ALLA GELIDA ZARINA DI “HOUSE CARD” CI SONO VOLUTI TRENT’ANNI PER SCONGELARSI E DIVENTARE UNA VERA STELLA – A 49 ANNI ROBIN WRIGHT APPARECCHIA UN FASCINO E DUNQUE UN MISTERO CHE MANCAVA DA DECENNI AL MONDO DELLO SPETTACOLO

Jodie Foster, regista di un episodio di “House of Cards, ha capito subito che il rapporto fra Claire e Frank era fondamentale per il successo della serie. «In un certo senso, è la storia d’amore più bella di tutti i tempi, perché entrambi accettano tutto dell’altro, compresi i segreti più imbarazzanti »…

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Sam Kashner per "Vanity Fair USA"

Traduzione di Matteo Colombo per "Vanity Fair Italia"

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David Fincher non riusciva a dormire. Il regista di Seven, L’amore bugiardo - Gone Girl e Millennium - Uomini che odiano le donne era in piedi nel cuore della notte al Four Seasons di Baltimora, dove si era trasferito durante le riprese dell’episodio pilota di House Of Cards. Oltre che regista di quella prima puntata della serie, Fincher era anche uno dei produttori esecutivi della saga politica. Mentre faceva avanti e indietro nella stanza pensando alle riprese del giorno dopo, accese la Tv e trovò un film del 1990, ‘Stato di grazia’, protagonisti Robin Wright e Sean Penn: proprio su quel set era iniziata la loro storia d’amore.

kevin spacey robin wright house of cards kevin spacey robin wright house of cards

 

«Trattenni il fiato. Non vedevo ‘Stato di grazia’ da vent’anni», racconta Fincher. «È incredibile vedere l’evoluzione di Robin: da quella ragazza alla donna che è oggi. La guardi e pensi: fantastico». Basato sull’omonimo sceneggiato trasmesso dalla Bbc negli anni Novanta, l’House Of Cards americano spostava l’azione dal Parlamento inglese al Campidoglio, nella Washington dei giorni nostri, e venne trasmesso per la prima volta in streaming su Netflix nel febbraio del 2013.

 

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Per chi non l’ha mai vista, la serie è imperniata sulle macchinazioni politiche di Frank Underwood (interpretato da Kevin Spacey), un seducente ma spietato parlamentare della South Carolina, e della sua formidabile moglie Claire, che gestisce un’organizzazione non profit, la Clean Water Initiative (C.W.I.), e agevola con freddezza i complotti del marito.

 

Quando Underwood, che è capogruppo della maggioranza alla Camera, viene scavalcato nella corsa alla poltrona di Segretario di stato, inizia una sanguinosa campagna che lo porterà a diventare Presidente. Fincher sapeva che il successo della serie sarebbe dipeso dal casting, che doveva essere perfetto. E sapeva esattamente chi voleva per i ruoli principali: Spacey e la splendida Wright, che due anni prima aveva diretto in Millennium.

 

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Scelte, entrambe, azzeccatissime, tanto che House Of Cards, inizialmente considerato un esperimento rischioso, ha conquistato nove nomination agli Emmy Awards e quattro ai Golden Globe per la prima stagione, e ancora tredici agli Emmy per la seconda. Quanto a Robin, ha vinto svariati premi come miglior attrice in una serie televisiva. Compreso un Golden Globe.

 

LA SIGNORA HA IL RAFFREDDORE

 

robin wright balla col marito alla festa weinstein robin wright balla col marito alla festa weinstein

Incontro Robin Wright al Greenwich Village, alla vigilia dell’ultima bufera di neve della stagione, che minaccia di mandare in tilt la città. È imbottita di antibiotici e lotta con un terribile raffreddore. In testa ha una coppola, e se ne sta seduta davanti a un camino nella Safari Room del Beatrice Inn, con al collo una sciarpa beige a scacchi Burberry. Sorseggia una camomilla. Prima di interpretare Claire Underwood, era nota soprattutto come Bottondoro nel film La storia fantastica, e come la problematica Jenny che affiancava Tom Hanks in ‘Forrest Gump’. I suoi esordi nella recitazione, però, risalgono a trentun anni fa, quando interpretava Kelly Capwell, l’ingenua figlia di papà della soap opera ‘Santa Barbara’.

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Da allora, Robin Wright è apparsa in quarantatré film, spesso in ruoli secondari. Le ci sono voluti trent’anni per diventare una vera stella, e – ironia della sorte – è capitato grazie al piccolo schermo. Quando le chiedo del successo di House Of Cards, risponde:

 

«Mi sento come se fossi fresca di laurea. O meglio, io l’università non l’ho fatta. Sono diventata mamma a venticinque anni. La gente usa sempre espressioni come “arrivata”, ma in realtà era tutto lì fin dall’inizio, aspettava solo di venir fuori. Nel mio caso, c’è semplicemente voluto più tempo. Ho 49 anni. E finalmente penso di essere pronta».

 

SEAN PENN E ROBIN WRIGHT SEAN PENN E ROBIN WRIGHT

Anche Jodie Foster, che l’ha diretta in un episodio di House Of Cards, ritiene che l’attrice ora finalmente «indossi un abito che era fatto su misura per lei fin dall’inizio». Racconta di aver fatto «pubblicità a Robin Wright per vent’anni: è così evidente che è un’attrice straordinaria, una delle migliori che abbiamo. Ma ha fatto film che non hanno colpito nel segno».

 

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A sentire Rebecca Miller, che nel 2009 la scelse come protagonista dell’adattamento cinematografico del suo romanzo ‘La vita segreta della signora Lee’, il successo è arrivato tardi anche perché era «una grande attrice intrappolata nel corpo di una dea scandinava». Forse Robin ha fatto bene a farsi le ossa come caratterista, anziché limitarsi a sfruttare quel fisico che l’aveva fatta diventare fotomodella a sedici anni.

 

«Ora sta sbocciando, sta diventando se stessa», spiega Miller. «Nella sua finezza e nel suo modo di affrontare il lavoro c’è qualcosa di molto speciale. Sa spiccare il volo come riesce davvero a pochi altri. Con House Of Cards è riuscita a creare un personaggio».

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Claire Underwood è stata definita una manipolatrice, una donna spietata e opportunista, ma Robin Wright non la vede così: «Non la considero una persona malvagia e scaltra. Per me è solo pragmatica ed efficiente», osserva fra un sorso di camomilla e l’altro. Parte di ciò che rende il personaggio così temibile è la sua aggressiva, androgina bellezza. A partire da quel taglio di capelli, cortissimo. E nato per caso. «Ho deciso di tagliarli perché erano rovinati dalle troppe decolorazioni sui set, praticamente inguardabili. Ma sul personaggio funziona».

 

 

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Il guardaroba, ideato dal costumista Tom Broecker, è un trattato di sobria eleganza firmato Ralph Lauren, Calvin Klein, Gucci, Armani e Zac Posen. Tra le signore di Washington, si sa, regna l’understatement: tailleur-pantalone e tacchi bassi. In House Of Cards, no. Claire, con i suoi tacchi a spillo, le gonne dritte, le impeccabili camicette bianche e quegli abiti senza maniche che scoprono due braccia straordinariamente toniche, ha l’aspetto di una raffinata guerriera.

 

 

«E quanto mi sono divertita a creare quel look. Raffinato, sexy, e femminile fino in fondo». Il personaggio, dice però, le è diventato chiaro solo dopo che Fincher le ha suggerito di immaginare Claire come un busto di marmo: «In quell’immobilità c’è qualcosa di importante». «Il tuo ruolo è rimanere immobile», le ha detto lui, «quello degli altri gravitarti intorno».

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Beau Willimon, produttore esecutivo della serie, dice che non sente di essere stato lui a creare Claire: «Claire è una collaborazione. È stata creata da Robin tanto quanto da me e dagli sceneggiatori. A differenza di Elizabeth Urquhart nella versione della Bbc, noi volevamo che fosse in primissimo piano, pari a suo marito».

 

Grazie a Robin, per esempio, Willimon ha scoperto che per Claire «meno parole sono meglio. Mi chiedeva: “Possiamo tagliare queste tre battute? Secondo me posso recitarle con il corpo”. Claire, infatti, è una donna di poche parole, ma ben scelte e potenti. Non è una da lunghe tirate. Quando parla, lo fa in modo efficace, veloce».

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Jodie Foster ha capito subito che il rapporto fra Claire e Frank era fondamentale per il successo della serie. «In un certo senso, è la storia d’amore più bella di tutti i tempi, perché entrambi accettano tutto dell’altro, compresi i segreti più imbarazzanti ».

 

Nella prima stagione, Claire sa che Frank la tradisce con l’ambiziosa giornalista Zoe Barnes (interpretata da Kate Mara), ma lascia fare perché sa che questo può agevolare la carriera di lui. Nella seconda, Frank aiuta Claire a manipolare i gossip sulla sua relazione con un celebre fotografo di New York, Adam Galloway (interpretato da Ben Daniels). «Se nella serie non ci fosse quella dinamica di coppia», è convinta Foster, «se tutto si riducesse a Frank e alle sue macchinazioni, non credo che risulterebbe tanto interessante».

 

beau willimon con regista e cast di house of cards beau willimon con regista e cast di house of cards

Confida Fincher che «un sacco di gente ci chiede: ma sono Bill e Hillary? In teoria no, ma quel che mi piace – specie in Bill e Hillary – è che esiste un luogo insondabile nel quale loro due si incontrano, e che nessun altro raggiungerà mai. Siamo partiti un po’ da lì». Il leitmotiv della serie è il momento di intimità in cui Claire e Frank, davanti a una finestra della loro palazzina di Washington, si dividono una sigaretta post-coito, salvo che il coito non avviene mai.

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«È un’idea che mi piace moltissimo», dice Fincher. «Il fatto che esista quest’intimità, questo momento di decompressione a fine giornata. Perché Machiavelli è bravo se è bravo il suo braccio destro, e Frank deve mantenerla informata ». E soddisfatta.

 

DIVENTARE ATTRICE

 

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Mentre fuori dalle finestre del Beatrice Inn comincia a fioccare la neve, parliamo della sua carriera. Dice che diventare attrice non è stata una scelta programmata, ma che «fin da molto piccoli io e mio fratello ci esibivamo per mia madre. Eravamo imitatori. Facevamo gli accenti. Inventavamo personaggi per lei. Per intrattenerla. Far ridere i genitori è divertente».

 

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Il fratello maggiore, Richard, cominciò a studiare danza classica all’età di quindici anni, lavorando poi con Baryšnikov all’American Ballet Theatre. «Lui ha scelto la classica, io la moderna jazz. E la mia vita era quella: uscivo da scuola, mi mettevo a studiare per conto mio, dopodiché ballavo per dieci ore al giorno. Il mio sogno era venire a New York e diventare ballerina a Broadway. Volevo fare A Chorus Line, Cats».

 

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Dopo aver divorziato dal rappresentante farmaceutico Freddie Wright, la madre di Robin, Gayle Gaston, si trasferì con i due figli da Fort Worth, in Texas, a La Jolla, in California, dove le opportunità di studiare danza non esistevano. Robin cominciò allora a lavorare come modella. Aveva il tipico aspetto da ragazza californiana, atletica e cresciuta al sole. «Ballavo negli spot delle patatine», racconta. Finché un giorno la sua agente, Eileen Farrell, le consigliò di fare un provino per John Hughes, regista di tanti fortunati film per adolescenti (Breakfast Club, Una pazza giornata di vacanza, Un compleanno da ricordare, Bella in rosa). Richiamata diverse volte, scelta mai.

 

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Racconta di essere stata «una bambina timidissima», mentre la madre era simpatica ed estroversa. Dopo il divorzio, lei e alcune amiche, fra cui l’imprenditrice Mary Kay Ash, unirono le forze e cominciarono a vendere cosmetici porta a porta. «Mia madre è stata una delle prime socie della Mary Kay Cosmetics, fin da quando io ero piccolissima. Donne che giravano di casa in casa e davano alle casalinghe l’opportunità di lavorare in proprio. Era una vera rivoluzione. Una cosa enorme».

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Robin crebbe in una casa dove le dimostrazioni di cosmetici erano la norma. «Venivamo accompagnati a scuola tutti i giorni su una Cadillac rosa, un bonus che ricevevano le rappresentanti più produttive dell’azienda». Continuò a fare provini per quasi due anni, senza mai ottenere nulla, se non una particina in una soap opera serale che ebbe vita breve, Yellow Rose, con Sam Elliott e Cybill Shepherd.

 

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«Gettai la spugna: non riuscivo a ottenere niente. Avevo preso il diploma superiore, continuavo a fare avanti e indietro in macchina da La Jolla a Los Angeles per i provini. Ero già stata otto mesi in Europa, avevo cominciato a lavorare come modella subito dopo le superiori, dopodiché avevo deciso di tornare in California per fare un altro tentativo con la recitazione. Niente. Venivo chiamata, ma la parte non la ottenevo mai. Sarà successo quattordici milioni di volte, sempre per quei film che giravano all’epoca, come Al di là di tutti i limiti e Un compleanno da ricordare».

 

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Così Robin si arrese e trovò lavoro nella cucina di un traghetto, nonostante soffrisse il mal di mare. Ma ventiquattr’ore prima di salpare, venne scritturata per il ruolo di Kelly Capwell in ‘Santa Barbara’. Firmò un contratto per due anni, e ottenne tre nomination agli Emmy. Quando nel 1987 Rob Reiner, che l’aveva vista in Santa Barbara, la scelse per interpretare Bottondoro nella Storia fantastica, Robin si ritrovò in una grande produzione, e con uno splendido cast: Billy Crystal, Carol Kane, Wallace Shawn e Chris Sarandon. Sette anni dopo fu coprotagonista di Forrest Gump, nei panni della migliore amica e innamorata di Gump, che finisce vittima degli eccessi degli anni Sessanta. Tom Hanks incontrò Robin durante i provini del film.

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«Aveva già allora una presenza scenica misteriosa, che le viene da una grazia e da una bellezza davvero straordinarie», ricorda l’attore. Inoltre, possedeva «una capacità di concentrarsi che mette quasi in soggezione». Durante una scena di Forrest Gump in cui il goffo protagonista balla, Hanks riuscì a far ridere la Wright così tanto che «mi feci la pipì addosso, e non avevo un cambio di costume», racconta lei ridendo.

 

HOUSE OF CARDS MICHAEL DOBBS LIBRO. HOUSE OF CARDS MICHAEL DOBBS LIBRO.

I vestiti glieli asciugò un membro della troupe con il phon. Anche Hanks si rammenta di quella sera, ma in termini un po’ diversi: «Eravamo in una location splendida. La luce aveva un che di magico. E l’innata mancanza di ritmo di Forrest, ma al tempo stesso la gioia per il fatto di ballare con il suo grande amore... sì, è stata una serata splendida».

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Josh Brolin è coprotagonista della Wright in Everest, basato sul best seller Aria sottile, che uscirà entro la fine dell’anno. Ci racconta che «ai suoi personaggi, che siano intensi, buffi, sciocchi o tragici, lei si presta completamente. Anche in Forrest Gump: chi non si sarebbe messo a correre, se gliel’avesse chiesto Jenny?».

 

Robin conobbe Sean Penn sul set di Stato di grazia. Si innamorarono e si sposarono nel 1996. Era il secondo matrimonio per entrambi: lei era stata brevemente sposata con l’attore Dane Witherspoon, suo collega in Santa Barbara, scomparso l’anno scorso. Sean, invece, era stato sposato con Madonna, anche lui per poco, nel 1985. Il matrimonio con Robin fu in effetti una sorta di redenzione per Penn, così come per lei fu realmente una storia fantastica: sposata con uno dei più grandi attori americani, che veniva paragonato a James Dean e a Marlon Brando. «A ventiquattro anni ero incinta. Poi mi sono sposata», riassume.

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Decise di chiamarsi Robin Wright Penn e si dedicò a crescere i due figli, Dylan e Hopper, che oggi hanno rispettivamente ventiquattro e ventun anni. «Ho cambiato cognome per loro, perché li avevamo avuti prima di sposarci, e pensavo che dovessimo avere tutti lo stesso cognome. Una cosa tradizionale». Il loro matrimonio è durato quattordici anni, segnati però da una certa malinconia.

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Alcuni avevano l’impressione che, all’ombra della fama di Sean Penn, Robin soffrisse. Che fosse uno di quei matrimoni alla Ali MacGraw-Steve McQueen, dove gli sbalzi d’umore e la maggior fama di lui avevano avuto come effetto quello di rallentare la carriera di lei. Quando le chiedo se è stato così, Robin risponde che l’idea di parlare del suo matrimonio con Penn non la entusiasma. «Non è mia abitudine parlare di quello “che non c’è”», mi spiegherà in una mail.

 

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«Guardo avanti, e non sono mai stata più felice. Il rispetto che ho per Sean, e per i nostri due straordinari figli, mi impedisce di svendere le gioie e i dolori del nostro passato, dandoli in pasto al pubblico». Qualche settimana dopo, però, mi telefona da Parigi, e si dice disposta a parlare di quel matrimonio, di ciò che ha imparato passandone al setaccio le ceneri.

 

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«Ero giovane», racconta, «ho dovuto crescere molto in fretta, ma a diventare una donna ci ho messo tanto tempo. Imparavamo sul campo. Una volta diventati genitori, abbiamo deciso che non avremmo mai lavorato contemporaneamente, perché uno dei due potesse sempre stare con i figli. All’epoca lui guadagnava più di me, per cui la decisione fu semplice: “Tu vai a lavorare, io resto con i bambini”.

 

Creativamente, poi, andavamo molto d’accordo. Recitare insieme, farmi dirigere da lui (in Tre giorni per la verità, del 1995) è stato fantastico». Volendo evitare la «bolla della celebrità», continua, «ce ne andammo da Los Angeles per far crescere i bimbi nel Nord della California». Il trasferimento non bastò a salvare il matrimonio e nel 2010, dopo varie rotture e riconciliazioni, divorziarono.

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«Credo che il senso più profondo del nostro stare insieme», conclude, «sia stato non solo l’aver messo al mondo due figli splendidi, ma anche l’aver imparato ad amare... per il futuro, nel modo giusto. Quanto a me, quello che cerco adesso, nelle persone, è la gentilezza».

 

DI REGISTI E DI REGIE

 

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Nel 2013, Robin Wright è apparsa accanto a Naomi Watts nel film australiano Two Mothers, storia di due amiche che fanno sesso una con il figlio dell’altra (personaggio che ancora oggi la turba).

 

Ma è stata la parte da non protagonista di Erika Berger in Millennium di David Fincher, tratto dal best seller di Stieg Larsson, che ha segnato per lei la svolta. Quando Fincher la portò a bere un caffè per parlarle di House Of Cards, lei gli chiese perché secondo lui avrebbe dovuto prendere in considerazione la Tv. «È un’ottima storia», le rispose il regista. «Il tuo è un ottimo personaggio, e io non la considero televisione. Per me è qualcosa che vive in una dimensione a parte, rispetto alla Tv».

 

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A noi aggiunge: «Praticamente, l’ho implorata di partecipare». Quanto all’alchimia tra i due protagonisti, Tom Hanks ritiene che Robin Wright «sia assolutamente pari a Kevin Spacey. Forse come personaggio lo supera persino, perché senti che Frank di lei ha paura, e giustamente. Per molti versi, Claire è la versione femminile del Walter White di Breaking Bad: una persona con tanti segreti e una grande consapevolezza di sé. Il mix di trama, personaggio e attrice è perfetto».

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Dice James Foley, che nelle prime due stagioni di House Of Cards ha diretto nove episodi: «La verità è che, girando la prima serie, nutrivamo tutti lo stesso sano scetticismo, e sapevamo di rischiare il flop. All’inizio ci scherzavamo sopra: “Prossimamente in streaming su tutti i dispositivi!”. Ero rimasto sbalordito, quando avevo scoperto che David era interessato al progetto». Anche Michael Kelly, che interpreta Doug Stamper, l’ex alcolista braccio destro di Underwood, aveva delle perplessità sull’inedito formato di una serie prodotta per lo streaming.

 

«Sapevamo fin dall’inizio di avere per le mani qualcosa di speciale, ma non conoscevamo Netflix. Magari non l’avrebbe guardata nessuno. E invece è fantastico: guardi oggi quanta gente ci segue». (Anche se Netflix non diffonde i dati d’ascolto, la popolarità della serie è schizzata alle stelle, e oggi ha un pubblico otto volte superiore a quello della prima stagione).

 

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UNA SPERANZA PER IL CONGO

 

Paradossalmente, proprio interpretando la moglie di un politico che accetta finanziamenti di dubbia provenienza l’attrice ha conquistato il profilo pubblico e il prestigio necessari per lanciare la sua Robin Wright Foundation, un insieme di iniziative benefiche, tra cui spicca la campagna Raise Hope For Congo di Enough Project. Robin è andata per la prima volta in Congo cinque anni fa con due membri di Enough Project, l’organizzazione non profit di John Prendergast che indaga sui crimini contro l’umanità commessi nelle zone di guerra. (Prendergast è stato capo per le relazioni con l’Africa del National Security Council durante l’amministrazione Clinton, ha collaborato con George Clooney in Sudan, e ha scritto due libri con l’attore Don Cheadle).

 

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«È stato lui a illuminarmi sul rapporto che esiste fra gli apparecchi elettronici che usiamo ogni giorno e i minerali che vengono dal Congo», spiega Robin. «In Congo viene stuprata una donna ogni 48 minuti, perché le milizie arrivano nelle regioni minerarie e demoliscono le famiglie. Comprando, noi esasperiamo il problema. Si tratta in pratica di ripulire un settore economico, seguendo lo stesso modello dei diamanti insanguinati».

 

L’anno scorso, ha lanciato Pour Les Femmes, un’«azienda consapevole» che vende una linea di abbigliamento notte creata dalla stilista Karen Fowler, parte dei cui proventi viene destinata al sostegno delle donne vittime di violenze in Africa. «Aiutare queste donne è diventata una passione», dice.

 

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«Guardandole negli occhi, capisci che le hanno spezzate. Alcune di loro non potranno mai più camminare, per la violenza con cui sono state stuprate. È una cosa che non si può descrivere». Fuori, la neve non dà tregua. Robin deve volare con la figlia Dylan a Parigi, città di cui si è innamorata ai tempi degli esordi da modella. (Anche Dylan sta lavorando come modella, per Gap, e sia lei sia il fratello Hopper «muovono i primi passi nel cinema», avendo recitato in film che usciranno l’anno prossimo).

 

 

«Laggiù la gente sa vivere», dice di Parigi, dove ha appuntamento con il suo compagno, il trentaquattrenne attore Ben Foster, conosciuto nel 2011 sul set di Rampart. L’anno scorso avevano annunciato le nozze, poi ci hanno ripensato, ma adesso sono di nuovo insieme. E sfoggiano due tatuaggi sugli anulari: «B» su quello di Wright, «R» su quello di Foster.

 

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«In vita mia, non sono mai stata più felice. Una vera signora non dovrebbe dirlo, ma io non ho mai riso tanto, né letto tanto, né ho mai avuto così tanti orgasmi come da quando sto con Ben. Mi spinge a tirare fuori il meglio di me stessa. C’è così tanto da imparare. Non si finisce mai. Ed è bellissimo! Io ci ho messo tanto tempo a crescere. L’amore diventa possibile quando si sa vivere». Detto questo, Robin finisce la sua camomilla e si prepara ad affrontare le intemperie. Come ha sempre fatto.

 

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