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BAMBOCCIONI BEOTI? MADDECHE' - FILIPPO LA PORTA IN DIFESA DEI MILLENIALS: “ALTRO CHE SDRAIATI. I NOSTRI FIGLI LEGGONO POCO MA SONO PRAGMATICI E PROVANO A METTERE IN PRATICA L’UTOPIA COMUNITARIA CHE LA MIA GENERAZIONE HA SOLO TEORIZZATO”

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Stefania Chiale per “Io Donna - Corriere della Sera"

 

I rivoluzionari sessantottini sono invecchiati e ora hanno paura del futuro. La generazione dei padri ha poca fiducia in quella dei figli: è una storia che si ripete. Mala rivoluzione digitale in corso da trent’anni la rende più evidente.

 

I giovani sono diventati impopolari: non rappresentano più il futuro, ma - paradossalmente - la resistenza alla modernizzazione. Qualcosa di vero ci sarà se, complice la crisi, sei italiani under 34 su 10 vivono a casa con i genitori. Non giustifica però il collettivo j’accuse nei confronti dei Millennials, i nati dopo il 1985. La delegittimazione è partita dalla politica ed è entrata nell’immaginario collettivo.

 

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Dai bamboccioni dell’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa- Schioppa (era il 2007), al celebre choosy dell’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero (2012), agli “inoccupabili” di Enrico Giovannini, ministro del Lavoro del governo Letta. Non è un caso che il libro Gli sdraiati di Michele Serra - lo sguardo su una realtà in cui“i vecchi lavorano mentre i giovani dormono” - sia diventato un bestseller.

 

«Quanti intellettuali credono di aver già visto tutto e al presente riservano insofferenza e disprezzo» scrive Filippo La Porta nel suo ultimo saggio, Indaffarati (Bompiani), quanti articoli sull’apocalisse in corso, quanti “analogici” pronti a scorgere nei nativi digitali una generazione apatica e intellettualmente pigra. La Porta ha qualche dubbio al riguardo. Nonostante leggano meno dei loro padri, i giovani d’oggi non gli sembrano affatto «una massa beota e acritica, tutti autisticamente chini sui loro scintillanti smartphone». Anzi: «Ho la sensazione che i nostri figli provino a “vivere” alcune cose che la mia generazione ha solo teorizzato».

 

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Al massimo possiamo definirci (tutti) continuamente indaffarati: intenti a inviare messaggi,dialogare,informarci, connetterci fulltime.Ma, soprattutto, «impegnati nel fare concreto, nello scambiare e nel condividere, nel mettere in pratica le nostre idee». I giovani,questo,l’hanno capito benissimo: «Danno più peso all’esperienza che all’erudizione» spiega La Porta, all’etica vissuta piuttosto che alla cultura libresca,all’esempio e non alle idee astratte. Altro che sdraiati!».

 

l’immagine “distesa” dei nativi digitali cresce in parallelo ai dati pubblicati ogni mese: raccontano una generazione che studia poco, lavora ancor meno, a volte non fa né una cosa, né l’altra. Ma i dati, veri, generano spesso percezioni sbagliate. Un esempio. La disoccupazione giovanile(15-24 anni: circa 5,9 milioni d’italiani) a marzo 2016 è scesa al 36,7 per cento. Un dato che rimane comunque lontano dalla media europea (19) e lontanissimo dalla situazione tedesca (sotto il 7). Per strada, in famiglia, in politica o nei talk show parenti, imprenditori, deputati e opinionisti sentenziano: “Il 36,7 per cento dei giovani è disoccupato”. Per fortuna non è così.

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Avere un tasso di disoccupazione giovanile al 36,7 non vuol dire che in Italia i ragazzi senza lavoro siano quasi 4 su 10. Perché? Circa 4 milioni dei giovani tra i 15 e i 24 anni sono inattivi, cioè studiano oppure rientrano nei famosi Neet, cioè non studiano né cercano lavoro.Questa enorme fetta non rientra nel conteggio dell’Istat e quindi non concorre a determinare quel numero che tanto impressiona gli italiani.

 

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Per dovere di cronaca, la “vera” disoccupazione giovanile è addirittura più bassa rispetto alla disoccupazione complessiva: 9,3 contro 11,4 per cento. se dati giusti, e mal spiegati, generano questa confusione, non c’è da stupirsi che gli italiani credano disoccupato il 49 dei connazionali (in realtà, appunto, lo è l’11,4): lo racconta il nuovo libro di Nando Pagnoncelli, Dare i numeri. Le percezioni sbagliate sulla realtà sociale (Edizioni Dehoniane).

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Nella postfazione di Ilvo Diamanti si legge: «La realtà percepita è quella che conta. Cioè: la realtà reale». Questa “realtà reale” è fatta di giovani che non sanno più concentrarsi, che vogliono imparare tutto subito, che ripudiano la noia, che amano il video e meno la lettura: “Tutta colpa di internet! I ragazzi sono sempre connessi”, lamentano i padri. È un male, in un Paese tra gli ultimi in Europa per processo di digitalizzazione? Con internet i giovani guardano film, conoscono e viaggiano.

 

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L’utopia comunitaria che la generazione precedente ha cercato e teorizzato, «si sperimenta concretamente» sostiene La Porta «nelle pratiche di sharing, nelle forme di reciprocità e condivisione dentro e fuori la rete». Il billion-dollar club della sharing economy (le società che valgono più di unmiliardo di dollari) conta 24membri.

 

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Nel complesso, queste 24 società valgono 140 miliardi di dollari, e sono una rivoluzione dei nativi digitali di tutto il mondo, che per spostarsi scelgono BlaBlaCar, per viaggiare Airbnb, per lavorare gli spazi di coworking, come l’italiano Talent Garden. L’imperativo della generazione digitale è passare dall’ideologia all’esperienza concreta: le idee si mettono in pratica, se possibile velocemente.

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Pur non creando ancora le masse di posti di lavoro di cui l’Italia avrebbe bisogno, a fine marzo 2016 le startup innovative iscritte al Registro delle Imprese erano 5.439, in aumento del 5,8 per cento rispetto alla fine di dicembre 2015.

 

Chi le progetta ha fame di concreto: le start up a prevalenza giovanile sono il 22 per cento del totale. Le normali società di capitali con prevalenza under 35 solo il 6,4. «La mia generazione» si chiede La Porta, «che avvolgeva ogni cosa dentro il velo dell’ideologia aveva davvero, rispetto ai nativi digitali, una relazione più forte (e responsabile) con la realtà?». 

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