DE BORTOLI AI GIARDINETTI – FLEBUCCIO HA IMPERSONATO QUELLA FASE DECADENTE DEL GIORNALISMO ITALIANO CHE SI POTRÀ CHIAMARE “GIORNALISMO DI RELAZIONE”, IL CORRISPETTIVO MEDIATICO DEL “CAPITALISMO DI RELAZIONE” (RAPPRESENTATO DAGLI AZIONISTI DEL “CORRIERE”). SE QUESTA FORMA DI CAPITALISMO NON CONTAVA LE AZIONI MA LE PESAVA, NEL CORRISPETTIVO GIORNALISTICO LE NOTIZIE NON SI DAVANO, MA SI SOPPESAVANO. E, SE NECESSARIO, SI EVITAVANO O SI MARGINALIZZAVA CHI LE VOLEVA DARE

Secondo i più livorosi, De Bortoli ha trasformato il “Corriere” da Bibbia della notizia (“L’ha scritto il Corriere”) in cattedrale dell’ipocrisia e lascia un giornale in perdita di copie cartacee (secondo Caizzi la più alta mai accaduta), dominato da collaboratori inamovibili e giovani che lavorano sottobanco in redazione…

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DAGOANALISI

de bortoli de bortoli

 

Dire che cosa sia stato per il giornalismo il ventennio debortoliano sarà compito degli storici; ma sul Ferruccio che prende posto ai giardinetti con due milioni e mezzo di euro in saccoccia, magari ai Giardini pubblici, cercando di allungare la sua ombra sulla statua di Montanelli (che per la libertà di stampa si dimise due volte: dal “Corriere” diventato comunista e dal “Giornale” diventato berlusconiano), si può anticipare qualcosa.

 

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De Bortoli pare aver impersonato quella fase decadente del giornalismo italiano che si potrà forse chiamare “giornalismo di relazione”, il corrispettivo mediatico del “capitalismo di relazione” (rappresentato dagli azionisti del “Corriere”). Se questa forma di capitalismo non contava le azioni ma le pesava, nel corrispettivo giornalistico le notizie non si davano, ma si soppesavano. E, se necessario, si evitavano o si marginalizzava chi le voleva dare.

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Di famiglia originaria del bellunese, vacanze da ragazzo dalla zia a Morbegno, Ferruccio De Bortoli (con la D maiuscola all’origine) potrebbe celebrare la sua vita come quella di un self-made-man se la sua carriera, a un certo punto, non avesse intrapreso, dicono i detrattori, la strada dell’ipocrisia, cancellando le tracce per fingersi altro da sè.

 

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Il padre lavorava nella segreteria del rettore dell’Università Statale di Milano, la madre era casalinga. Lui studia all’Istituto Feltrinelli e vivrà sempre male questi studi tecnici maturando un rapporto con la cultura sospeso tra arte da salotto, esibizione di nomi ottuagenari che non hanno nulla da dire e tentativi di aggrapparsi a novità “social”.

 

Mai la cultura trattata come disciplina con competenze. Da qui la lamentela per i suoi giornalisti che scrivono libri. Per fdb i libri sono prodotti tutti uguali, ma non gli autori: se a scrivere sono amici suoi, allora i libri si possono scrivere e lui fa l’introduzione e li presenta.

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Con il padre in Statale, iscriversi all’Università era doveroso. Così si laurea in quella che era la laurea di quelli che non sapevano cosa scegliere: Giurisprudenza. E a laurea conseguita c’è da pensare al lavoro. Dicono che sia stata una zia a indirizzarlo verso il “Corriere dei piccoli”, come praticante.  

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A fine anni Sessanta fdb – al pari di Carlito Rossella - era un ragazzo gruppettaro, non girava in grisaglia e cravatta Ferragamo o maglioncini di cachemire, ma vestito come quelli di sinistra che andavano in manifestazione con Capanna. Ma l’uomo è disciplinato e astuto. Il primo balzo è al “Corriere d’informazioni”, palestra pomeridiana del “Corrierone”.

 

a ferruccio debortoli francesco micheli a ferruccio debortoli francesco micheli

Lui fa il cronista assieme a molti altri colleghi che, pochi anni fa, ha messo alla porta con gli stati di crisi del giornale. Vicino (con cautela) alla sinistra, entra nel sindacato, palestra di lancio per molti giornalisti. Infatti fa carriera anche per la sua capacità di controllare il sindacato e di presentarsi ai colleghi  come “uno di loro” (molti hanno sempre creduto in questa leggenda).

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Inizia anche il sodalizio con lo storico sindacalista del “Corriere” Raffaele Fiengo: apparentemente oppositori, Fiengo in eschimo e lui in grisaglia; ma sottobanco la co-gestione è stata a tratti strisciante.

 

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De Bortoli, passata l’età del “Corriere dei Piccoli”, diventa il corrierino dei banchieri e degli industriali. Soprattutto del salvatore del gruppo dopo la P2: Abramo Bazoli. Passa a occuparsi così di economia al “Corriere”, poi a un settimanale del gruppo, quindi ancora al “Corriere” come capo della redazione e come vicedirettore. Controllerà sempre l’economia e chi non capisce che le notizie le seleziona lui in base a quel che si deve (vedi il libro “Il direttore” di Bisignani) viene silenziato o esiliato a Bruxelles.

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Se commette un errore, si scusa con i lettori uno a uno, al telefono o con laconiche mail con scritto “scusi” oppure “grazie”. Solo un bresciano bazoliano gli sfugge di mano, Massimo Mucchetti (ora senatore Pd), il giornalista che voleva “Licenziare i padroni”.

Dal punto di vista privato, gli incidenti familiari sono gravi, ma chi è senza peccato? Tuttavia, anni dopo de Bortoli (che nel frattempo si è abbassato la d per rendersi più nobile) si trova a discettare di famiglia con i cardinali e a imporre al giornale una svolta femminista ispirata al boldrinismo più duro e conformista: aveva la patente per farlo?

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Permalosissimo dietro al bel ciuffo, “debole coi forti e forte coi deboli” e capace di esclusioni immotivate (dice chi l’ha provato), un po’ snob (memorabile quando da Vespa disse a Berlusconi che non era consono farsi fotografare con un pizzaiolo di Casoria), de Bortoli segue il potere.

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Lascia perdere il tifo milanista (Berlusconi non è chic) e prende a frequentare le cene romane a casa dell’Angelillo con Bisignani, Letta, i politici, poi il Premio Strega, i salotti, i presidenti della Repubblica (re Giorgio, suo sostenitore)… Se la d minuscola lo fa più nobiliare, la presidenza di Binario 21 lo consacra agli occhi della comunità ebraica dalle cui fila escono da sempre direttori e proprietari dei giornali (anche quello di via Solferino). 

 

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A questo punto è diventato tutto: nobile senza esserlo, ebreo senza esserlo, banchiere senza esserlo. In redazione vuol fare piazza pulita con chi lo conosce, con i vecchi corrieristi milanesi simili a lui (oggi il Corriere è romano-campano); per dirla alla Pigi Battista vuole “cancellare le tracce”.

 

Così, quando a furia di mail di Caizzi che segnala la “caduta delle copie” un giorno fdb si decide ad andare in assemblea si mette a ricordare a una banda di timorosissimi giornalisti che loro sono stati assunti quasi tutti da lui e che ha dato loro diversi aumenti. Questi si intimoriscono e fdb finisce l’assemblea invitandoli a sostenere economicamente l’azienda (già nelle mani di John Elkann), che veniva dallo scandaloso affare Recoletas.

Ferruccio De Bortoli Ferruccio De Bortoli

 

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Secondo i più livorosi, De Bortoli ha trasformato il “Corriere” da Bibbia della notizia (“L’ha scritto il Corriere”) in cattedrale dell’ipocrisia e lascia un giornale in perdita di copie cartacee (secondo Caizzi la più alta mai accaduta), dominato da collaboratori inamovibili e giovani che lavorano sottobanco in redazione, colleghi marginalizzati e clan che si autosostengono, che promuovono mogli e mariti, che hanno piazzato una carrettata di “figli di…”, di amici (appartenenti a varie élite e lobby) e che quasi mai hanno favorito merito e competenza (lobbismo, familismo, appartenenze e il resto lo lasciamo immaginare).

 

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Le promozioni? Lo stesso: conformismo, finto allineamento. Con fdb hanno comandato, dicono i suoi critici, il clan dell’ex “Unità”, il clan neofemminista-modaiolo-boldrinesco, quello che traffica con il Cdr, gli amici dei giudici e dei servizi e il gruppo dell’on-line costituito da giornalisti poco integrati con i colleghi nati della carta (e viceversa) e da questi accusati di realizzare da dieci anni un prodotto che fa traffico ma non reddito (con tanto di disastroso restyling) e che a furia di copia/incolla ha contribuito a cancellare il core-business del giornale di via Solferino: la reputazione.

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Cosa sia stato de Bortoli lo dirà, se lo dirà, la piccola storia del giornalismo: il recupero della Fallaci, la lotta a Berlusconi (i due non si parlavano e il cavaliere lo saluto un giorno dicendogli. “Ecco il direttore del manifesto”)...

 

Una dozzina di anni fa, alla fine del suo primo quinquennio di direzione, i “suoi” giornalisti scioperarono per difenderlo e difendere con lui la libertà di stampa contro l’aggressione di Tremonti che, si diceva, ne avesse chiesto la testa a Romiti. Questa volta nessun sciopero. Non c’è più il cattivo Berlusconi e in pochi credono che se ne vada un difensore della libertà di stampa. Per qualcuno è un 25 aprile, ma senza speranze di libertà.

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