MADRID PAZZA PER “LA MERDA”: “BRUTALE, INCONTINENTE, CHIRURGICO”: “EL PAIS” ESALTA IL MONOLOGO DI SILVIA GALLERANO -"È UNA PAROLA, MERDA, A SUO MODO DEFINITIVA, CHE NON APRE UN DISCORSO, MA LO CHIUDE"

La merda”, la piéce di Cristian Ceresoli interpretata da Silvia Gallerano incanta Madrid - Una donna nuda sul palco si libera di tutti i pregiudizi: “Molto più difficile che spogliarsi - Ma il monologo racconta anche le insicurezze del Paese, triste miscela di maschilismo, buonismo, crudeltà, ignavia e ridanciana impotenza. E di tutta la merda, questa è la peggiore”....

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Carlo Antonio Biscotto per il “Fatto quotidiano”

 

silvia gallerano la merda silvia gallerano la merda

La merda”, il monologo di Cristian Ceresoli interpretato da Silvia Gallerano che da diversi anni è un clamoroso caso teatrale, è sbarcato mercoledì sera a Madrid nella Sala Mirador del Centro de Nuevo Creadores, riscuotendo, come sempre, un clamoroso successo. El Pais ha definito la piéce “brutale, incontinente, chirurgica”.

 

Acclamato e premiato al Festival di Edimburgo nel 2012 e 2013, il lavoro di Ceresoli riempie i teatri da oltre tre anni. Da oltre tre anni le quinte si aprono su una scena vuota, disadorna al centro della quale su un trespolo illuminato da una luce fredda come il ghiaccio è seduta o, meglio, appollaiata Silvia Gallerano completamemte nuda. Perchè nuda? Quel corpo nudo è necessario o è solo uno stratagemma per épater le bourgeois?

 

“La nudità – spiega Silvia – è una scelta necessaria, inevitabile per raccontare la vulnerabilità assoluta di un personaggio che si esibisce in maniera così mostruosa, si mette a nudo nel vero senso della parola senza pudori, senza ostentazione, senza altri fini se non quello di disvelarsi”.

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Il testo di Ceresoli è molte cose e nessuna: monologo? Sì certo, in scena c’è solo Silvia Gallerano con la sua voce. Piéce teatrale? Ovviamente. Ma anche e soprattutto stream of consciousness, invettiva, confessione di una ragazza disposta a tutto pur di sfondare nell’indefinito “mondo dello spettacolo”, seduta di psicoanalisi di gruppo, j’accuse. Già dal titolo si avverte l’odore sgradevole della verità più oltraggiosa, della realtà senza veli. È una parola, merda, che raramente si scrive, ma che rientra nella normalità dei nostri tic verbali. È una parola a suo modo definitiva, che non apre un discorso, ma lo chiude.

 

La torrenziale verbosità di Silvia sulla scena è nitida e tagliente, le parole vengono scagliate contro gli spettatori da una bocca di un rosso acceso che a tratti appare smisurata e smisuratamente volgare. Il testo è vibrante, il ritmo incalzante da togliere il fiato, per quasi un’ora il pubblico è investito da una pioggia torrenziale di pugnalate che vanno al cuore, alla mente, alla coscienza.

 

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Silvia sulla scena si toglie i vestiti e si libera di tutti i pregiudizi: “Liberarsi dei pregiudizi è molto più difficile che spogliarsi – spiega Silvia. Tutti sono capaci di togliersi gli abiti, pochi hanno il coraggio di mostrare la propria anima. L’invettiva è, al contempo, semplice e complicata.

 

Un po’ come la vita sprecata nel dissennato inseguimento del successo e del benessere, stravolta dal consumismo sfrenato, dilapidata in una corsa affannosa verso il nulla: “Sin dalla prima volta che ho letto il testo, mi è stato chiaro che il mio personaggio è una specie di coscienza comune. È stato traumatico vedere come un’opera così poetica potesse diventare spietatamente reale”, dice ancora Silvia.

 

Ma oltre che pièce, La merda è anche una straordinaria performance, un capolavoro di arte plastica, una scultura vivente e mutevole nella quale la fisicità della materia viene plasmata e l’immaterialità delle parole viene modulata dando vita al mostro che abita ciascuno di noi. Obiettivo del monologo è raccontare le insicurezze della protagonista che ha perso il padre, ha una madre inadeguata, le cosce troppo grasse e deve subire le continue aggressioni sessuali di uomini squallidi e laidi.

 

Ma il monologo racconta anche le insicurezze del Paese, triste miscela di ruvido e compiaciuto maschilismo, buonismo, crudeltà, ignavia e ridanciana impotenza. La pelle nuda di Silvia emana un bagliore accecante e le sue mille voci sono proiettili, sassi, grida, lacrime che trafiggono gli spettatori nella carne viva.

 

Ed è proprio il suo stare nuda in scena, il suo rinunciare a qualsivoglia diaframma tra il suo corpo dolente e chi lo guarda, che trasforma lo spettacolo teatrale nella ricerca di una coscienza comune, di un modo condiviso di vivere la disperazione e di inventarsi una speranza.

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Ma il Paese è davvero orrendo come Silvia lo descrive? Davvero bisogna “darla” per far strada nel mondo dello spettacolo? Quella donna nuda in scena disprezza se stessa e l’Italia e, in un finale di parossistico istrionismo, racconta un attacco di diarrea e vaneggia di mangiare i suoi escrementi. Non fa la stessa cosa anche l’Italia?, sembra suggerire.

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La presenza scenica di Silvia ha del prodigioso: “Il personaggio in questi tre anni non ha fatto che cambiare, che sfuggirmi, scivolarmi tra le mani. È come se non potessi affarrarlo. A volte è estremamente vulnerabile, ma in certi momenti dà la sensazione di non avere più sentimenti. E di tutta la merda di cui parlo, questa è la peggiore. I difetti, le colpe, gli errori ci rendono umani. Il mondo in cui viviamo spesso ci rende disumani”.

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