DAL FAST FOOD ALLE VELINE, DA “DRIVE IN” A “STRISCIA”, ANTONIO RICCI HA DAVVERO BERLUSCONIZZATO L’ITALIA?

Giuseppe Di Piazza per "Sette - Corriere della Sera"

La notte prima della rivoluzione, il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, andò a dormire dopo aver dato un'ultima occhiata alla tivù. Era da quattro mesi a Palazzo Chigi e si gustava, con i suoi cari, un trionfo atteso da decenni: un socialista capo del governo. Non sapeva, quella sera, che niente sarebbe stato più come prima.

Quantomeno in televisione; poi, col tempo, nel resto del Paese. Non che a Craxi facesse paura, il futuro che arrivava. Anzi, da lì a poco, con il suo vecchio amico Silvio Berlusconi l'avrebbe pure progettato. Ma proprio non credeva che fosse lì, dietro la porta. Quindi disse buonanotte, e si girò dall'altra parte. Insieme con lui, quasi tutti gli italiani quella sera se ne infischiarono beatamente che l'indomani, martedì 11 ottobre 1983, sulla neonata Italia Uno sarebbe andata in onda la prima puntata di uno show chiamato Drive In. Lo show che ha cambiato l'Italia.

Ora che sono passati trent'anni, rivedendo spezzoni di quel programma, si capisce che se siamo così, nel bene e nel male, lo dobbiamo anche al talento visionario di Antonio Ricci e della sua band, che annoverava tra gli altri Ezio Greggio, Ellekappa, Gino & Michele, Staino, Disegni & Caviglia, Giancarlo Nicotra. Quel programma segnò il prima e il dopo, anche se alcuni suoi protagonisti oggi fanno i modesti. E da una sua costola nacque cinque anni dopo Striscia la notizia, il successo dei successi, da cui trae origine, per dirne una, il termine "velinismo" su cui si fonda una parte non trascurabile della storia dell'Italia contemporanea.

Dopo l'impegno il riflusso. «A ben pensarci», scrive ne L'egemonia sottoculturale Massimiliano Panarari, 42 anni, docente universitario, «Drive In è il programma del decennio che rivendica con maggiore tracotanza (e con totale riuscita) la glorificazione dell'individualismo proprietario, il distillato dello Zeitgeist». Lo spirito del tempo. E che spirito c'era in quel tempo?

Per capire cosa sono stati gli Anni Ottanta, basti ricordare che di lì a poco sarebbe uscito un nuovo mensile, Max, che per la campagna di lancio scelse uno slogan efficace: «Io esiste». Toto Cutugno cantava L'Italiano, nelle sale usciva Il grande freddo e un giovane emiliano s'era fatto notare con un noir fatto musica: Vita spericolata. Furono anni chiamati del riflusso nel privato, dell'individualismo, che seguivano quelli dell'impegno, i passionali e politicizzati Anni Settanta.

«Il programma di Ricci», racconta Giorgio Faletti, 62 anni, uno dei soci fondatori, «nacque come pretesto per lanciare gli sketch di Benny Hill. Non c'era conduttore, e noi eravamo un gruppo di giovani comici squattrinati e poco costosi. Solo un paio - Gianfranco D'Angelo ed Enrico Beruschi - erano già famosi. Fu una di quelle alchimie fortunate che capitano una volta ogni tanto, e per la televisione fu la rivoluzione che ha cambiato per sempre il modo di fare comicità».

Secondo alcuni, cambiò anche qualcos'altro. «Drive In», afferma Carlo Freccero, 65 anni, uno dei grandi professionisti della tivù italiana, oggi direttore di Rai 4, «era un prodotto sofisticato ed ebbe critiche positive anche da parte dei massimi intellettuali della comunicazione, come Umberto Eco e Beniamino Placido. Ma trent'anni di televisione commerciale hanno formato il gusto medio del Paese, la sua ideologia politica, l'adesione e il consenso al berlusconismo».

Continuando questo ragionamento si potrebbe estremizzare fino a dire che le ragazze del Drive In sono le progenitrici delle Olgettine? «Neanche per idea. Dirlo è una vera cattiveria: le ragazze del bunga-bunga discendono semmai da Dallas e da Beautiful», risponde Freccero. Aggiugendo: «Le notizie recenti di cronaca gettano un'ombra negativa sulla prima tivù commerciale, e questo è profondamente ingiusto».

Figlie dell'avanspettacolo. Ribatte a distanza il sociologo Panarari: «La bulimia sessuale è un asse intorno a cui ruota la trama di Drive In. Un malcapitato cliente, Enrico Beruschi, che corteggia la cassiera maggiorata, finendo nelle grinfie del proprietario, Gianfranco D'Angelo, che se ne inventa una più del diavolo per spremerlo e truffarlo».

Il dibattito è aperto. Sentiamo la tesi di Giorgio Faletti: «Le ragazze del Drive In non avevano niente a che vedere con la mercificazione delle donne: erano figlie del grande avanspettacolo italiano, pensate alle macariolite... E poi, in televisione, c'erano già da anni i maglioni inguinali di Lola Falana e le gambe nude, appena velate, delle gemelle Kessler».

«Mercificazione?». Elisabetta Canalis, 34 anni, che sta alle veline come Messi sta al calcio, sgrana i suoi occhi nocciola e dice: «La mercificazione della donna non esiste. Siamo persone adulte, ognuna fa ciò che ritiene di fare. E se poi a un certo punto non le sta più bene, dice basta, e va via. Nessuno mi ha mai costretta a fare qualcosa contro la mia volontà».

Totalmente d'accordo con la compagna d'avventure televisive (sfondarono a Striscia tra il 1999 e il 2002) è Maddalena Corvaglia, 33 anni, l'altra metà della parola veline: «Dire che questo lavoro possa ledere l'immagine della donna è una cavolata. È un mestiere televisivo, un ruolo legato alla trasmissione, niente di più. Nella vita reale non esiste la velina, come non esiste Babbo Natale. È solo televisione. Poi si spegne la telecamera, e la ragazza torna a essere quello che è».

Di immagine degradata, Maddalena Corvaglia non vuole sentirne parlare: «Una ragazza di vent'anni che va in televisione tutte le sere, che ha un lavoro, che guadagna bene... Che cosa si può chiedere di più?».

«Per esempio, si dovrebbe chiedere a molta gente che ha fatto tivù di proclamarsi cretino assoluto, come ho fatto io», provoca Cesare Lanza, 70 anni, grande giornalista e per undici deus ex machina di molte trasmissioni di successo. «Ho capito solo ora che bisogna abbattere la dittatura ascolti=pubblicità=denaro, che ha regolato in questi ultimi trent'anni la televisione italiana.

Che tivù è stata? Una televisione neo-neorealista, che ha fatto da specchio alla nostra realtà. Continuando questo ragionamento, potrei dire che Antonio Ricci è il De Sica della tv, mentre Paolo Bonolis e Maria De Filippi potrebbero essere Rossellini e Visconti... Il velinismo? Guardi che la vita è assai più volgare della tivù».

La vita è molto volgare. Non c'è dubbio. I valori sono finiti in un burrone. La gente si veste come in un incubo lisergico, e si parla come se la lingua, tutte le lingue non avessero futuro. Di chi è la colpa? Della tivù commerciale e dei mille tronisti che rintronano il nostro mondo zuccherino? Sarebbe bello poter dire sì, la colpa è del piccolo schermo. Ci toglieremmo il pensiero, e spegneremmo (per sempre?) l'elettrodomestico più amato: il 94 per cento gli italiani secondo l'Istat guarda la tivù. Vorremmo davvero diventare amici dei residui sei? E di che cosa parleremmo con loro, se non hanno visto né una partita né una puntata del Trono di spade?

Fuori dalle sacrestie. «La verità», disse nel 1989 un morigerato Silvio Berlusconi, rispondendo alle domande di Fortune Italia, «è che con l'avvento della televisione commerciale è migliorata la vita, e chiunque ha potuto lanciare in Italia un prodotto in tempo reale.

La nostra tv ha portato cultura nuova nelle case degli italiani. Non come fatto libresco, bensì sotto forma di valori, di modelli comportamentali e di una lingua unitaria».
Da lì a pochi anni, anche sotto forma di partito politico. La nascita di Forza Italia (1994) è vista da molti analisti come una continuazione, con altre armi, della guerra di conquista cominciata da Berlusconi negli Anni Settanta. Un testimone di quella nascita è stato Paolo Del Debbio, 55 anni, docente universitario, oggi conduttore di punta delle reti Mediaset, e allora autore di una parte del programma della nascente Forza Italia.

«Quando Silvio Berlusconi fondò la tivù commerciale, non gli passava per la mente di fondare un partito. Voleva solo rispondere a un'esigenza: dare spazio alla fila di imprenditori che volevano fare pubblicità alla Rai e non ci riuscivano. Il palinsesto delle nostre tivù veniva fatto dalla pubblicità. L'origine di tutto è quindi puramente commerciale, Forza Italia fu un effetto derivato, ben successivo».

Lei intravede una responsabilità della tivù nel degrado morale che l'Italia sta vivendo? «Non c'entra niente. La tivù commerciale ha fatto una cosa utile a tutti: ci ha fatto uscire dalle sacrestie e ci ha portato al Drive In. Magari si poteva fare una sosta in un'osteria, d'accordo...». La battuta di Del Debbio si fonda su un'immagine d'epoca: Oscar Luigi Scalfaro, allora giovane deputato democristiano, che schiaffeggia in pubblico una signora un po' troppo scollata. Era l'Italia delle sacrestie, delle censure severe sulla Rai, delle parole che non si potevano pronunciare (estro, per esempio). «TrasmissionI come Drive In hanno aiutato il Paese a modernizzarsi», conclude Del Debbio.

Soldi, successo e io. La verità è che, parlando di questi trent'anni, nei quali s'è consumata una guerra che ha visto soccombere una prima repubblica, e forse una seconda, è difficile individuare reponsabilità univoche. Un analista di fatti politici e di fatti televisivi come Walter Veltroni, 58 anni appena compiuti, con un passato da leader della sinistra italiana, ha difficoltà, se posto davanti alla tivù commerciale, a schierarsi tra le due scuole di pensiero echiane: apocalittico o integrato?

«Né l'uno né l'altro. Quella televisione è nata mentre era in corso una rivoluzione tecnologica: lo sbarco della televisione a colori e il conseguente arrivo del telecomando. Prima di quegli anni la tivù era un elettrodomestico grosso, in bianco e nero, e per cambiare canale bisognava alzarsi».

Poi tutto si trasformò, e nelle nostre case entrò un nuovo ospite che non ci avrebbe più lasciato per i successivi trent'anni: Silvio Berlusconi. Che lezione ne ha tratto, Veltroni?

«Che la tivù commerciale ha generato il pensiero unico televisivo fondato sulla dittatura degli ascolti. Oggi come oggi una trasmissione importante per il costume come Quelli della notte, di Renzo Arbore, non verrebbe mai fatta: aveva ascolti bassi. Berlusconi, con le sue tivù, ha cambiato il sistema di valori del nostro Paese, fondandolo su tre elementi: soldi, successo e io. In quegli anni lavoravo alla direzione del Pci, e partecipai alla battaglia nazionale contro gli spot in mezzo ai film. Si ricorderà lo slogan: "non s'interrompe un'emozione". Avevamo capito come sarebbe finita».

Che cosa vede oggi in tivù? «Molto sport su Sky. Ma la mia trasmissione preferita è Il testimone di Pif, su Mtv».

L'emozione, col senno di poi, possiamo tranquillamente dire che non s'è interrotta: è stata fatta a pezzi. Al suo posto è nato un patchwork di canali, serie, personaggi, giochi, cartoons, musiche, partite di calcio, notizie, reality, talent show... Forse oggi non è più necessario un direttore dei palinsesti, per il semplice motivo che ognuno di noi lo è.

Se volete capire cosa sarà dell'Italia, televisivamente parlando, studiate i comportamenti "orizzontali" di un adolescente: si fa il suo palinsesto giornaliero componendolo con YouTube, con My Sky, con il tablet, con spezzoni di tivù generalista terrestre e con pezzettini di filmatini virali che viaggiano su canali paralleli, da intramezzare alle web-tv o agli streaming di film in lingue sconosciute e pubblicità tagliate. Di fronte a questi ragazzi, un vecchio direttore di rete Anni Ottanta può soltanto chiedere, a propria tutela, l'intervento di Amnesty International.

In questo caos, la tivù generalista sta cercando di riorganizzarsi. È vero che per numero di spettatori le grandi reti italiane restano leader, ma il tempo è nemico: più ne passa, più crescono i consumatori orizzontali. Come uscirne? Con progetti futuribili o con una bella autocritica su quel che è stato? «Sostenere che è tutta colpa di Drive In è come dire che se c'è la camorra la colpa è di Saviano», scrisse un paio d'anni fa, con arguzia, il Gabibbo.

In quella circostanza, l'autorevole esponente della banda Ricci intendeva replicare all'ennesima polemica sollevata sul "velinismo". «Drive In», sosteneva il Gabibbo, da autentico situazionista, «non è stata l'apoteosi dell'individualismo, ma il trionfo del collettivo, una vera trasmissione comunista, nazional-popolare in senso gramsciano». E se lo dice il Gabibbo, c'è da credergli: i pupazzi non mentono mai.

 

 

BEPPE GRILLO SANDRO PERTINI ANTONIO RICCI IL CAST DI DRIVE IN ANTONIO RICCI E BEPPE GRILLOberlusconi con antonio ricci saluta jimmy il fenomeno - Copyright PizziBEPPE GRILLO CON ANTONIO RICCI NEL SETTANTANOVE VELINE AL MARE EZIO GREGGIO GIANFRANCO D ANGELO drive in tini cansino MASSIMILIANO PANARARIdrive in Giorgio Faletti DRIVE IN CARLO FRECCERO jpegcansino drive in drive in

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