LE DISAVVENTURE DI UN ‘’CELEBRO-LESO’’ - CHIAMARSI CORONA E VENIRE ARRESTATI A CASCAIS, L’ESILIO DELL’ULTIMO RE D’ITALIA - ESSERE UN PALESTRATO E SCAPPARE DAL RETRO DI UNA PALESTRA A BORDO DI UNA CINQUECENTO - CERCARE PER TUTTA LA NOTTE DI SOSTITUIRLA CON UN SUV, NON RIUSCIRCI - RIMANERE BLOCCATO PER ORE DALLA NEVE CON TRENTAMILA EURO IN TASCA E NEMMENO UN BAR DOVE POTERNE INVESTIRE DIECI IN UNA PIZZA...

Massimo Gramellini per "la Stampa"

Chiamarsi Corona e venire arrestati a Cascais, l'esilio portoghese dell'ultimo Re d'Italia, magari senza neanche saperlo. Essere un palestrato milanese di corso Como e scappare dal retro di una palestra milanese di corso Como a bordo di una Cinquecento, unico elemento stonato nell'epopea del superuomo di panna montata, e infatti cercare per tutta la notte di sostituirla con un Suv, non riuscirci e passare in Cinquecento il confine al Col di Tenda. Rimanere bloccato per ore dalla neve con trentamila euro in tasca e nemmeno un bar dove poterne investire dieci in una pizza.

E poi guidare attraverso la Francia e la Spagna, immaginarsi simili a Scarface - un criminale simpatico, e nel suo pantheon morale solo un criminale può esserlo davvero - continuare la fuga fino all'oceano, sentirsi braccati e consegnarsi, ma solo dopo avere rilasciato una dichiarazione audio ai propri fan.

Consegnarsi e piangere sulla spalla di un carabiniere, come se la corazza tatuata del bullo avvolgesse un'anima di burro. Piangere e querelare chiunque osi scrivere che ha pianto: il mito del duro, del Limonov di corso Como, ne soffrirebbe. Piangere, non piangere, ma comunque trasformarsi in una vittima per il Paese dove il problema è sempre un altro e l'arresto internazionale di Corona è già diventato pretesto per ricordarsi di quanti politici impresentabili siano ancora in lista, quanti divi del nulla ancora in onda, quanti criminali economici ancora in libertà.

Di Fabrizio Corona mi ha sempre incuriosito la genesi. Se il sublime Philip Roth della «Pastorale Americana» ha indagato per quattrocento pagine sul mistero di come una famiglia perfetta avesse prodotto nel Sessantotto una ragazzina terrorista, sia concesso a un cronista sentimentale di dedicare cinquanta righe a un enigma dei nostri tempi: come ha potuto un giornalista serio e raffinato al limite dello snobismo come fu Vittorio Corona, compagno di Montanelli nell'ultima avventura della «Voce», forgiare un figlio così diverso, cinico e materialista a livelli caricaturali.

Non può bastare la teoria della mamma, consolatoria come finiscono sempre per essere le mamme, che tira in ballo l'assenza o l'eccessiva presenza nel suo sangue di qualche ormone. E nemmeno dire che Corona sia un prodotto di laboratorio del berlusconismo: l'immagine è tutto e intorno, sopra, sotto si estende il nulla. Il figlio di Vittorio è qualcosa di più: l'effetto visibile della malattia che ha devastato il capitalismo negli ultimi venticinque anni.

Quando, cessate le pulsioni ideologiche, nessuna corrente spirituale è giunta a rimpiazzarle e ci si è tutti, chi più chi meno, rassegnati a confinare la felicità al soddisfacimento dei piaceri del corpo procurati dal denaro e dalla mancanza di limiti. Il mito della bellezza palestrata, della giovinezza infinita, dei soldi da esibire e trasformare in macchine rombanti, in belen sfarfalleggianti, in mutande griffate e in fiumi di cocaina.

Perché, se la vita non ha un senso, il suo unico senso diventa provare una scarica ininterrotta di emozioni, e la sua bussola un'assenza conclamata di valori che non siano la furbizia, il cinismo, la sfrontatezza e quel modello di ribellione che consiste nel violare deliberatamente le regole con il pretesto che il potere le ha create soltanto per ingabbiare i deboli e gli stupidi.

Non è mai stato il paparazzo Corona a incuriosirmi, e neanche i suoi ricatti ai fantocci del nostro immaginario di cartapesta - calciatori, sciacquette e sciacquoni televisivi - che oggi lo conducono in galera per un numero di anni, otto, obiettivamente esagerato. Quel mondo è il suo mondo e a me non dice nulla. Mi parla di più la qualità della sua scelta fintamente sovversiva, specie se confrontata a quella che tanti figli di papà compirono nel decennio successivo al Sessantotto. La ragazzina di «Pastorale Americana» si opponeva al modello di società in cui era cresciuta cercando di distruggerlo con la forza.

Corona invece ha aderito in toto al sistema a cui appartiene per nascita, fino alle conseguenze più parossistiche. Ma, così facendo, lo ha mostrato in uno specchio deformato, rivelandocene l'essenza grottesca. Un rivoluzionario fanatico o un hippy pauperista ci inducono a rivalutare le conquiste materiali della società dei consumi. Un Corona ce le rivela per quello che sono: fiori sfavillanti nel vuoto, destinati ad appassire se non ci decidiamo a riempire quel vuoto.

 

 

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