione di sentimenti più basici: gelosia, invidia, paura».

 

Dove è nato tutto questo?

«Sono stato un ragazzo della guerra. Il corteo di nefandezze e violenze il brodo di coltura».

 

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Genitori?

«Ah! Cancellati».

 

Cancellati?

«Non ci sono più. Non ci sono mai stati».

 

Nel senso?

«Sono il frutto di una gravidanza non voluta. Credo abbia fatto di tutto per espellermi. E io aggrappato alle viscere ho resistito. Odiava che nascessi. Sono nato. A dispetto di tutto».

 

In un certo senso orfano.

«Dopo la loro separazione mi abbandonarono ad alcuni parenti. Sono nato a Genova. Ho vissuto l’infanzia a Crevetto, oggi luogo considerato assai á la page. Ieri un piccolo inferno. E poi sbattuto a Novara da certi prozii».

 

E i suoi?

«Dispersi. Il Merda si sarà rifatto una vita. Non lo so. Idem mia madre. Che posso aggiungere? Genitori così meglio non averli».

 

Li ha più rivisti?

«Mai più».

 

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Non ha curiosità verso la loro vita?

«Nessuna. È stata una coppia male assortita. Si lasciarono insultandosi ferocemente».

 

E lei in mezzo.

«Ero il problema, non la soluzione».

 

Chi l’ha allevata?

«Dei parenti. In cambio di qualche chilo di farina e un po’ d’olio fui cresciuto. Diventai un novarese. Crescendo dissi loro: non vi preoccupate, in me non dovete vedere un adottato, ma un piccolo fondo pensione».

 

Novara è stata tutta la sua vita.

«Beh sì. Le scuole, il liceo e poi via per un po’ a Milano dove feci l’università».

 

Cosa ha studiato?

«Facoltà di lettere. Laurea con Cesare Musatti, con una tesi tra arte e psicoanalisi. Ricordo il giorno della discussione ».

 

Che accadde?

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«Il controrelatore, Gillo Dorfles, voleva bocciarmi. La scena era surreale. Il grecista Raffaele Cantarella si era addormentato. Un altro professore aveva poggiato la sua dentiera sul tavolo. Musatti taceva e Dorfles infieriva».

 

Strano, in fondo Dorfles aveva avuto un trascorso come studioso di medicina e psichiatria.

«Era triestino, come Musatti. Sembrava un volpino assatanato. Ce l’aveva con me. Alla fine Musatti parlò. Disse: sono contrario alla bocciatura, però visto che insisti abbassiamogli il voto».

 

E lei come reagì?

«Non me ne fregava niente. All’università c’ero andato per rimorchiare. Presi a insegnare guadagnando un po’ di soldi e nel tempo che restava dipingevo».

 

Non scriveva?

«Non pensavo di fare lo scrittore. Entrai nel giro del Gruppo 63 da pittore. Edoardo Sanguineti presentò, ricordo, dei miei lavori. Feci qualche mostra nelle gallerie milanesi e perfino a Venezia, al Cavallino, dove Peggy Guggenheim comprò una mia piccola opera».

 

Che genere di pittura faceva?

«Oggi potrei dire che facevo della Pop Art senza la benché minima consapevolezza. Quando nel 1964 la Pop Art giunse alla Biennale di Venezia, capii che le mie cose non avevano respiro».

Sebastiano Vassalli Sebastiano Vassalli

 

Cioè?

«La mia era la visione di un provinciale. Mi sentii improvvisamente inadeguato».

 

C’era pur sempre il Gruppo 63.

«Era composto da gente che si dava un gran daffare. Giovani rampanti collocati nelle università e nelle case editrici. Diciamo che non erano dei campioni di modestia. E poi lasciamo perdere che non abbiamo prodotto grandi opere, ma non hanno prodotto nemmeno grandi teorie degne del nome. L’unica cosa di un certo rilievo di quegli anni, con qualche respiro teorico, fu Opera aperta di Umberto Eco».

 

Per il resto?

«Niente. Con la sensazione dopo un po’ di essere stati presi in giro».

 

Chiamerebbe anche questo una forma di odio?

«Non lo so. Di solito ci si sente immuni da questo sentimento e attribuiamo l’odio agli altri. Mi viene in mente una persona che conobbi bene negli anni Settanta e che quando ero a Roma andavo spesso a trovare: Rodolfo Wilcock».

MORANTE PASOLINI MORAVIA MORANTE PASOLINI MORAVIA

 

Lo scrittore argentino?

«Lui, che aveva scelto l’Italia. Una volta mi recai a casa sua. Viveva all’estremo della periferia. Con due cani. Uno vecchio e l’altro grassissimo. Presi le pulci e non fu cosa facile debellarle. Che le stavo dicendo?».

 

«Parlando una volta di sentimenti umani mi disse: l’amore e l’amicizia vanno e vengono; il solo sentimento durevole è l’odio. Poi rimase un momento a pensare e aggiunse: se qualcuno ti odia non sei mai solo. Una frase memorabile. Mi fece intravedere una positività dell’odio alla quale non avevo pensato».

 

Ma Wilcock chi odiava?

«Moravia e le persone che gli stavano intorno. Odiava il potere letterario romano».

 

Lei di Moravia che pensa?

«Nella cultura italiana ci sono state due cose insopportabili: prima della guerra gli ermetici e dopo la guerra Moravia. A parte Gli indifferenti non c’è una sua opera che mi abbia convinto. Ricordo di averlo visto una sola volta. A Milano. Nel 1959. Ero matricola. L’università aveva organizzato degli incontri con grandi scrittori. Vidi arrivare quest’uomo claudicante. Prese la parola e ho nitida l’impressione della noia che provai al discorso che fece e che ho dimenticato. Completamente diverso fu l’incontro successivo ».

CARMEN LLERA CON MORAVIA CARMEN LLERA CON MORAVIA

 

Con chi?

«Ezra Pound. Quando arrivò c’erano, fuori della Statale, file di poliziotti. La gente inveiva per i suoi trascorsi fascisti. Gli americani lo avevano rinchiuso in manicomio. Non avevo pregiudizi. Chi lo presentò disse alcune cose di lui. Poi, rivolgendosi alla platea di studenti, chiese se qualcuno aveva delle domande da rivolgergli. Ce ne furono tre o quattro. Pound restò impassibile. Sembrava che niente lo interessasse. Tacque. Poi si alzò un ragazzo e gli chiese di leggere il Cantos dell’usura. E fu impressionante».

 

Lo lesse in italiano?

«No, in inglese. Nessuno mi aveva mai trasmesso un’emozione così potente».

 

Cos’è l’emozione in poesia e in letteratura?

«L’unico estremismo che mi è rimasto è quello della poesia. Tutto il resto mi pare una minestra tiepida. La poesia no. La poesia o dà un’emozione oppure non esiste».

 

C’è una definizione che la soddisfa?

«La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole. Vita che non appartiene più a un corpo né a un tempo o a un’epoca. Non è più legata a nulla. O dà questa emozione oppure è un giocare con le parole che tutti possono scrivere».

 

CARMEN LLERA CON MORAVIA jpeg CARMEN LLERA CON MORAVIA jpeg

E il romanzo?

«Non è tenuto a comunicare grandi emozioni. Deve coinvolgere, deve entrare dentro, far pensare a certe cose e farne rivivere altre. Punto».

 

Lei passa per un raccontatore di storie. Molte delle quali nascono dal passato, come si ricava anche dal suo ultimo romanzo, Terre selvagge.

«Le grandi storie sono nel passato, o nel futuro. Il presente è la vita del condominio. C’è qualche spunto che diventerà importante, ma noi non possiamo coglierlo o, nel momento in cui si manifesta, non ha bisogno dello scrittore. Ne parleranno la televisione, i giornali, Internet».

 

Ha mai avvertito un senso di frustrazione rispetto al suo lavoro?

«La sensazione di inadeguatezza c’è. Chi vuole fare lo scrittore deve passare attraverso questa esperienza. Nell’attuale orgia del pubblicare l’inadeguatezza è sparita».

 

Con chi si è trovato meglio, nel pubblicare intendo?

«Direi con nessuno. Non è esatto. Un editore importante fu per me Giulio Einaudi».

 

Come fu il rapporto?

«Mi ignorò fino alla pubblicazione de La notte della cometa . Per 16 anni non mi rivolse la parola. Le poche volte che lo incrociavo ci presentavano e in un’occasione rivolgendosi a un ospite disse: ecco il nostro traduttore. Non avevo mai tradotto nulla».

 

Era un autore Einaudi.

«Sì, sì. Fu Italo Calvino a scoprirmi agli inizi degli anni Settanta con Tempo di massacro. Si innamorò di quel lavoro. Mi scrisse da Parigi. Entusiasta. Ma non ci fu mai un feeling tra noi».

 

DORFLES DORFLES

Eravate entrambi troppo chiusi?

«Calvino aveva bisogno di una persona diversa da me. Che infatti trovò poco dopo in Daniele Del Giudice. Con me non funzionò».

 

Fu un’occasione mancata?

«Ma no. È la vita. Ero così».

 

Così come?

«Scorbutico. E Calvino era un uomo non troppo gradevole. E poi, le dico la verità: dopo La giornata di uno scrutatore , non mi interessava più. Il grande scrittore che aveva iniziato con I sentieri dei nidi di ragno si era dissolto. Ovviamente parlo dei miei umori».

 

Mentre con Einaudi fu diverso?

«Ci fu innamoramento. Non era più l’editore. Dopo le batoste e il commissariamento era solo un consulente. Quando arrivò la prima volta a Novara mi toccò pagargli anche il pranzo. Non aveva smesso i modi del gran signore che gira senza portafoglio! Poi litigammo di brutto e lui me la giurò».

 

Litigaste perché?

CESARE MUSATTI CESARE MUSATTI

«Cacciò Alessandro Dalai e io dissi che quella congiura aveva portato la casa editrice, fino ad allora indipendente, nelle braccia della Mondadori. Venni “fucilato”. Quando l’anno successivo uscì il mio nuovo libro, Einaudi dichiarò che era meglio non leggerlo. Era come Saturno: divorava i suoi figli. E sono convinto che fu lui il responsabile del suicidio di Pavese».

 

Con quali prove, mi scusi?

«Nessuna prova. Ma so che tre giorni prima della morte litigarono. Con Einaudi ci riappacificammo. Mi telefonò il capodanno del 1999. La mia prima moglie era in ospedale. Sarebbe morta di cancro. La mattina avevo 39 di febbre. Suonò il telefono e sentii quella vocetta nasale inconfondibile. Erano due anni che non ci parlavamo. Ti dispiace che ti ho telefonato? Domandò. Non sapevo se ridere o piangere. Morì ad aprile. Ecco, posso dire che con lui ho avuto un rapporto vero che non ebbi né con Calvino né con altri».

 

E sua moglie?

Umberto Eco Umberto Eco

«Morì nel maggio del 2000. Dopo 32 anni di matrimonio. I primi venti, tutto sommato, felici. Poi una catastrofe progressiva. La depressione, gli squilibri mentali, resero tutto più difficile. Si invaghì perfino di una vicina di casa. Presa dai sensi di colpa, rovesciò la situazione, accusandomi di tradirla. Un inferno. Solo dopo che scoprì di essere ammalata di tumore le cose si attenuarono. Ci parlammo normalmente. Giunse l’agonia. Durò tre giorni. Durante i quali invocò la sola persona cui aveva voluto bene».

 

Chi?

«Non ero io. Né la vicina, né sua madre. Invocò suo padre ».

 

GIULIO EINAUDI GIULIO EINAUDI

È sempre così drammatico?

«La vita lo è. E la mia poteva anche andare peggio. Potevo uccidere o finire in manicomio. Per questo ho spesso cercato di vivere oltre le mie storie personali. Cercare altre storie. Altre epoche. Mi sono reso conto che pezzo a pezzo i miei romanzi hanno raccontato l’Italia».

 

E che idea si è fatta di questo paese?

«È un paese al quale non riesco a voler male. Dove è difficile vivere e fare lo scrittore. Ma qui non si resterà mai a corto di storie ».

 

 

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