tea falco

DOPO TANTO STROMBARE DI SOCIAL, ARRIVA LA VERSIONE DI TEA CATA-FALCO: “SE MIA MADRE SI È SENTITA DI RISPONDERE ALLE OFFESE CHE MI SONO ARRIVATE, AVRÀ AVUTO LE SUE RAGIONI. LIBERI DI INSULTARE, LIBERI DI RISPONDERE. MI PARE EQUO”

Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano”

 

TEA FALCO CON I SOTTOTITOLITEA FALCO CON I SOTTOTITOLI

Nella lapidazione virtuale di Tea Falco, chi tira il sasso non nasconde la mano. Da più di un mese, con la perizia del lanciatore di coltelli e l’onniscienza del tuttologo dipinto da Stefano Benni: “Di cosa parla il tecnico? Di calcio, di politica, di morale, di macchine, di prezzi della frutta, di diabete, di sesso, di trattori, di imbottigliamento, di spionaggio, di cinema.

 

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Quale che sia l’argomento trattato, il tecnico lo conosce almeno dieci volte meglio dell’occasionale interlocutore” al Bar Twitter è tutta una gara a superarsi in perfidia e insultare l’attrice che in 1992 interpreta Bibi Mainaghi. Severi giudizi di merito: “Incapace”, calunnie: “Raccomandata”, eccezioni fonetiche: “Quando apre bocca servono i sottotitoli”, ironici medici senza camice: “Il suo logopedista si sarà suicidato”, parallelismi con la Corinna di Boris: “Cagna maledetta”.

 

Nella serie tv prodotta da Wildside e attesa dalle ultime due puntate trasmesse da Sky Atlantic martedì sera in prima serata, gli sceneggiatori Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo e Alessandro Fabbri le avevano riservato il difficile ruolo di una figlia viziata, viziosa e inconsapevole, costretta alla metamorfosi imprenditoriale ed esistenziale dall’arresto del padre.

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Il pubblico si è diviso tra convinti apologeti dell’esperimento (Bertolucci, Virzì, Freccero) e frange diventate ostili dopo gli iniziali apprezzamenti (Filippo Facci, Aldo Grasso) e ora, in un bar di Trastevere, Tea Falco guarda oltre la tempesta con l’attitudine della ragazza perduta che Bernardo Bertolucci le vestì addosso in Io e te: “Se non avessimo punti di vista saremmo liberi di osservare la realtà per quel che è, senza farci influenzare”.

 

Beve una centrifuga, tormenta un anello con un occhio stilizzato, ride con moderazione, si descrive timida, “molto timida”, divaga, ferma il gestore per consegnargli il curriculum di una sua amica: “Ha bisogno di lavorare, le assicuro che è bravissima”. Poi torna alla conversazione. Silenzi. Pause. Titubanze.

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Ai tempi in cui il Palazzo di Giustizia di Milano era un Far West senza pistole, Tea Falco aveva sei anni e Internet serviva appena a spedirsi qualche mail. Due decenni dopo, nella palestra muscolare del giudizio che stronca più di un pugno, all’angolo del ring, senza carezze, è finita lei: “Più che arrabbiata, sono molto triste. Le critiche mi hanno ferita, ma che piovano in fondo è anche normale. Qualcuno mi odia? Significa che il mio personaggio ha colpito nel segno”.

 

Si aspettava tutte queste critiche?

Come chiunque reciti in un’impresa commerciale che si confronta con il pubblico. Ti esponi, ti mostri e ti concedi al giudizio degli altri. A qualcuno sono piaciuta, ad altri meno. Ho diviso e spiazzato. Ma delle mia esperienza in 1992 sono contenta.

 

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Dopo la premiere berlinese, 1992 , elogiata da Frankfurter Allgemeine e Hollywood reporter, è stata trasmessa in contemporanea in Italia, Inghilterra, Germania, Austria e Irlanda. All’estero hanno compreso meglio il progetto di quanto non sia accaduto in Italia?

Non lo so. Pur affrontando un avvenimento italiano, il respiro era intenzionalmente internazionale. Credo che 1992 sia un bel film. Anzi, che siano 10 ottimi film. Insieme a Romanzo Criminale e a Gomorra, con meno azione e più dialoghi, 1992 resta una delle migliori fiction mai prodotte in Italia.

 

Tra le altre cose le imputano un improbabile accento milanese.

Penso di aver fatto un buon lavoro, ma non credo di essere perfetta.

 

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Si rimprovera qualcosa?

Con il senno di poi avrei cambiato delle cose.

 

Che cosa esattamente?

Avrei lavorato ancora più intensamente di quanto non abbia fatto sull’accento milanese. Sono nata a Catania, il mio timbro è siciliano, cambiare pelle non è stato semplice.

 

Altri ostacoli sul percorso?

I tempi stretti. Abbiamo lavorato per mesi senza respiro. A ritmi serrati. Uno, due ciak e la scena era considerata buona. Forse, con qualche settimana in più, il risultato sarebbe stato persino migliore.

 

Cosa pensa quando si vede associata a una recitazione canina?

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Che l’antipatia del mio personaggio, Bibi Mainaghi, abbia in parte orientato i giudizi su di me. Quando lessi la sceneggiatura, tra l’altro, Bibi non era così detestabile. Ci ho lavorato, mi sono sforzata di renderla peggiore di quanto non fosse. Bibi è un eroe negativo e penso che i giudizi su di me non possano prescindere da quello che lei incarna sullo schermo. Essere presuntuosa, raccomandata, senza particolari doti: le accuse che mi hanno mosso sono peculiarità del personaggio che interpreto.

 

Perché ha voluto peggiorarla?

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 Bibi è odiosa e caratterizzarla era importante. È una ragazza viziata che può avere tutto e questa condizione non le fa desiderare niente. È antipatica e apatica. Una raccomandata che vive nell’agio, alienata da tutto, in una bolla in cui non trova stimoli. Detto questo, da spettatrice o da attrice, nei suoi confronti non ho remore morali. Non la biasimo. Bibi Mainaghi è cresciuta in una famiglia particolare, le sono stati trasmessi valori discutibili. Idealmente vorrebbe allontanarsi dalla sua vita, ma non ha il coraggio di rinunciare ai suoi agi e nell’attesa che gli eventi la sfidino, sopravvive. Quando il destino la mette alla prova, finalmente, si vede costretta a cambiare. E diventa un’altra.

 

Lei però con Bibi Mainaghi non c’entra nulla.

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Spogliarsi dei suoi panni non è stato come spegnere un interruttore. Quando terminate le riprese sono tornata in Sicilia avevo ancora un atteggiamento insopportabile e parlavo in lombardo stretto. I catanesi hanno fiuto e relativa pazienza. Mi guardavano male e al mercato rionale mi rispondevano anche peggio. Mia madre mi ha preso da parte: “La smetti di fare la milanese? Il film è finito”.

 

Sua madre l’ha difesa con rabbia da critiche e attacchi.

Se si è sentita di farlo, avrà avuto le sue ragioni. Liberi di insultare, liberi di rispondere. Mi pare equo. Per me, come per lei, questo mondo è nuovo. Prima mi parlava dei suoi dubbi. Leggendo la disputa sulla mia interpretazione, qualche dubbio mi è venuto. Ho cercato di guardarmi dall’esterno, mi sono chiesta: “Hai recitato bene?”.

 

E cosa si è risposta?

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Che mi assolvo e le ragioni di tanto accanimento rimangono misteriose. Ha mai ascoltato Carmen di Stromae?

 

La canzone sul potere sinistro dei social network?

Nel video, girato dal regista de L’illusionista Sylvain Chomet, Stromae è insidiato dall’uccellino blu di Twitter che a poco a poco diventa gigantesco e ingloba fino a distruggerla la vita del protagonista. Dei social network non penso niente di buono e nulla di diverso. Il branco è bestiale. Punta una preda e poi inizia a martellarla. Il narcisismo si alimenta con i followers e di seguace in seguace, per il twittatore compulsivo perdere il senso della realtà è quasi fisiologico.

 

Nella canzone di Stromae, uomini e donne sedotti da Twitter non fanno una bella fine.

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Muoiono come topi. Per i miei detrattori non mi auguro ovviamente nulla di simile, ma in molti degli attacchi ricevuti ho visto malafede. Nel dissentire o nel criticare c’è modo e modo. Twitter non contempla le sfumature. Se sei aggressivo esisti, altrimenti rimani sullo sfondo.

 

Da adolescente temeva di rimanere sullo sfondo anche lei?

Ho sempre voluto fare l’attrice, ma da bambina sognavo di cantare. A cinque anni avrei dovuto partecipare a una trasmissione musicale. Una sorta di Zecchino d’Oro .

 

Partecipò?

Mi ruppi un braccio e la mia carriera di cantante terminò in quel momento. Tempo dopo, molto tempo dopo, pensai per un momento di iscrivermi al Conservatorio.

 

Altra frattura?

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Solo per quanto riguarda le mie confuse ambizioni adolescenziali. Mi resi conto che gli sforzi non mi avrebbero restituito soddisfazione e al Conservatorio rinunciai.

 

Non sappiamo delle sue doti canore, ma dicono che lei sia un’ottima fotografa.

È sicuro? Chi lo dice?

 

Carlo Verdone che la scelse per Sotto una buona stella. Lo abbiamo chiamato per chiedergli come si fosse trovato a lavorare con lei ed è stato generoso: “È un’artista vera e un’ottima fotografa”.

Lavorare con lui è stato un privilegio. Verdone mi ha insegnato moltissimo e mi ha donato un registro diverso da quello che conoscevo. Ma con Carlo non vale. Lui è gentile con tutti.

 

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Allora restiamo ai fatti. Venne premiata a un concorso fotografico all’epoca in cui lei era ampiamente minorenne.

Probabilmente furono generosi anche in quell’occasione. Ero ad Acitrezza, fotografai una statua in bianco e nero. Intitolai la foto “donne di lava” e mi premiarono. La statua era bella, la mia foto a dire il vero molto meno.

 

Non si schermisca.

Per un lungo periodo non sono stata soddisfatta delle mie fotografie. La passione me l’aveva trasmessa mia madre. Per molti anni ha immortalato me e mio fratello in ogni posa possibile. Quelle foto, quelle diapositive, le ho conservate tutte.

 

Ci fotografa i suoi genitori?

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Si sono separati quando avevo 18 anni. Erano diversi tra loro, ma sono stati adorati sia da me che da mio fratello. Con loro ho un ottimo rapporto. Uno scambio bellissimo. Mia madre, insegnante di inglese, pittrice e fotografa, è totalmente irrazionale. Sente le cose, arma l’istinto e parte per la sua strada. Mio padre è una contraddizione vivente. È estroso, ma anche molto razionale. Fa il commercialista. Per affrontare 1992 , almeno in parte, mi sono ispirata a lui.

 

Al cinema come è arrivata?

Avevo 17 anni, vidi il bando di una scuola di recitazione e decisi di iscrivermi. Superai una selezione e iniziai a recitare in teatro. Niente di memorabile, francamente. Cose amatoriali. Il teatro è addirittura più complicato del cinema e mi trasmette una gran paura. È come se ogni sera andassi in diretta. Provi, provi e poi riprovi, ma non hai paracadute. Se sbagli, non hai una seconda occasione.

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La prima vera occasione le è stata data da Roberto Faenza ne I Vicerè.

Ero una comparsa. Incontrai Milena Canonero. Mi disse che avevo un viso incredibile. Quasi piansi. Credo abbia avuto un ruolo nel farmi partecipare. La costumista pluripremiata agli Oscar? Lei. Mi vide e decise che avevo un volto interessante e meritavo una chance. L’occasione vera però me l’ha data Bertolucci in Io e te.

 

Come andò?

 Da due anni sostenevo provini a Roma senza successo. Poi, mentre giravo Il giovane Montalbano, lessi di quello di Bertolucci e mi presentai. Ne affrontai un paio senza particolari esiti e mi rassegnai a riprendere il treno per Catania. Stavo aspettando l’autobus per la stazione e mi telefonò Barbara Melega, la casting del film: “Sei ancora a Roma? Faresti un altro provino?”. Disfeci la valigia e prima di essere richiamata e di incontrare Bertolucci trascorse un altro mese.

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Poi lo incontrò.

La notte prima dell’esame la passai divorata dall’agitazione. Avevo preso il treno da Catania a Roma. Non c’erano posti. Dormii in terra, in corridoio, su una valigia. Non mi vergogno a dirlo, anche se oggi non lo farei più.

 

Poi arrivò di fronte a Bertolucci.

Provavo paura e reverenza. Bertolucci mi domandò cosa pensassi di Olivia, del mio personaggio e io gli portai una poesia che avevo scritto. Iniziava così: “Quanti cuscini bianchi ho visto”. Poi parlai dei tormenti della protagonista: “Le manca la figura paterna. La mancanza d’amore – gli dissi – può essere una dipendenza”. Mi capitò di piangere, anche.

 

Perché?

Bernardo mi chiese se fossi capace di piangere in un minuto e mi raccontò di Eva Green che dal nulla, in otto secondi, sapeva come far sgorgare le lacrime a comando.

 

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E il suo?

In un primo momento a lui parve un pianto cinematografico, ma si trattava d’emozione. I film di Bertolucci, da Ultimo tango a La luna, li avevo visti tutti. Dei fotogrammi di Ultimo tango, con una videocamera, avevo fatto anche delle fotografie messe in una cartellina denominata sogni.

 

Profetico.

Tra l’altro, a proposito di proiezioni, Bertolucci l’avevo anche sognato. Mi chiedeva di prendere una culla bianca da un armadio. Glielo raccontai e lui azzardò un’interpretazione: “O vuoi un figlio o vuoi rinascere”. Sul figlio aveva torto. Sul desiderio di rinascita e di cambiamento, assoluta ragione.

 

Per Io e te lei fu candidata al David di Donatello e al Nastro d’argento. Il suo era un personaggio difficile, vittima di qualche seria dipendenza.

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Immedesimarsi in Olivia fu pesante. Per interpretare una tossicodipendente ho dovuto documentarmi. Soffrire. Bertolucci mi aveva consigliato di frequentare un Sert a Tor Bella Monaca. Quando incontravo qualche difficoltà, Bernardo mi invitava a ripensare alle settimane che avevo passato lì. Alle giornate trascorse al mare con loro. Ai trans che a Capocotta raccontavano dell’effetto dell’eroina. A quelli che si facevano di metadone sotto i miei occhi. Al politico ancora in attività che incontrai e di cui non farò il nome che con regolarità si iniettava la sua dose giornaliera: “Mi drogo perché mio padre è morto quando avevo 14 anni. A volte sogno che torni all’improvviso e mi picchi violentemente”. Anche Bibi di 1992 si fa di eroina. All’inizio non volevo accettare il ruolo, poi ho letto il copione. C’era una metamorfosi in corsa e così mi sono convinta a partecipare.

 

Lei crede nel destino?

Credo che l’ambiente in cui cresciamo ci condizioni, ma che siamo tutti artefici del nostro. Realizzare o meno le proprie aspirazioni dipende da tanti fattori, ma in gran parte decidiamo noi. E se perdiamo, ammesso e non concesso che vittoria e sconfitta siano due concetti decenti, siamo responsabili. Quando sento persone che si lamentano e attribuiscono le colpe dei loro fallimenti agli altri, mi vengono in mente le spallucce dei tennisti italiani descritti da Nanni Moretti. Quelli che perdono sempre per colpa di un agente esterno. Il vento, l’arbitro, il pubblico cattivo.

 

Il cinema di Moretti le piace?

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Da sempre. L’ho anche pedinato Nanni. Volevo presentarmi, fargli ascoltare alcune frasi tratte dai suoi film che conservo nel telefonino, parlarci. Non ho mai avuto il coraggio di presentarmi. Me lo immagino ironico, simpatico, riservato. Schivo. Io sono pure peggio. Temo che tra due timidi l’incontro sia impossibile.

 

Sa chi è Alvaro Vitali?

Certo. Perché me lo chiede?

 

Perché dopo aver girato decine di film, senza preavviso, dall’inizio degli Anni 80 non ricevette più una sola offerta di lavoro: “Il telefono smise di squillare all’improvviso” disse. Passare la vita in attesa di una convocazione o di un provino non è terribile?

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Per Vitali mi dispiace, poverino. Ma non mi sento così. Il telefono l’ho lasciato a casa e in generale credo soltanto di essere molto fortunata. Anche se ultimamente ho rifiutato qualche offerta, so che la precarietà è ovunque e che il risultato di un’opera è sempre una somma di incertezze. Ha visto La solita commedia di Biggio e Mandelli?

 

Visto. Nei panni di Gesù, barba compresa, recitava anche lei.

A mio parere era un ottimo film. Pieno di idee, di invenzioni, di trovate. Per ragioni imperscrutabili, al botteghino è andato male. Tu lavori a un progetto e ti impegni, ma come vada a finire lo sa solo dio. Mal che vada farò altro. Puoi canalizzare ciò che sei e ciò che vuoi esprimere in molti modi.

 

Per esprimersi e affermarsi lei ha dovuto partire e cambiare nome: da Teresa Falsone a Tea Falco.

Si cambia nome. Si parte. Si lascia un posto per cercarne un altro. Il mio ideale è passare una settimana in una città e quella dopo in un’altra. Non mi è pesato farlo e non ho nostalgia di nessun luogo perché so che ci ritornerò.

 

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La sopprime?

La nostalgia, come d’altronde la malinconia, non va soffocata né fregata. Sono sentimenti nobili. Esistono, mi accompagnano e io non li soffro. Il tempo passa e come nelle canzoni di Paolo Conte se ne va in controluce. Svanisce. Evapora. Puoi ripensarci, ma non recuperarlo.

 

Lei come lo impiega?

Cercando di non oziare. Sono discontinua, ma non pigra.

 

La bellezza ha mai rappresentato un problema?

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Da piccola, da ragazzina con i capelli biondi e gli occhi verdi, ero grassottella e me ne hanno dette di tutti i colori. Ora è passata.

 

Non condiziona più i suoi rapporti?

So riconoscere se un uomo mi insegue per scopare o per parlare con me. Incontro soprattutto i secondi. Mi cercano per altre cose, glielo garantisco.

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